LA CITTÀ NASCOSTA I bunker di Meja e Škrljevo. Sentinelle silenti e minimal

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LA CITTÀ NASCOSTA I bunker di Meja e Škrljevo. Sentinelle silenti e minimal
Vladimir Tonić accanto alla casamatta di Škrljevo. Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

Ed eccoci al nostro ultimo appuntamento con le casamatte ubicate nel circondario del capoluogo quarnerino. Stavolta, oltre al nostro immancabile collega, Igor Kramarsich, ci avvaliamo di una guida d’eccezione, l’ingegnere navale Vladimir Tonić, esperto in architetture militari del XX secolo e autore di svariati libri sul tema, tra cui “Alla ricerca del Vallo alpino a Fiume e in Croazia”, che ci ha accompagnati a Meja e Škrljevo per raccontarci le mute sentinelle di quei luoghi. Dissimulati nella natura, anche questi bunker si presentano abbandonati e lasciati all’incuria, in cui l’atto di memoria risulta del tutto assente.

Architetture semplici
“A differenza dei bunker visitati finora, costruiti prima del Secondo conflitto mondiale, quelli di Meja e Škrljevo sono completamente diversi, sotto svariati punti di vista. Mentre i primi servivano da difesa all’avanzamento del nemico o come protezione delle linee da possibili operazioni di sfondamento, quest’ultimi sono stati edificati a mo’ di custodia delle strutture. In tale contesto, è da rilevare che, dato il fitto entroterra e nulla da difendere, l’Austria non partecipò alla loro costruzione, come invece fece in Bosnia e in Slovenia, dove innalzò edifici fortificati a partire già dal XIX secolo. Effettivamente, la suddetta ambientazione sorprese anche gli italiani al loro arrivo i quali, però, si rimboccarono le maniche e iniziarono a realizzare queste piccole casamatte dette “postazioni circolari monoarma” (PCM). Trattasi di fortini dalla struttura molto semplice, costituiti da una torretta circolare seminterrata, vera e propria postazione di difesa, spesso accompagnata da una costruzione adiacente con funzione di ricovero e deposito, con quattro feritoie per una difesa a 360 gradi, destinati a ospitare un’unica arma, da qui il nome. L’architettura in calcestruzzo, caratteristica anche dei bunker che abbiamo visitato, presentava una blindatura minima, fornendo riparo solo alle armi di piccolo calibro. Inoltre, le feritoie non erano dotate di chiusure, esponendo così i difensori a un eventuale tiro d’accerchiamento. Presidiate da due soldati, l’armamento poteva essere costituito da semplici fucili mitragliatori in dotazione o da una mitragliatrice. Basse e defilate, spesso ricoperte di rocce locali, erano tese alla mimetizzazione per sorprendere il nemico ormai prossimo”, ci ha spiegato Tonić mentre ci aggiravamo e curiosavamo fuori e dentro i bunker di Meja, subito sopra la ferrovia lungo la quale, a un certo punto, abbiamo visto sfrecciare un treno merci, rallegrandocene come bambini. Nei paraggi, ha aggiunto, sono ubicate tre casamatte, tutte con rinforzi in acciaio, contrassegnate secondo una determinata tipizzazione, la quale era specifica delle fortificazioni jugoslave, a differenza di quelle italiane, le quali si diversificavano una dall’altra, affermando ancora che “parlando dei bunker jugoslavi, facenti parte del cosiddetto ‘Secondo settore di difesa’ (il primo era la Slovenia, il secondo il Kamenjak e il terzo Zagabria), è da rilevare che erano piccoli, in calcestruzzo, riconosciuti quali ‘fortificazioni polacche semipermanenti’, basati su importanti linee di difesa quali quella francese di Maginot, caratterizzata da vere e proprie città sotterranee. Sulla falsariga della stessa anche la Jugoslavia adottò quella filosofia, ma non aveva abbastanza mezzi: scavarono qualcosa in Slovenia, ma dato che il progetto era a lungo termine e che, a un certo punto, iniziò la guerra, non completarono il tutto”.

La praticità e creatività italiane
Raggiunto, in seguito, il fortino sito nei pressi dell’entrata nella galleria di Škrljevo, l’esperto ha rilevato che “a un certo punto, innalzate e ufficializzate le succitate strutture, sorse la problematica relativa al fatto che i soldati, nel doverci soggiornare per lunghi periodi, avevano necessità di mangiare, bere e di andare alla toilette per cui, nelle adiacenze delle stesse, si costruirono roccaforti più solide. Una è sita nella zona di Sušačka Draga, sopra il cantiere Viktor Lenac, un’altra in quella di Sant’Anna (verso San Cosimo) e quella visitata da noi è la terza. Ovviamente, ve ne sono anche delle altre. Bisogna dire che, in merito all’edificazione, gli italiani sono stati pratici: nonostante le posizioni scomode delle strutture fortificate dagli jugoslavi, ovvero i vecchi bunker della linea difensiva Rupnik, di cui alcuni non abbastanza vicini alla ferrovia per proteggerla, in un paio di punti li hanno ricostruiti in modalità piuttosto interessante, realizzando appunto una serie di rifugi d’appoggio costituiti da piccoli blocchi di cemento tipizzati. In effetti si trattava di mere strutture di difesa contro l’attacco partigiano: le cosiddette ‘guardie di frontiera’ avevano il compito di difendere il confine per cui, dato che in giro non accadeva chissà che, non erano tanto attivi e si erano specializzati nell’osservazione, nell’ascolto e nella pazienza dell’attesa. Quando, nel 1945, i tedeschi passarono di qui, proprio in quanto fuori portata, non si fermarono nelle suddette zone. Ecco perché questi bunker non presentano fori di proiettili. Essi sono stati costruiti in maniera abbastanza singolare, in quanto, se si osserva bene, le feritoie sono letteralmente rivolte verso la parete rocciosa, il che è un non sense. Si presume che, probabilmente, in un secondo momento, vi fosse l’intenzione di abbattere la stessa e che il progetto, quindi, non venne portato a compimento, ma non ne siamo sicuri. Gli stessi sono uguali a quelli costruiti nel 1944 nel nord Italia e, nello specifico, nelle aree della Repubblica di Salò, per l’edificazione dei quali, in effetti, si sono seguiti gli abbozzi jugoslavi”.

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