La donna non è soltanto sangue e senso di colpa

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La donna non è soltanto sangue e senso di colpa
Le quattro attrici. Foto Dražen Šokčević

È andato in scena nell’ex magazzino dell’Exportdrvo di Fiume lo spettacolo “Cure” (Ragazze) del Collettivo Igralke, giunto alla ribalta qualche anno fa per gli spettacoli di tipo documentaristico. Anche se finora con gli spettacoli “Plastika fantastika” (2019), “Bakice” (2020) e “Crna vuna” (2022), le autrici hanno voluto parlare di categorie al margine della società, lo spettacolo “Cure”, diretto da Tjaša Črnigoj, parla di loro in prima persona, ma anche di tutte le donne che vi si possono riconoscere. Sulla scena di “Cure” ci sono le attrici Sendi Bakotić, Ana Marija Brđanović, Anja Sabol e Vanda Velagić, mentre autrice del progetto è anche Tijana Todorović, la quale è coautrice dell’impianto tematico e dei costumi. La scenografia è di Ivan Botički, l’autrice dei video è Mara Prpić, le luci sono di Marin Lukanović e Tjaša Črnigoj.

Spettacolo senza tabù

La messinscena si svolge di fronte a una tela bianca sulla quale vengono proiettate le immagini di cui parlano le protagoniste. Anche il pavimento è bianco, proprio come i vestiti delle attrici, dei lunghi abiti che ricordano i costumi tradizionali del folklore croato. Le protagoniste spiegano che vogliono parlare delle ragazze, delle donne, e di come nella lingua croata il termine “cura” deriva dal verbo “curiti” o scorrere e indica le perdite mensili di sangue dovute alla mestruazione. Già nel nome, dunque, le donne in giovane età vengono contrassegnate dal fatto di avere il ciclo.
Quello che colpisce maggiormente lo spettatore, quando la prima attrice inizia a parlare di sua nonna e di come perse la verginità nel lontano 1956, è proprio il fatto che temi di questo genere solitamente non vengono trattati in pubblico, soprattutto non dal “gentil sesso”, che dovrebbe provare pudore a parlare di cose così intime. Il Collettivo Igralke, invece, si mette a nudo e decide di raccontare ciò che le norme sociali ci impongono di sottacere, ma che in realtà è assolutamente normale e naturale: la nostra sessualità.

Silenzio e violenza

Nel 1956, nel paese di Vukosavljevica, nei pressi di Virovitica, la nonna di una delle protagoniste perde la verginità nei campi a meno di 16 anni d’età. Il padre, venuto a conoscenza del fatto che la figlia è stata avvistata con dei ragazzi, la picchia a sangue con la cintura di cuoio. I colpi della pelle sul pavimento dell’Exportdrvo e il sangue che schizza fanno venire la pelle d’oca al pubblico e qualcuno si alza e decide di andarsene. Questa è soltanto la prima di una serie di scene molto forti nelle quali l’innocenza del bianco viene macchiata con litri e litri di vernice rossa. Tornando alla generazione delle nonne, all’epoca le ragazze non avevano accesso ad alcun metodo contraccettivo e gli aborti venivano fatti “privatamente”, ovvero in casa di un’ostetrica. Il rischio era di pagare quell’interruzione di gravidanza con la salute, la fertilità o la vita. La nonna della protagonista decide quindi di partorire all’età di 17 anni. Sullo schermo dell’Exportdrvo il pubblico può vedere la foto della nonna, del nonno, nonché alcune frasi relative alle leggi dell’epoca, che prevedevano l’aborto soltanto in rari casi. Mentre lo spettatore segue le immagini, le protagoniste stendono ad asciugare le mutandine insanguinate.

Foto Dražen Šokčević

Il risveglio degli anni Settanta

La generazione successiva, quella delle mamme, ha una giovinezza più spensierata e un’educazione meno restrittiva. Negli anni Sessanta nelle scuole viene introdotta l’educazione sessuale, mentre nel 1974 nella Costituzione jugoslava viene sancito l’accesso alla contraccezione e all’aborto. Nonostante questo cambiamento legislativo le mamme spiegano che a scuola si studiava poco o niente sul sesso e sui modi come proteggersi dalle gravidanze non volute e dalle malattie sessualmente trasmissibili. La comunicazione in famiglia su questi temi era inesistente. I genitori non parlavano coi figli del sesso, che continua a venire considerato un tema scottante, da toccare soltanto coi coetanei e trasmettendo spesso informazioni errate.

La parte più interessante dello spettacolo è la terza e ultima, perché parla della generazione delle attrici, ora trentenni. Le ragazze, che hanno raggiunto la maggiore età all’incirca all’inizio degli anni Duemila, raccontano come e quando hanno perso la verginità, in che posa e con quali conseguenze. Anche se parliamo di “soli” vent’anni fa, la conoscenza dei metodi contraccettivi è scadente e la comunicazione coi genitori riguardo al tema del sesso pressoché inesistente. Una delle attrici a vent’anni rimane incinta e decide di abortire. Un’altra non ha il ciclo perché soffre di anoressia. In tutti i racconti c’è un filo rosso che unisce le esperienze delle ragazze: il senso di colpa. Ogni nuova esperienza, ogni nuovo ragazzo incontrato le fanno sentire inadeguate, facili. “Puttana”, si ripetono dopo aver fatto sesso senza impegno. Ma perché, a distanza di un ventennio, parlarne di fronte al pubblico?
La risposta arriva in un testo pubblicato nel giornalino scolastico del ginnasio di Fiume, “Kult”. L’autrice, Vita Tijan, una studentessa di 17 anni, parla della necessità di ridare alle ragazze il controllo sulla loro sessualità e il loro corpo, in modo da spezzare finalmente questo circolo vizioso di sopraffazione e silenzio. Il passato non è passato, ci insegna lo spettacolo “Cure”, e le nuove generazioni aspettano con impazienza una svolta nei rapporti tra i sessi.

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