LA RIFLESSIONE Giù le statue

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LA RIFLESSIONE Giù le statue

Le proteste contro la discriminazione e la violenza, che stanno interessando gli Stati Uniti d’America, attraversando l’Oceano sono approdate nel Vecchio continente. Una rivendicazione sacrosanta è però sfociata anche in distruzioni e aggressività che nulla hanno da spartire con un movimento che desidera il venir meno delle differenze esistenti a seconda del colore della pelle. Abbiamo assistito pure a un’ondata di nichilismo e all’abbattimento delle statue, al danneggiamento e/o imbrattamento dei monumenti, ossia delle testimonianze di un passato ritenuto irrispettoso dei diritti umani. Secondo questi giacobini, la storia del colonialismo, dei soprusi e degli attori di un’epoca dilatata tra i secoli, dev’essere rivista, rimossa, sanificata (per dirla con Marcello Veneziani), perché non degna d’essere inserita in un racconto storico che, evidentemente, qualcuno vorrebbe (d)epurare. Ignoranza, noncuranza degli elementi essenziali che permettono di cogliere il passato – perché ogni fenomeno, problema e personalità è frutto del proprio tempo – portano a leggere i tempi andati con gli occhi odierni. Niente di più assurdo e scorretto. Questa rozzezza di modi riflette, in parte, il fallimento di un’educazione che non privilegia l’attenzione e la riflessione su ciò che fu, mentre la cosiddetta società liquida, con il perenne vivere nel presente in un mondo globalizzato dai confini incerti, ha prodotto tanto smarrimento e generato mostri. Altro che historia magistra vitae! La follia degli iconoclasti del terzo millennio si fermerà o investirà tutto ciò che non rientra nei canoni dettati dalla sensibilità dei cittadini contemporanei? Usando questo metro si salverebbe ben poco del passato. Oggi si abbattono i “segni” di chi aveva assoggettato altri popoli e domani? Applicando tale logica molto opinabile si dovrebbero rimuovere, per esempio, anche le statue di Giulio Cesare (si pensi alla sua campagna militare contro i Galli); non si salverebbero parecchi pontefici (guardandoli con i nostri parametri in molti casi non rispettarono i diritti umani) e dovrebbero sparire anche tutte le raffigurazioni dei santi guerrieri, poiché non predicavano la pace, ma usavano le armi in quelle che la dottrina cristiana considerava guerre giuste. Non era la Chiesa che predica l’amore e la misericordia, quella cioè che conosciamo oggi. No, per questo motivo parliamo di storia, di un passato che non esiste più e non possiamo modificare. Intervenire posteriormente con l’illusione di riscrivere o semplicemente occultare ciò che attualmente non aggrada ha il sapore della pazzia, ma sta ammorbando chi dovrebbe prima studiare – e tanto – prima di sentenziare. Siamo rimasti inorriditi quando i talebani prima e i militanti dell’Isis poi si sono cimentati in esecrabili operazioni tese ad abradere un passato considerato blasfemo. Le immagini dei resti del sito archeologico di Palmira devastati con l’esplosivo o la rabbia con la quale furono distrutte le statue nel museo di Mosul, rientrano nell’irrazionalità a cui stiamo assistendo anche in questi giorni, sebbene la matrice sia diversa. Bisogna stare in guardia quando si propone di celare la storia, perché disprezzata, indigesta o non consona alla nuova era alla quale si vuole dare inizio. Poca lucidità e fanatismo portano a obbrobri. L’aquila bicipite sulla torre civica a Fiume decapitata dagli arditi dannunziani, successivamente rimossa dalle autorità comuniste jugoslave, sintetizza il rapporto problematico con il passato. L’invasamento di chi stoltamente vedeva in ogni espressione italiana lungo l’Adriatico orientale nient’altro che la malvagità del regime del littorio, riflessa anche a ritroso nel tempo – donde seguiva che tutto avrebbe condotto al fascismo – fu alla base per “purificare” uno spazio geografico. Il monumento a Niccolò Tommaseo a Sebenico fu distrutto senza porsi alcun problema: si trattò di un atto barbaro che Manlio Cace definì “un oltraggio alla civiltà”. Perché? L’illustre dalmata aveva dedicato il suo intelletto in larga parte alla lingua italiana e l’idioma è il connotato nazionale per eccellenza. Questa, forse, fu una delle ragioni. E la fontana cittadina voluta dal podestà Antonio Bajamonti a Spalato, fatta saltare con la dinamite? E poi targhe, iscrizioni, monumenti, erme, nomi, odonimi, di patrioti o benemeriti, di studiosi o eminenti esponenti di una presenza, che pagò a caro prezzo la condotta di un regime che portò un Paese intero a sprofondare. Ma il fascismo non era l’Italia, sebbene si fosse identificato con la vita della Nazione. Chi rimuoveva, distruggeva, scalfiva a colpi di martello o piccone, occultava, si proponeva la riscrittura del passato e tendeva a relegare tutto o quasi nell’oblio, si differenzia da quanti nelle ultime settimane stanno colpendo ciò che rammemora un passato non sempre dal “volto umano”? La “damnatio memoriae’” può costituire la soluzione? Si abbattono o decapitano le statue di Cristoforo Colombo in varie città americane, i dimostranti si scagliano contro quella dedicata a Winston Churchill davanti a Westminster a Londra, tanto che si dovette imballarla per proteggerla dalle proteste antirazziste, neanche Mahatma Gandhi è risparmiato dall’offensiva. La storia giudicata moralisticamente potrebbe potenzialmente far precipitare pressoché tutte le figure degli uomini di Stato; è sufficiente una dichiarazione non “politicamente corretta” o un pensiero troppo audace per finire in disgrazia. “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”, non si pretende indulgenza, i novelli inquisitori dovrebbero solo realizzare che la storia si coglie calandola nel preciso contesto. Apologie successive lasciano il tempo che trovano, non è l’atterramento della statua o dell’effige del tiranno a furore di popolo, gesto che rappresenta la liberazione in senso lato. L’ora più buia, forse, è davanti a noi.

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