Robert Doričić: «Il seianese è la lingua delle mie emozioni»

Chiacchierata con il professore assistente, originario di Žejane da parte del padre, sul suo profondo attaccamento al dialetto locale, che considera, accanto al ciacavo, il suo idioma madre

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Robert Doričić: «Il seianese è la lingua delle mie emozioni»
Robert Doričić. Foto Željko Jerneić

Il sentimento di appartenenza comunitaria dovrebbe essere parte imprescindibile della nostra persona, amalgamato a tal punto da essere facilmente percepibile, senza doverlo per forza ostentare per dimostrare che c’è, che è dentro di noi. Soltanto così può risultare autentico e privo di filtri, fondamentale per il mantenimento di quel qualcosa che si chiama identità nazionale. In un momento storico in cui, nel contesto in cui viviamo, ormai profondamente globalizzato risulta, a volte, forse un po’ difficile mantenere la sovranità nazionale, nel caso più concreto quella identitaria, preservare la stessa si presenta come una sfida non indifferente. Curarla e tutelarla, appunto, per preservarla da un suo indebolimento, e in una situazione estrema, da una sua potenziale estinzione.

Dialetti, specchio di vita

Uno degli elementi fondamentali che contraddistinguono una nazione da un’altra è la lingua madre, ma ciò che maggiormente caratterizza un popolo sono i dialetti, vero specchio di vita, o meglio, di modo di vivere, di abitudini, di usanze, di tradizioni, di quotidianità, ancor di più di quello che può esserlo il linguaggio standard. Parlando di mero significato della parola dialetto, va detto che si tratta (citando l’Enciclopedia Treccani) di un “sistema linguistico adoperato in un ambito geografico limitato, che non ha raggiunto o che ha perso diffusione e prestigio di fronte a un altro sistema linguistico diventato dominante e riconosciuto come ufficiale, cioè la lingua nazionale”.

E poi ancora, “secondo le formulazioni più recenti, il vecchio assunto di un dialetto inteso come entità autonoma e ben distinta dalla lingua è stato sostituito dalla considerazione della complessità della realtà linguistica, per cui il dialetto, non più unità compatta, ma insieme di sottovarietà, va analizzato in rapporto alle altre varietà del repertorio linguistico con cui esso si trova a contatto. All’interno di un territorio – si legge ancora su treccani.it – i cui dialetti appartengono alla stessa famiglia, spesso è difficile dire dove un dialetto cessi e dove ne cominci un altro, poiché le peculiarità dialettali si sovrappongono; si ricorre perciò di solito alla scelta di un certo numero di peculiarità, e si segnano poi i confini dove queste peculiarità nel loro insieme vengono a cessare”. Una citazione, questa, che può essere capita fino in fondo soltanto da chi vive e considera il proprio dialetto come la propria lingua madre, come parte imprescindibile di sé, della propria identità e appunto appartenenza a un dato territorio. Può valere per contesti diversi, aree geografiche anche molto distanti l’una dall’altra, ma il concetto è sempre lo stesso: il dialetto è vita. È lingua, la lingua dell’emozione, dell’anima e l’anima è la lingua della cultura.
Lo sanno bene gli appartenenti alla Comunità Nazionale Italiana che vivono in Croazia, con riferimento particolare all’area istro-quarnerina, i quali conoscono benissimo le difficoltà che si riscontrano nel mantenimento del linguaggio dialettale, questo idioma (o meglio idiomi) che, proprio per il contesto in cui viene vissuto e parlato, rischia un giorno di sparire del tutto.

Di gran lunga migliore, in queste stesse terre, ma anche sulle isole dalmate e in generale sulla costa croata, è la situazione relativa al ciacavo, che sembra ancora resistere e mantenersi abbastanza bene pure tra le giovani generazioni.

Una bambola indossa il costume tradizionale della zona. Foto Željko Jerneić

In pericolo di estinzione

Un argomento a parte è quello relativo ai dialetti quali ad esempio il seianese e il valacco, due varianti dell’istrorumeno, che rientrano al giorno d’oggi nella categoria di quelli “seriamente in pericolo di estinzione” proprio per il numero sempre più limitato di parlanti. Abbiamo approfondito l’argomento con Robert Doričić, professore assistente presso la Facoltà di Medicina e di quella di Studi sanitari dell’Università di Fiume, il quale essendo di padre seianese ha mostrato sin da piccolo un profondo interesse verso questo idioma così particolare, che lui in effetti non parlava in casa, dove quello dominante era invece il ciacavo. Questo grande amore verso il seianese – suo padre è nativo appunto di Žejane (Seiane), piccolo paese nell’entroterra abbaziano, dove ci sono ancora pochissimi parlanti nativi di questa lingua a rischio di estinzione –, lo ha portato negli anni a includersi attivamente in una serie di iniziative volte alla tutela di questo dialetto, che lui stesso definisce la sua seconda lingua, assieme al ciacavo. Uno dei progetti a cui Robert Doričić ha partecipato è denominato “Mantenimento dei linguaggi seianese e valacco”, quest’ultimo tipico di Šušnjevica in Istria, che lo ha portato a conoscere ancora più a fondo le proprie radici e a scoprire alcune cose che fino a quel momento non sapeva riguardo ai suoi avi. È stato, inoltre, per una decina d’anni, presidente dell’ex associazione “Žejane”, che si occupava di promozione e tutela di questi due idiomi.

“Sebbene io consideri il ciacavo la mia lingua madre, in quanto lo parlo sin dalla nascita essendo mia madre originaria di Draga di Moschiena, dove sono cresciuto e dove ho trascorso gran parte della mia infanzia – ci ha raccontato –, con il seianese ho un legame profondo, di grande affezione, che mi tiene legato alle mie origini. Da piccolo non lo parlavo, poiché mio padre non ha cercato di impormelo, ma lo sentivo ogniqualvolta andavo dai miei nonni paterni a Žejane, dove in effetti loro e il resto dei parenti si rivolgevano a me in ciacavo, mentre tra di loro e con i vicini di casa parlavano questa lingua che, alle mie orecchie, suonava talmente strano, che mi aveva incuriosito sin da subito. Mi intrigava a tal punto, che volli a tutti i costi impararla. Ricordo che avevo cinque o sei anni quando cominciai a masticare le prime parole e poi, a piano a piano, a costruire le prime frasi in seianese, che a mio avviso è una lingua meravigliosa. Uno dei motivi per cui desideravo acquisirla era anche il fatto che mi interessava ciò che i miei parenti parlavano tra di loro e che io, non conoscendola, non ero in grado di capire”.

Amore verso le proprie origini

Abbiamo interpellato Robert Doričić esclusivamente come parlante attivo del seianese e grande appassionato dello stesso, e non invece in qualità di linguista, che appunto non è, per cui ciò che abbiamo appreso in un’oretta di piacevolissima chiacchierata, è stata una testimonianza di vita vera, di usanze e tradizioni, di amore verso le proprie origini, la propria identità locale. Un racconto in cui è trasparso il suo grande attaccamento alla sua famiglia d’origine, in questo caso quella paterna – la sua famiglia era nota come “lu Ovčarić/Doričićevi” –, e la sua voglia di conoscere a fondo le proprie radici e la vita dei suoi antenati, che non ha mai avuto modo di conoscere, ma che è riuscito in qualche modo a vivere attraverso documenti e fotografie da lui trovate durante alcune sue ricerche effettuate quand’era già adulto. “Non posso dire con precisione quanto è durato il mio processo di apprendimento del seianese. So soltanto che è stata una cosa naturale; un giorno mi sono reso conto di essere in grado di parlarlo con i miei parenti e anche con mio padre, con cui ho sempre parlato soltanto in ciacavo. Il passaggio al seianese, nelle mie interazioni con lui, è stata una cosa quasi ovvia e oggi, tra noi, lo parliamo esclusivamente. Quando mi riferisco al seianese, per me è la lingua delle emozioni, la lingua che mi lega a Žejane, ai miei ricordi d’infanzia. Perché tengo a precisare questa cosa? Perché al giorno d’oggi, è andato purtroppo quasi perdendosi: i giovani del paese non lo parlano, anzi non parlano neppure la variante ciacava dell’abitato più vicino, bensì prediligono l’uso del croato standard nella loro comunicazione, il che mi suona abbastanza sterile. Questa, però, non è una critica, bensì una semplice constatazione relativa a un naturale evolversi delle cose, a un processo che non riguarda soltanto il seianese, ma credo un po’ tutte le lingue minoritarie, dialettali. In tutto questo svilupparsi delle cose, soltanto chi è davvero sensibile verso una lingua, un dialetto, un idioma, può rimanerne in qualche modo turbato. Dobbiamo essere consapevoli che le lingue nel tempo cambiano, si modificano, assimilano altre parole, altri suoni. È compito, pertanto, degli abitanti di un determinato luogo insistere nel trasmetterle alle giovani generazioni e tramandarle nel tempo affinché possano mantenersi. Spesso, però, succede che questi stessi parlanti nativi di una lingua, di un dialetto in via di estinzione, si chiudano in una specie di guscio e sembrino restii a farci entrare qualcuno, come se fossero gelosi di ciò che hanno e non volessero condividerlo con gli altri. È come se non ritenessero altre persone, dei parlanti veri di questa lingua, e di conseguenza volessero escluderle dal loro mondo. Da una parte abbiamo sempre meno parlanti nativi di un determinato idioma, e dall’altra il fatto che questi stessi parlanti si limitano alla loro cerchia e non vogliono condividerla con gli altri. Me lo sono sentito raccontare spesso chiacchierando con le persone originarie del posto, che in passato quando in famiglia arrivava un nuovo membro proveniente da un altro paesino e parlante un dialetto diverso, che tentava di integrarsi e di acquisire la lingua del posto appunto parlandola, veniva puntualmente zittito da qualcuno appartenente a quello stesso nucleo familiare e invitato a limitarsi a parlare il proprio dialetto, in quanto non aveva la giusta cadenza o il corretto accento. Erano, dunque, loro stessi a demotivarlo nella sua voglia d’impararlo, sebbene questi si mostrasse molto motivato a farlo. I motivi per cui succedeva questo, possono essere vari. D’altra parte, uno dei problemi di una lingua può essere rappresentato dal fatto che essa rende le persone diverse le une dalle altre. Se si vuole fare parte di una comunità più ampia, è ovvio che nel suo ambito non si voglia sentirsi diversi dagli altri. Ad esempio, se un bambino che arriva in una scuola in cui si parla la lingua standard non conosce la stessa, bensì soltanto il proprio dialetto, può facilmente diventare oggetto di stigmatizzazione, o per usare un eufemismo meno grave, di derisione da parte degli altri bimbi. In passato cose simili succedevano spesso in queste aree”.

Stretti contatti con altre realtà

“Quando parliamo di seianese, parliamo di una lingua romanza, che non ha nulla a che vedere con il ciacavo, seppure contenga tantissime parole dello stesso, in quanto i seianesi sono vissuti sin dal XVI secolo a diretto contatto con gli abitanti dei paesini limitrofi, dove si parlava il ciacavo, e che pertanto ne ha acquisito determinate terminologie. Il seianese contiene inoltre parole in dialetto veneto e in sloveno. Ad esempio, glåž significa bicchiere, špegla è specchio, šumajštaru è insegnante, šula è scuola, šuštaru è calzolaio, miza è tavolo, katrida è sedia, bigule ši fažo sono pasta e fagioli, e via dicendo. Queste parole rispecchiano gli stretti contatti dei seianesi con altre realtà. Il seianese, come ho detto poc’anzi, rientra nel gruppo delle lingue romanze e appartiene all’istrorumeno, che è uno dei quattro dialetti storici del rumeno accanto al meglenorumeno, l’arumeno e il dakoromeno. Dell’istrorumeno fanno parte appunto il seianese e il valacco, di cui il primo si parla a Žejane, che è la variante settentrionale, e il secondo a Šušnjevica e circondario, che è la variante meridionale. Šušnjevica al giorno d’oggi fa parte del territorio istriano, è situata sulle pendici del Monte Maggiore, ma ciò che caratterizza i dialetti che si parlano in queste due località è il fatto che i loro stessi abitanti non considerano il loro dialetto una variante istrorumena, bensì lo chiamavano da sempre lingua seianese nel caso di Žejane e lingua valacca nel caso di Šušnjevica e dintorni. Perché lo dico? Perché quando lavoravamo sul progetto relativo alla tutela di questi due idiomi, bisognava sottolineare questa cosa delle lingue seianese e valacca, in quanto verso la seconda metà del XIX secolo il concetto di istrorumeno veniva usato a fini politici, in un’epoca in cui cresceva il significato di identità nazionale e si formava il giovane Stato rumeno. Spesso, allora, veniva puntualizzato il fatto che nel caso dei seianesi e dei valacchi, si trattava di cittadini rumeni in Istria, ovvero di una minoranza rumena in terra istriana, il che non andava a genio agli stessi, siccome non si sentivano affatto tali”.

Un pezzetto di vita degli avi

Ritornando al discorso di prima, è stato proprio grazie ad alcuni linguisti dell’epoca, che andavano da paesino a paesino per raccogliere e documentare per iscritto le testimonianze sulle abitudini di vita e sulla lingua degli abitanti di ogni singolo posto, che Robert Doričić è riuscito a riconoscere in alcune foto e in alcuni scritti i suoi bisnonni. “È stata per me un’emozione fortissima visto che non esistevano fotografie o altri documenti relativi alla vita dei miei antenati: tutto era andato distrutto nel 1944, dopo che è stato dato fuoco al paese. Grazie al mio ingaggio nel progetto, sono giunto a contatto con questo volume del 1931, in cui ho scoperto una foto della mia bisnonna Apolonija, detta Polina. In un altro libro ho trovato, invece, una testimonianza resa dai miei bisnonni quando questi etnologi dell’epoca erano giunti in casa loro per farsi raccontare la quotidianità del paese. Ho letto, dunque, una frase pronunciata dalla padrona di casa, che faceva: “Me voj ofendi se nu vec vla” (“Mi offenderà se non vorrà (un caffè, nda)”. In realtà, il testo di questo volume è in rumeno, ma questa frase è scritta in seianese. Coloro che raccoglievano queste testimonianze avevano scelto di venire dai miei parenti per il fatto che mio bisnonno Mate suonava il mantice e a loro interessava sentire qualcosa riguardo all’uso di questo oggetto. Nel capitolo relativo a ciò si può leggere, pertanto, quello che mio bisnonno raccontò loro all’epoca, la sua spiegazione relativa al mantice, come si usava, come funzionava, ecc. In base a ciò, io ho avuto modo di conoscere un pezzetto di vita dei miei avi e a ricostruire, in un certo senso, il passato della mia famiglia. Per me è stata una scoperta fondamentale. Come è stato eccezionale – ha proseguito Doričić – leggere quanto ha scritto un antropologo in relazione al fatto che, all’inizio del XX secolo, a Žejane le donne parlavano esclusivamente il seianese, al limite il ciacavo, mentre tra la popolazione maschile si potevano sentire anche altre lingue quali ad esempio il tedesco e l’inglese, e dialetti quali il veneto. Ciò era dovuto al fatto che già dalla metà del XIX secolo gli uomini migravano in cerca di lavoro in America, anche in quella meridionale, in Australia, o in altri Paesi d’Europa, dove appunto acquisivano queste lingue. Inoltre, su decreto dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, gli abitanti maschi di Žejane e dei vicini paesini di Male e Vele Mune, che sono parte della stessa microregione, avevano il permesso di vendere, come venditori ambulanti, l’aceto sul territorio austriaco e in seguito austro-ungarico. Anche in questo modo acquisivano nozioni di altre lingue, che poi mescolavano con la propria”.

Un mondo fantastico

“Preparandomi per quest’intervista e pensando a quello che avrei voluto raccontare una volta ci saremmo seduti per realizzarla, mi è venuta in mente la volta in cui per le necessità del progetto a cui ho partecipato avevo interpellato la prof.ssa Ana Legac, originaria di Žejane, venuta a mancare l’anno scorso, che era stata anche segretaria di Cattedra del Sabor ciacavo di Abbazia e come tale rappresentava per me una grande autorità. Non dimenticherò mai quel colloquio, che mi ha aperto un mondo fantastico, ma soprattutto per il fatto che una volta giunti nella sua casa natale a Žejane e nel momento in cui stavamo per iniziare, ovviamente parlando in seianese, io mi ci ero rivolto dandole del lei e dicendole: “Akmo rem kuvintå de avostra življenje an Žejan, kand ac fost mika” (“Ora parleremo della sua vita a Žejane, di quand’era piccola”). Lei mi aveva interrotto immediatamente dicendomi: “Robert, an Žejan se ziče ‘voi’ samo a do de jelj: lu måja lu omu ši lu sutalu ali sutla. Kum jo nu sam ni uro ni åto, kand kuvinci ku mire am ver ziče ‘tu’” (“Robert, a Žejane si dà del lei a due sole persone: alla madre del marito e al padrino di battesimo o di cresima. Siccome io non sono nessuno dei due, a me ti rivolgerai dandomi del tu”). Infatti, tra i seianesi in passato era normale darsi sempre del tu, a prescindere dalle differenze anagrafiche. Oggi non si fa più, ma io quell’incontro non lo dimenticherò mai. Ricorderò per sempre il fatto di aver parlato con un personaggio per me illustre come la prof.ssa Legac, dandole del tu”.

Una cadenza specifica

“Parlando di Mune – ha spiegato Robert Doričić –, c’è questo aneddoto secondo il quale quest’abitato, dal punto di vista linguistico, viene spesso identificato con Žejane, ma è una cosa completamente errata. Vele e Male Mune sono paesini ciacavi e non hanno nulla a che vedere con l’area seianese. Il loro dialetto ha una propria specifica cadenza, un proprio vocabolario e lessico, che a sua volta è diverso ad esempio dal ciacavo castuano. La stessa cosa vale per il seianese, che ha regole proprie e che nel caso del dittongo, che in questo dialetto è molto particolare, provoca difficoltà in quanto a pronuncia a chi non parla questa lingua da quand’è nato. Certo, in epoche lontane c’erano ad esempio giovani spose che si trasferivano da Mune a Žejane, riuscendo col tempo a imparare benissimo il seianese, pronuncia compresa, ma d’altra parte c’erano anche quelle, come ad esempio mia bisnonna Anica, che era di Vele Mune, che non essendo mai riuscita a pronunciarlo correttamente, a un certo punto si è stufata e ha deciso di parlare esclusivamente la sua lingua: il ciacavo. Era interessante sentirla rivolgersi ai suoi cari in ciacavo, che le rispondevano invece in seianese, che usavano ovviamente anche parlando tra di loro. E tutti si capivano alla perfezione. Io faccio parte di coloro che non hanno la cadenza perfetta e lo si può capire nel momento in cui vado a pronunciare parole quali ad esempio bę, che significa bere, oppure åpa che sta per acqua. Per un parlante nativo la lettera ę è un dittongo specifico ed egli lo pronuncia come un suono unico – è importante rilevare che il seianese si tramandava esclusivamente in modo orale e non scritto –, mentre il cervello di un parlante come me, che non è un parlante nativo, lo interpreta come se si trattasse di due lettere, con due suoni a sé stanti, “e” e “a”, e li pronuncia di conseguenza. Questo, probabilmente, succedeva anche nel caso della mia bisnonna Anica, abitante acquisita di Žejane, che alla fine ha rinunciato a parlare il seianese e ha preferito esprimersi nel suo ciacavo”.

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