Il tartufo. Da cibo dei maiali a oro bianco

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Il tartufo. Da cibo dei maiali a oro bianco

Siamo entrati nel vivo della stagione dedicata alla raccolta del tartufo bianco in Istria. Noto con il nome di Tuber magnatum Picum ha salvato molte famiglie dalla miseria e dalla fame: ciononostante nozioni più approfondite su di esso nella nostra penisola si diffondono in un’epoca piuttosto recente. Il tubero era ed è universalmente noto fin dalla Preistoria. Le prime testimonianze storiche scritte risalgono alla civiltà dei Sumeri ed al patriarca ebraico Giacobbe – quindi alla Mesopotamia – e al 1700-1600 avanti Cristo. I Sumeri ne avevano apprese le qualità alimentari e lo adoperavano assieme a orzo, ceci, lenticchie e senape. La leggenda vuole che gli ateniesi lo adoravano al punto tale da conferire la cittadinanza ateniese ai figli di Cherippo per aver inventato una ricetta culinaria in merito.
Se ne occuparono diversi studiosi antichi. I greci lo chiamavano Hydnon, i latini Tuber, gli arabi Ramech Alchamech Tufus oppure Tomer e Kemas, gli spagnoli Turma de tierra o cadilla de tierra, i francesi Truffe, gli inglesi Truffle, i tedeschi Hirstbrunst, oppure Truffel. Il tubero è descritto da Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) nella sua “Historia naturalis”. All’epoca non si conosceva il ciclo di nascita. Teofrasto (372 – 287 a. C.), filosofo allievo di Aristotele e fondatore della botanica, sosteneva che i tartufi si sviluppano a seguito delle piogge autunnali. Il filosofo greco Plutarco di Cheronea (45 -120 d. C.) fu il primo a trattarne le origini, sostenendo che il suo sviluppo fosse dovuto all’azione comune dell’acqua, del calore e dei fulmini. Galeno da Pergamo (129-200), medico e filosofo, ne prescriveva l’uso agli imperatori Marco Aurelio e Commodo sostenendo le loro peculiarità alimentari ed eccitative. Giovenale (I – II sec.), spiegò l’origine del prezioso fungo come frutto di un fulmine scagliato da Giove in prossimità di una quercia, ritenuta sacra dal padre degli Dei.
Viene in mente un amico il cui nonno fino a qualche anno fa raccoglieva il tartufo nella valle del Brazzana: tornando a casa lo colse un violento temporale e un fulmine colpì un ulivo abbandonato lungo il percorso. La pianta si aprì e mostrò a lui un bel po’ di preziosi tuberi alle radici. Da quel giorno l’uomo comprese che quell’uliveto abbandonato era per lui una fonte di ricchezza. Tornando a Giove, questi era famoso per la sua prodigiosa attività sessuale per cui al tartufo da sempre erano attribuite qualità afrodisiache. La cosa la sottolinea anche Filossene (IV sec. a. C.) nella sua raccolta “Synposium”, in una poesia di stampo gastronomico dedicata al tartufo.
Molto probabilmente il tubero antico, o “tuber terrae”, non era il profumato tartufo odierno ma si trattava della “terfezia Leanis” (Terfezia Arenaria), e di un qualcosa di simile, che abbondava in Africa Settentrionale, Asia minore, Vicino oriente e Mediterraneo e poteva pesare addirittura tre o quattro chilogrammi. Di sicuro i Greci e i Romani non consumavano il Tartufo nero Perigord. Di conseguenza era un qualcosa di apprezzabile al punto tale che era additato come “il cibo degli Dei”.
Il Tuber magnatum Pico non faceva parte della cucina romana. I tartufi allora in uso erano scadenti di qualità, ma il loro prezzo d’acquisto era salatissimo. Apicio (I sec. a. C. – I sec. d. C.) nel suo “De Re Coquinaria” inserì sei ricette al tartufo nel VII libro, in cui trattava le pietanze più costose. Ad ogni modo, già nel I secolo dopo Cristo gli studi riservati al tubero si moltiplicarono: Plinio il Vecchio lo definì “callo della terra”, mentre Giovenale arrivò ad affermare che “era preferibile che mancasse il grano piuttosto che i tartufi”.
In età medievale – salvo eccezioni – esso non fu presente nelle mense umane e fu relegato al solo consumo naturale, a essere cibo per lupi, volpi, maiali e topi. E qui ci viene in mente una storia raccolta a Paladini, in quel di Bottonega, dove furono le donne – seppur non sapendo ancora di che si trattasse – a scoprire il tartufo negli anni del primo dopoguerra, allora consumato dai maiali al pascolo. Certo è che il tartufo nero era presente alla tavola nuziale di Carlo VI di Francia e Isabella di Baviera nel 1385. Da allora in poi esso prese lentamente piede sulle tavole nobili francesi, particolarmente all’epoca del periodo papale avignonese.
Il tartufo nero pregiato apparve sulle mense dei signori francesi tra il XIV ed il XV secolo, mentre in Italia in quel periodo si stava affermando il tartufo bianco. Con il Rinascimento esso tornò a rappresentare il gusto della buona tavola. Pierre de Brantome ricorda che i cortigiani francesi nel XVI secolo consumavano i tartufi per gli effetti stimolativi. La sua introduzione era dovuta a Caterina Medici, allora in sposa con il futuro re Enrico II.
Si animò anche la discussione in merito alla sua classificazione, attorno alla quale si scatenarono accesi disaccordi tra i naturalisti. Taluni lo definivano una pianta, altri un’escrescenza del terreno, qualcuno addirittura pensò trattarsi di un animale. Ci fu pure chi pensava trattarsi di un aroma o di una sorta di “quinta essenza”, che provocava sull’essere umano un effetto estatico, e di conseguenza esso era sentito come sublime sintesi della soddisfazione dei sensi e dell’essenza di un piacere superiore.

Gioiello tra i fornelli

Nel 1564 uscì dalle stampe la prima monografia moderna dedicata al tartufo, l’“Opusculum de tuberibus”, scritta a Padova dal medico Alfonso Ciccarelli (1532-1583). Nel 1780 fu pubblicato a Milano il primo libro riguardante il Tartufo Bianco d’Alba, battezzato col nome di Tuber magnatum Pico. L’aggettivo magnatum sta ad indicare la sua destinazione, le tavole “magnati”, ossia le persone abbienti, mentre il nomignolo Pico ricorda il piemontese Vittorio Pico, il primo studioso che si occupò della sua classificazione. Poco tempo dopo un naturalista dell’orto botanico di Pavia, il dottor Carlo Vittadini, pubblicò a Milano nel 1831 la “Monographia Tuberacearum”, la prima opera che gettò le basi dell’idnologia, la scienza botanica che si occupa dello studio dei tartufi, descrivendo sia il tubero nero che quello bianco e un’altra cinquantina di funghi.
Nel frattempo continuò l’affermazione gastronomica del tubero, che venne a trovarsi sulla tavola dei partecipanti al Congresso di Vienna nel 1815, successivo alle guerre napoleoniche. Nel corso del XIX secolo entrò a far parte integrante e immancabile dell’offerta culinaria, particolarmente in Francia. Il noto giurista, statista e gastronomo francese Jean-Anthelme Brillat-Savarin lo definì un “gioiello culinario”.
Già nei secoli XVII e XVIII furono organizzate le prime gare di ricerca del tartufo, alle quali erano regolarmente invitati gli ospiti d’alto rango che soggiornavano a Torino. Da qui forse la diffusione dell’usanza d’adoperare il cane – animale di compagnia dei notabili – quale animale di ricerca del tubero, al posto del maiale, da precedenza in uso. Primeggiavano in questo senso Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III. Si narra che durante una gara organizzata da quest’ultimo nel 1751 presso la Casa reale d’Inghilterra, furono estratti diversi tartufi nel 1751, di valore molto inferiore rispetto a quelli Piemontesi, allora emergenti.
Più tardi anche il primo ministro piemontese Conte Camillo Benso di Cavour, durante la sua attività politica, utilizzò il tartufo quale mezzo diplomatico, mentre Lord Byron lo teneva sulla scrivania perché il profumo lo aiutasse a destare la sua creatività.
Emerse nella penisola dello stivale il tartufo bianco Piemontese considerato, nel XVIII secolo, una prelibatezza presso tutte le corti europee d’epoca. Eccellono quali suoi consumatori ed estimatori Gioacchino Rossini, che lo descrisse come “il Mozart dei funghi”, e Alexandre Dumas, che lo battezzò “il sancta sanctorum della tavola”.
Nel corso del XX secolo il Tartufo d’Alba ha acquistato fama mondiale, talvolta, come vedremo più avanti, celandosi dietro altri tuberi. Ciò grazie all’opera di promozione svolta da Giacomo Mora, albergatore e ristoratore di Alba, giustamente “incoronato” re dei Tartufi già nel 1933 dal “Times” di Londra. Nel 1929 ad Alba fu organizzata una mostra tartufaia, nell’ambito della fiera agricola, e con essa, grazie all’attovità del Mora, iniziò la promozione del tartufo bianco.
Il tartufo era diffuso anche lungo la costa adriatica orientale, e nei territori dell’entroterra. A Ragusa e nelle città mercantili costiere dalmate esso era noto ancora nell’età moderna. Nei mercati croati continentali e nella letteratura scientifica austroungarica, esso fece la sua comparsa a partire dalla seconda metà del XIX secolo. In Istria esso era un illustre sconosciuto fino alla fine del secondo decennio del XX secolo, dov’era considerato semplicemente “la patata che spussa”, mangiata, come s’è detto, dai maiali, e di conseguenza una nullità ben lontana dal valore che di lì a poco iniziò ad assumere. Come sopra riportato, in quel di Paladini, sul versante pinguentino dell’odierna accumulazione idrica di Bottonega furono le donne a notarlo mentre lo mangiavano i maiali al pascolo.
Alcune testimonianze orali ricordano che esso sia stato scoperto con gli scavi riguardanti la costruzione dell’Acquedotto istriano. Nel 1929 un contadino portò lo strano tubero al possidente di Levade, Agostinelli, il quale le mostrò alla baronessa Ida Carla Barbara Elizabeth von Hütterott (Trieste,1897 – Sant’Andrea/Rovigno,1945). Quest’ultima, evidentemente sospettando o essendo a conoscenza di cosa si trattasse, interessò alcuni esperti italiani che, giunti a Levade, affermarono trattarsi del Tuber magnatum Pico – diffuso nei dintorni di Torino, in quel di Bologna e Ferrara, e in Svizzera (Canton Ticino). Per una singolare curiosità il tutto successe nella cantina del signor Agostinelli, oggi sede del Ristorante Zigante. Fu da quel momento in poi che Levade divenne la capitale istriana del tartufo, nella quale ben presto giunsero i maggiori conoscitori in materia italiani, tra cui Massimo Sella ed Oreste Mattiroli.

Esemplare da Guinnes dei primati

La raccolta organizzata del tartufo in Istria inizia poco prima con Carlo Testoni e Pietro Giovannelli, che a Novacco di Pisino trovano i primi tartufi. L’interrompono subito però fino al 1931 quando la riprendono con l’aiuto dei cani istruiti. Si dice che raccogliessero in media 4 kg al giorno, rinvenendo nello stesso anno a Pinguente un’esemplare di mezzo chilo.
Nel 1933 fu istituita a Levade l’”Azienda del Tartufo – Sella, Hütterott and C. Levade”, per opera della baronessa Barbara von Hütterott, Massimo Sella, direttore dell’Istituto rovignese di biologia marina, Carlo Testoni e Pietro Giovannelli di Pola, ma originari dell’Emilia Romagna. Essa si occupava di vendita e commercio dei tartufi bianchi a Venezia, Verona, Bologna e Genova. In merito, essi disponevano anche di un Regolamento sia d’estrazione sia di cura e tutela all’avanguardia e, oseremmo dire, molto ma molto attuale, che prevedeva il lavoro di gruppo diretto responsabile, al quale erano assegnate le direttive necessarie, ed a cui era consegnato il ricavato, estratto nel pieno rispetto delle norme di tutela ambientale.
L’azienda fu operativa fino al 1937, quando le concessioni estrattive nel Bosco di S. Marco passò alla famiglia Facchin di Levade. Della raccolta si occupavano anche altri tartufai. Tra il 1931 ed il 1960 sono registrati dai 20 ai 50 raccoglitori. Il che dimostra che essa proseguì anche nel secondo dopoguerra. La concessione passò allora all’azienda forestale “Šumarija” di Pinguente, che li acquistava per piazzarli sul mercato. Nel 1959 essa acquistò 6000 kg di tartufo. Tre volte alla settimana questi venivano esportati in Italia.
Negli anni Sessanta la raccolta s’intensificò complice l’aumentata richiesta dal settore turistico. I tartufai, d’altro canto, svilupparono una loro sorta di mercato parallelo in nero. All’epoca, alcuni tartufai istriani furono inviati in Slavonia e nelle altre terre jugoslave per verificarne la possibilità di raccolta. Nel 1983 i tartufai registrati erano in tutto 400. Spicca tra questi il leggendario Bortolo Murari, che in una giornata raccolse ben 16 chilogrammi del pregiato tubero. Oggi sono ancora in vita alcuni tartufai attivi, qualcuno fin dalla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Allora erano ragazzi, ed oggi hanno tutti fra gli ottanta ed i novantanove anni di età.
Ma cosa si poteva acquistare con il ricavato? Giancarlo Zigante, il “re del tartufo istriano” – entrato nel Guinness dei primati con il tartufo Tuber Magnatum Picum di 1310 grammi, e che quest’anno ha rinvenuto un tartufo nero di ben 4,8 kg – ricorda che con il ricavato di una stagione acquistò un’automobile, la Zastava 101, negli anni Ottanta. Zdravko Beletić, arzillo novantanovenne che inizia la giornata con un po’ ginnastica sulle attrezzature acquistate e la finisce in bicicletta, andava a raccogliere i tartufi fino a qualche anno fa, cambiava macchina annualmente. Altri hanno rinnovato ed edificato case, sostenuto le spese di matrimonio dei figli. Darko Paladin, sotto il cui pino casalingo cresce da alcuni anni il tartufo nero, ricorda come quest’attività l’ha levato dalla rovina quando rimase senza lavoro. Da qui l’invito dei tartufai a considerare con apprezzamento quel paesaggio naturale peninsulare in cui tutti possono trovare sostegno.

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