Ivan Pavlov: «Non risciacquo i miei panni in Arno»

Il poeta umaghese racconta la sua passione per la poesia e per i grandi autori, continua fonte di ispirazione

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Ivan Pavlov: «Non risciacquo i miei panni in Arno»
Ivan Pavlov. Foto: NICOLE MIŠON

La giuria di “Istria Nobilissima” lo ha definito “istriano-neogotico”, anche se lui dice di immedesimarsi di più in un uomo rinascimentale. Ivan Pavlov, laureato in Lettere e in storia dal medioevo all’età contemporanea, con un interesse particolare alla storia politica ed economica statunitense presso l’Ateneo di Trieste, è immerso nella cultura e ama particolarmente i vocaboli e le loro mille sfaccettature. Il poeta umaghese è una di quelle persone “d’altri tempi”, il quale si diletta nell’esercizio della scrittura raffinata, attraverso la ricerca minuziosa del lemma più consono e musicale da inserire al posto giusto. La sua non è un’opera scritta di getto, ma si avvicina di più a un lavoro filologico e certosino, nel quale scrive, corregge, cambia, cancella, rivede i versi, fino a ricalcare le orme di alcuni dei suoi poeti di riferimento: Pascoli e D’Annunzio, solo per citarne alcuni.

Pavlov, grazie alla sua raccolta poetica “Anemoscopio infranto”, ha vinto la LVI edizione di “Istria Nobilissima” nella categoria Letteratura, aggiudicandosi il premio “Osvaldo Ramous” dedicato alla poesia in lingua italiana con la seguente motivazione: “Testi dotti che riutilizzano topoi classici, anche con efficace ironia, e che fanno riferimento a un contesto istriano-neogotico; la versificazione allude e si compiace del tono e dei modi dell’erudizione”.

Non si tratta di un lavoro decifrabile a prima vista, è necessario soffermarsi sulle parole, sul loro significato e andare a ricercare riferimenti e connessioni con un contesto molto più ampio che è la storia istriana, raccontata attraverso un linguaggio alto e selettivo.

È la prima volta che partecipa a «Istria Nobilissima»?
“Ho partecipato diverse volte al concorso. Nel 2011 alla raccolta intitolata ‘L’eterna tenebra del tempo immemorabile’, è stata assegnata una menzione onorevole. Mi sono preso una decennale pausa di riflessione prima di partecipare nuovamente”.

Ha scritto la raccolta poetica appositamente per questo concorso, oppure ha deciso di parteciparvi in seguito?
“La maggior parte delle liriche è nata prima del concorso, ma l’idea della raccolta e la sua strutturazione programmatica sono frutto della volontà di partecipazione”.

La nonna e la letteratura
Come si è avvicinato alla poesia?
“Mia nonna Lucia era una grande appassionata di Pascoli e Carducci e mi ha trasmesso l’amore per la lingua e la letteratura italiana”.

Perché ha deciso di dedicarsi alla letteratura? C’è stato qualche episodio in particolare che l’ha spinta in questa direzione?
“Verba volant, scripta manent, oppure se vogliamo, ‘carta canta e vilan dormi’. Secoli di storia letteraria ci separano da quelle popolazioni che ci hanno lasciato poco di sé e la cui cultura, spesso anche millenaria, è persa per sempre o ricostruita a fatica. Il fatto che io, specie col cognome che mi ritrovo, scriva in italiano in Istria nel XXI secolo è inspiegabile senza prendere in considerazione tutto ciò che va da Roma alla Croazia. In questo senso, ogni episodio del mio passato personale e familiare mi ha spinto alla letteratura”.

Cosa rappresentano per lei la letteratura e la scrittura?
“Ho dovuto chiedermi, spronato illo tempore da un docente, se fossi un istriano che parla un dialetto italiano, o un italiano d’Istria. Non è una domanda da poco, specie se uno di cognome fa Pavlov e la prima domanda che mi viene posta è se sia russo. Esprimo al meglio ciò che penso in versi in lingua italiana, anche se il sostrato dialettale è volutamente presente. Non risciacquo i miei panni in Arno, grazie alla lezione del ‘Martin Muma’ di Zanini, che scrive in un italiano che profuma di Rovigno. Il che potrebbe rendere il mio italiano un po’ esotico, un po’ straniero. Di frontiera, insomma. Delle nostre genti si dice spesso siano italiani due volte, per nascita e per scelta. Io ci aggiungerei che si può essere italiani per volontà. L’importanza di ciò, tuttavia, nel nostro quotidiano, in un’Unione europea post-nazionale, mi elude, per ora”.

Un cuore spezzato
Ci spiega il perché per la sua raccolta ha scelto il titolo «Anemoscopio infranto»?
“L’anemoscopio è uno strumento che indica la direzione di un vento. Ogni poesia richiama un vento, da bora a tramontana. Tuttavia, leggendo tra le righe, uno può vedere l’anemoscopio infranto come un cuore spezzato. Nell’anno precedente il concorso ho subito una serie di lutti che hanno portato al titolo. La raccolta, in origine, doveva chiamarsi ‘La rosa dei venti’”.

Il mare è un tema preponderante nella sua opera. Quanto è importante questo elemento nella sua vita? L’essere vissuto a Umago ha influito su questa scelta?
“Il mare è più che altro simbolico, poiché metafora dell’infinito, del viaggio e del desiderio di raggiungere un qualcosa di difficilmente ottenibile. Tuttavia, è innegabile che vivere vicino alla costa porti più facilmente a immedesimarsi con mare e vento, invece di montagne innevate”.

La sua è una poesia ricercata e attenta ai dettagli, da dove nasce l’ispirazione? Come affronta la scelta delle parole da utilizzare?
“Sono un avido lettore di dizionari. Ogni tanto m’imbatto in qualche vocabolo interessante e me lo appunto in una lista che è diventata perniciosamente lunga. Arcaismi e tecnicismi sono un chiaro riferimento alla lirica dannunziana e pascoliana. Qualche volta una parola è talmente folgorante che finisce col generare un’intera composizione, come nel caso dell’aggettivo ‘Ctonia’, titolo della terza poesia della raccolta, ispirata dagli scritti di Biagio Marin”.

Un altro tema ricorrente nel suo lavoro è quello del passato e della memoria, che cosa rappresentano per lei?
“Il senso del passato, e la memoria dello stesso, sono ciò che ci definisce e ci separa dagli animali. Abbiamo coscienza di sé, delle nostre azioni e di quelle dei nostri antenati. Chi è venuto prima di noi ha sofferto molto, per regalare alla nostra generazione un benessere inimmaginabile. Dobbiamo loro, se non altro, un senso di gratitudine e pietà umana. Ricordarli è anche un buon metodo perché non vengano a tirarci per i piedi la notte”.

Testi dotti e topoi classici
Nella motivazione del premio c’è scritto: «Testi dotti che riutilizzano topoi classici, anche con efficace ironia». Quant’è complesso strutturare un lavoro che parli di «miti» e allo stesso tempo fare dell’ironia? Perché ha voluto intrecciare questi due elementi?
“Qualche volta occorre saper ridere sul serio, per dirla alla Franco Franchi. Non sono venuto dal nulla, ma mi colloco come tutti in seguito a un passato letterario, storico e culturale, frutto del lavoro di giganti dell’arte. Il che è un luogo letterario di per sé, come il fatto che io sia solo un nanerottolo sulle loro spalle. Poi perché da istriani si è sempre anche un po’ istrioni. Per quanto uno scriva in italiano, da queste parti uno non può non essere contagiato dall’umorismo di Carpinteri, Faraguna e Zuane de la Marsecia, ma anche da Svevo o Saba. Uno ha un po’ questa doppia anima: da una parte l’aulico, dall’altra l’osteria”.

È difficile coniugare l’aulico con i toni dell’osteria?
“Se si pensa all’Odissea, è un’opera che per secoli è stata tramandata dai cantori a voce e sicuramente all’epoca non veniva declamata con lo stesso linguaggio aulico in cui la leggiamo noi oggi. In seguito i trovatori medievali hanno continuato a ‘girare’ recitando le loro liriche. È un processo che fa parte della nostra tradizione”.

Nella sua raccolta l’Istria e la cultura classica sono tematiche ricorrenti, che cosa l’ha spinta in questa direzione?
“L’incipit dell’Istria nobilissima di Caprin, scritto dalla moglie dello scrittore, rivela quanto lo studioso volesse ‘fare tesoro di tutte le memorie che valessero a rivelargli la nobilissima fisionomia dell’amata sua terra’. L’Istria, è una regione europea ricca di cultura. Non dobbiamo avere paura di richiedere a gran voce la nostra dignità culturale, sia in Italia sia al di fuori di essa”.

Nelle sue poesie riprende episodi storici del passato istriano, che oggi sono divenuti quasi leggenda, come mai? Ad esempio, in «Rubacampane» si rifà all’episodio in cui i buiesi rubarono le campane ai piranesi. Perché riproporre questi temi oggi?
Ricollegandoci alla domanda precedente, l’episodio in questione ha una qualità umoristica quasi pirandelliana. Mia Nonna era buiese e mi sono divertito a descrivere le imprese dei miei antenati caricando i toni, come se si trattasse di uno scontro epico tra grandi potenze. Il tema è curiosamente importante, tuttavia. Per lo stesso confine tra Buie e Pirano non vi è ancora oggi un contenzioso tra due paesi? Forse si tratta di eterno ritorno, anche se ignoro quale sia la tragedia e quale la farsa. Una poesia inversamente speculare è ‘La beffa’ che rimanda all’impresa dannunziana a Buccari. Da una parte, l’episodio storico in sé, frutto di un’audacia che sfiora la temerarietà. Dall’altra il fatto che i turisti venuti da noi per mare, sole e buon cibo non sappiano nemmeno quale fosse l’importanza di quell’azione, il che è una beffa maggiore”.

Le imprese dannunziane non sono forse sopravvalutate? Non sarebbe meglio concentrarsi sulla sua eredità letteraria?
“L’impresa di Buccari non aveva un valore strategico, però ha alzato il morale agli italiani, è un ottimo modo di fare propaganda. Trattandosi di D’Annunzio il primo pensiero andava a sé stesso, ma al di là del narcisismo ha fatto molte cose degne di nota. Dal punto di vista letterario purtroppo è stato associato al fascismo e quindi relegato in disparte, facendo finta che la sua opera letteraria non sia di una bellezza e una raffinatezza squisite”.

La sua è una poesia molto dotta, non comprensibile a tutti. Qual è il suo pubblico ideale? Al giorno d’oggi si tende a semplificare, lei perché ha scelto di percorrere un’altra via?
“Se avessi voluto un pubblico vasto, avrei fatto meglio a scrivere uno sceneggiato per una serie televisiva. La poesia non è un’arte popolare, quindi mi permetto un registro linguistico aristocratico, se vogliamo ironizzare. Scherzi a parte, credo che semplificare la lingua sia un insulto all’intelligenza dei lettori. Ho voluto offrire un testo che tratti chi legge come persona dotata di cervello e curiosità. Il motivo è anche un altro. L’arte contemporanea è spesso anestetizzante, nel senso che non provoca estasi, ovvero quel senso di stupore, di sentirsi fuori di sé per essersi imbattuti in qualcosa di incredibile o incomprensibile. Per questioni di tempo, forse anche di vendita, si tende a semplificare molto, a rendere tutto un’esperienza veloce. L’appiattimento linguistico e culturale non stupisce, non aiuta, non edifica. Una letteratura da fast food non mi interessa”.

Per concludere: quali sono i suoi progetti futuri?
“Sto progettando un romanzo storico, vedremo se l’idea andrà in porto. Sono nella fase della pianificazione e dello sviluppo degli intrecci. Sto pensando di ambientare la storia a Fiume durante la Reggenza italiana del Carnaro. È un periodo molto affascinante, interessante e particolare”.

«Rubacampane»
Batte il grecale la rocciosa costiera
dell’ultima Thule peninsulare
e formano l’onde merletti aviti.
Si risveglia nel canneto un fauno,
suona una siringa misteriosa.
S’apre una buca, una catacomba nel tempo,
là, dove si scontrarono per un pugno di sale
il mellifluo mercimonio marciano
e la pia sentinella patriarchina.
Rivedo l’impavida mia gente cavalcare
il drago che dai monti sinuoso discende
per raggiungere la rivale ed espugnare
la sacra squilla nell’ora della procella.
La ferita si rimargina in fretta,
i fantasmi svaniscono nell’ombra segreta.
Restano a margine della cartapecora
certosine miniature di lari sbiaditi
che ridono della nostra memoria fugace
e delle gesta comuni che nessuno cantò…

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