Recentemente, scorrendo i podcast del terzo canale radio della Rai, ho visto la serie Wikiradio: le voci della storia, organizzato intorno a varie sottocategorie: discorsi, immagini, luoghi, viaggi, carteggi, ecc., e influencer. A quest’ultima parola, mi è cascato il cuore. Già mettere insieme il concetto di storia e la parola influencer mi sembra un ossimoro altamente improbabile. Ma l’assurdità dell’accozzaglia si è rivelata in pieno nella puntata del 19 giugno 2024, intitolata Influencer: Cesare Pavese. Non dubito che gli autori del programma lo abbiano ideato in buonafede probabilmente secondo l’assunto che, visto che la parola fa ormai parte del nostro linguaggio, perché non usarla? Ma ragazzi, Cesare Pavese. Influencer! Roba da matti. Sarebbe bastato ascoltare il programma, tra l’altro mezz’ora di vero nutrimento per la mente, per capire che la parola non solo era fuori luogo, ma peggio, era un insulto alla memoria biografica, letteraria e lavorativa di Cesare Pavese.
Sin dall’inizio Franco Ferrarotti, parlando di Pavese, sottolineava la sua ossessione per “la parola giusta al posto giusto (…) specialmente in un mondo dominato dall’immagine”, mentre la trasmissione lo descriveva come un autore serio, totalmente dedito al suo lavoro di studioso, poeta, scrittore, traduttore, critico letterario, mentore e colonna portante della casa editrice Einaudi.
Natalia Ginzburg, amica e collaboratrice di Pavese, lo ricordava come un uomo di pochissime parole, con cui era difficile conversare e che spesso anche in compagnia preferiva il silenzio. Ma le rare parole che pronunciava erano potenti e avevano grande peso e autorevolezza.
Adesso compariamo questo ritratto, con l’immagine che abbiamo degli influencer: logorroici, che spesso si esprimono male e soprattutto non sanno quando tacere. (Ovvio che non sono tutti così, ma lo stereotipo che ne abbiamo è su queste linee). Riusciamo a capire che usare questa parola per descrivere un personaggio di questa statura è un’assurdità? A rendere la situazione ancora più grave è il fatto che anche altri giganti come John Maynard Keynes, Agatha Christie, Luigi Capuana, Edmund Morel, Andrej Sacharov e altri, sono stati tutti pigiati senza cerimonie nel recipiente degli “influencer”.
Non so come vengano prese le decisioni in radio, soprattutto in un canale nazionale che ha la reputazione di essere un baluardo di serietà e impegno culturale, ma ho notato che proprio dopo la puntata su Cesare Pavese, il sottotitolo “influencer” sparisce, sostituito dal molto più consono “biografie”. Spero tanto che persone molto più autorevoli della sottoscritta si siano sentite arruffare le penne e abbiano espresso eloquentemente le loro riserve riguardo alla precedente (infelice) scelta di sottotitolo.
Qui non si vuole sparare a zero su redattori e giornalisti radiofonici che, come già detto, si presume lavorino in buonafede, ma si vuole capire come mai il termine influencer sia sembrata una valida opzione. Forse avranno pensato che la parola, descrivendo qualcuno che con le sue idee e azioni ha un effetto sugli altri, potesse andare bene anche per la categoria di persone elencate sopra. Dimenticando però che uomini e donne così sono sempre esistiti e ovviamente i termini per descriverli c’erano. Cosa c’è di male a chiamarli intellettuali, pensatori, artisti, filosofi, ideologi, studiosi, professori, accademici, letterati o cultori, come si è sempre fatto.
Magari c’è anche la voglia di dimostrare di stare al passo con i tempi, di essere ipermoderni e sintonizzati sull’attualità e, visto il calo di ascolti per i canali tradizionali, usando il termine come esca, si è cercato di allettare il pubblico giovane verso i propri contenuti. Con il risultato di rendere tutti un po’ scontenti: i giovani che invece di trovare un vero influencer scoprono uno un po’ musone morto ancora nel 1950 e noi che amiamo Pavese e lo abbiamo studiato… scriviamo un bozzetto per esprimere il nostro disappunto. Quindi in teoria i redattori non avevano tutti i torti, ma in pratica il termine sta stretto, anche se, almeno in inglese, nasce largo.
Secondo l’Oxford English Dictionary, la parola origina già nel 1664 con alcune sporadiche menzioni anche nei secoli seguenti, e delinea solitamente colui che è a capo di qualcosa e lo influenza. Nel Ventesimo secolo, tra gli anni ‘60 e i primi anni 2000, vi si aggiunge l’ulteriore significato di marketing, cioè dell’abilità di una persona di influenzare le scelte decisionali di altri riguardo all’acquisizione di beni o servizi. Con la nascita e l’affermarsi della nuova figura mediatica, arriva anche la terza accezione che descrive colui che acquisisce fama attraverso internet e i canali social e che usa la propria celebrità per “sostenere, promuovere o generare interesse verso specifici prodotti, marchi ecc., spesso a pagamento”.
L’Accademia della Crusca registra la prima menzione di influencer in italiano nel 2007 in un articolo sul Corriere della Sera. Otto anni dopo la parola è pienamente affermata nella nostra lingua e viene usata regolarmente, perciò, nel biennio 2017-18, viene inserita nei maggiori dizionari con l’accezione di “personaggio popolare soprattutto in rete che è in grado di influenzare l’opinione pubblica riguardo a un certo argomento”. Inutile dire che in breve tempo, al ruolo di opinionista, l’influencer si annette anche quello di piazzista.
Questo è confermato anche dalle pagine e pagine di materia legale redatta in primo luogo a regolare i rapporti tra influencer, marchi e pubblico. Rapporti che hanno assolutamente bisogno di essere regolati, come si è visto da importanti casi degli ultimi anni.
Siccome la figura dell’influencer desta comunque un certo interesse, se non altro perché ha originato nuovi comportamenti, sia mediatici che sociali, ne riparleremo anche nel prossimo bozzetto.
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