Fiume e Shenzhen, vicine di casa per un giorno

Un viaggio lungo vent’anni, da Napoli alla metropoli tecnologica cinese, descritto tra esperienze, spunti di riflessione e aneddoti nella nostra intervista a Paola Sellitto

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Fiume e Shenzhen, vicine di casa per un giorno
Shenzhen

Sei ore sono la distanza cronologica che intercorre tra me e la destinazione scelta come luogo di atterraggio immaginario. Un ponte trasparente in cui il tempo è la trave principale, mentre il panorama che intravedo ne è l’ancora.
Le persone nel mondo possono conoscere linguaggi diversi per comunicare – verbali, del corpo, digitali, visivi, artistici – ma ciò che crea profonde interconnessioni è qualcosa che si percepisce grazie a un istinto primordiale; un’energia che viaggia per lunghissimi tratti geografici e che, generosa, si restituisce all’universo: il “Qì” (气 o 氣). Una forza che scorre mutevole ed eterna, che lega i cieli alle terre e che, nei meridiani, va scolpendo forme infinite di vita. Paesaggi e persone in cui tutto ciò prende corpo, trasformandosi da concetto astratto in realtà.
Nel mio caso, in un incontro.

Paola Sellitto con la sua famiglia

Una carica esplosiva di umanità
Mentre parlo con Paola Sellitto le sensazioni che mi giungono sono da subito chiare e dirette. Una carica esplosiva di umanità che si accompagna a una vivacità intellettiva e spigliatezza verbale. E questo, lo si nota nella scelta accurata delle parole con le quali si racconta e nell’entusiasmo espresso con naturalezza, di quelli che travolgono senza però imporsi.
Il suo carattere solare e dinamico si sprigiona irrefrenabile, durante la videochiamata su Wechat – piattaforma cinese di messaggistica e social media – un appuntamento che unisce il mio mattino al suo primo pomeriggio.
Interculturalità e spirito cosmopolita sono il filo conduttore della sua quotidianità a Shenzhen, una metropoli cinese situata sulla costa meridionale nella provincia del Guangdong, da molti definita come “la città che non dorme mai”, dirimpettaia di Hong Kong e simbolo della rivoluzione tecnologica globale.

Un albero ha radici intelligenti
Da villaggio di pescatori, Shenzhen si è trasformata in un hub strategica per l’innovazione ad ampio spettro, il cui ritmo pulsante attrae talenti da ogni angolo del pianeta. Lei, Paola Sellitto, il futuro lo vive ogni giorno e, da quasi vent’anni, cadenza le sue giornate in Cina.
Parte da Napoli, per completare gli studi di lingua e letteratura cinese a Pechino, per poi trasferirsi in altre città del Paese. Dopo aver conseguito la laurea in Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, decide di rimanervi, poiché, in fondo, un albero ha radici che si estendono, e le sue, sono forti nella città di origine, ma anche ben disposte verso ciò che la cultura cinese le offre da sempre. È co-fondatrice di “Vivi Shenzhen”, un portale dedicato agli Italiani lì residenti, il cui obiettivo è migliorare la loro permanenza e integrazione nella “Silicon Valley” cinese, appellativo che la città di Shenzhen si è guadagnata in questi anni. Un progetto nato circa dodici anni fa – “Un bel po’ datato”, come sottolinea lei stessa – e di cui, attualmente, segue soltanto il gruppo su Wechat.
“Da sola non ce la facevo a fare tutto. Scrivere articoli, contenuti era molto faticoso e, soprattutto, non remunerativo”, aggiunge scherzando e con una consapevolezza che le deriva da anni di esperienza lavorativa, in ambiti e campi davvero variegati.

Una metamorfosi avveniristica
Partiamo da Shenzhen.
“Arrivo qui, nel 2006 perché, il mio fidanzato, oggi marito, stava svolgendo un tirocinio presso un’azienda francese. Avendo studiato lingua cinese all’Università, avrei accettato qualsiasi posto in Cina per fare un’esperienza di full immersion linguistica. Inizialmente, ho frequentato un corso di lingua cinese presso la Shenzhen University per un solo semestre, in quanto avevo già un background, venendo da una permanenza di nove mesi a Pechino, iniziata nel 2004. Rientrata da lì, nel 2005 mi sono laureata. Dopo aver terminato quel corso a Shenzhen, lo definirei una sorta di partenza tranquilla, non avevo intenzione di trovare subito un lavoro post-laurea. Pensavo che sarei rimasta per un paio di anni, e invece, sono diventati un po’ di più. Ho perso il conto” – e sorridiamo – “Io e mio marito ci siamo trovati sempre bene. Forse, inizialmente, è stato un po’ faticoso. La Shenzhen di quegli anni era molto diversa dalla metropoli spaziale di oggi. C’erano pochi stranieri ed era anche più difficile socializzare. Da quando è subentrata la tecnologia, come parte integrante ed essenziale del quotidiano, tutto è diventato più facile. È una vera e propria dipendenza. Non vado a fare la spesa, non so da quanti anni! Nel senso, che non mi reco personalmente al supermercato, è il supermercato che viene da me. Ci sono una moltitudine di servizi comodissimi. Ad esempio, non ho bisogno di possedere un’auto per muovermi in città, posso tranquillamente utilizzare l’Uber locale, chiamato ‘Didi’, prendere la metro o andare in giro con una bicicletta elettrica. Tutto è a portata di mano. Un grande valore aggiunto e credo sia stato questo a convincere, me e mio marito, a vivere qui così a lungo”.

Shenzhen è l’emblema della rivoluzione tecnologica cinese ma, al tempo stesso, offre una realtà a misura d’uomo. È possibile dedicarsi a molte cose, vivere con intensità, massimizzando le giornate.
“In Cina vige la mentalità di non sprecare il tempo. Il motto di Shenzhen è ‘Time is money, efficiency is life’, il tempo è denaro, l’efficienza è vita. Banalmente, fare la spesa con il cellulare è rispettare questa risorsa preziosa. Si ottimizza tutto. Per tornare alla sua riflessione: direi di sì, ci si può dedicare ad altro. Si sceglie la qualità del tempo”.

Quindi, ogni volta che ritorna in Italia è un’esperienza straniante?
“Generalmente, vado durante le vacanze estive e devo riconoscere di non sentirmi sempre a mio agio. Mi diverto, è ovvio. Incontro la famiglia, gli amici mangio e bevo di tutto, ma non ho la stessa indipendenza che ho qui”.

Sentirsi come una regina
Menzionava il senso di indipendenza, ricollegabile anche ad aspetti pratici. A tal proposito, mi viene in mente la metropolitana di Shenzhen, sviluppatasi tramite un sistema di soluzioni e servizi digitali iper-efficienti. Il cashless – senza contanti – è all’ordine del giorno, come del resto in tutto il territorio nazionale.
“Il cashless è fantastico. Quando sono in Cina e devo uscire, porto con me solo il telefonino. Posso pagare qualsiasi cosa, il biglietto della metro ad esempio, fare prenotazioni, acquistare una varietà infinita di cose. Piccole e grandi. Invece, in Italia, devi prendere l’auto, il borsellino, avere sempre i contanti”.

Sono quasi vent’anni che risiede in Cina. Quali sono stati i cambiamenti più evidenti da lei notati?
“Quando sono arrivata, gli stranieri erano pochi. Immagini me a girare per le strade di Shenzhen: mi salutavano tutti. Mi sentivo un po’ come una regina, qualcosa di surreale. Non riuscivo a rispondere a ogni persona che incontravo e qualcuno, addirittura, se ne infastidiva. Quindi, posso dire di aver sperimentato la fase di passaggio: da quando lo straniero era considerato un alieno all’attuale normalità. Ricordo che i cinesi facevano molti commenti su di me, dettati soprattutto dalla curiosità. Senza ombra di dubbio la prima differenza che notavano, rispetto alla loro fisionomia, era il mio naso, che per carità è un naso normalissimo, ma per loro era vistoso e all’insù, desideravano toccarlo e io, ovviamente, mi irritavo. Con il tempo, la situazione è cambiata. La presenza di stranieri è aumentata in modo esponenziale. Mi sono sempre integrata bene nella società locale, poiché non vi è chiusura mentale, specialmente quando scoprono che parli la loro lingua. Allora, in quel caso, si apre un mondo. C’è un vasto interesse su ciò che esiste oltre oceano”.

Rivalutare l’antico retaggio culturale
Quali sono le domande che i cinesi le pongono con maggiore frequenza?
“Mi chiedono, per esempio, se sono russa o americana. Ma questo avviene quando interagisco con il cinese medio, il tassista piuttosto che il negoziante. Sono persone più umili e, magari, con un’istruzione limitata, per i quali i volti occidentali sono automaticamente associati a queste due nazionalità. Devo riconoscere, però, che sono molto informati sull’Italia e, quando scoprono che vengo da lì, le conversazioni si fanno più articolate e, talvolta, emergono temi anche un po’ scomodi. Adesso, sono più ricettivi verso altri tipi di argomenti, in quanto conoscono meglio la geografia, l’architettura, i marchi iconici che conquistano il loro favore. Sono convinta che gran parte delle Ferrari in circolazione sia proprio in Cina, una realtà dalle enormi risorse economiche”.
La Cina contemporanea è caratterizzata da spinte globali e da un radicamento identitario. I giovani, pur vivendo esperienze internazionali, mostrano un attaccamento verso le proprie origini. Questo si riflette in una crescente domanda di prodotti che fondono innovazione e tradizione, siano essi appartenenti alla moda, alla cucina, alla tecnologia o all’intrattenimento. La nuova generazione di consumatori cinesi cerca qualcosa che dialoghi simultaneamente con il mondo e la storia del loro Paese. Un fenomeno che non solo riscopre e rivaluta l’antico retaggio culturale, ma lo rende un elemento vivo e presente.

La generazione attuale in Cina, dicevamo, viaggia molto, ha contatti con il mondo intero, studia e vive all’estero. Ciò ha avuto ripercussioni anche sui consumi interni?
“Sì. Uno dei maggiori obiettivi delle famiglie benestanti è garantire ai figli l’opportunità di studiare all’estero. I ventenni di oggi non sono certo quelli di alcuni anni fa: dal punto di vista intellettivo, ora sono più curiosi, maggiormente disponibili ad accogliere anche sapori e influenze diversi rispetto alla tradizione cinese. Questo ha inciso sul mercato nazionale e sulle dinamiche dei consumi. I giovani sono più esigenti, più aperti e attenti alla qualità, al design, orientati verso brand di fama mondiale e capaci di distinguere ciò che è autentico da ciò che è solo moda. A Shenzhen, per dire, ci sono più caffetterie che persone. Si consuma molto caffè, non so se per questioni di trend verso una bibita straniera, o per un gusto che si sta evolvendo. Di certo, vi è consapevolezza. Sanno riconoscere le differenze tra un caffè e l’altro, e apprezzarle. Devo ammettere che io stessa ho imparato a conoscere, a Shenzhen, varietà di caffè che in Italia nemmeno consideriamo. Noi italiani ci vantiamo infatti di sapere tutto sul caffè, ma spesso ci fermiamo all’espresso gusto arabica. Difficilmente, andiamo oltre. Adesso, so, per esempio, che non mi piace quello acido e che preferisco il caffè fruttato, con note di caramello o cioccolato. Da napoletana, è stato un piccolo shock culturale anche se, al tempo stesso, si è rivelata una piacevole sorpresa”.

Come è nata la sua passione per la cultura e la lingua cinese?
“Ho sempre nutrito un interesse per le lingue straniere, ma sono stati gli ideogrammi ad ammaliarmi! Sono partita da zero, senza alcuna base, e più studiavo la lingua cinese, più ne rimanevo affascinata. Quando sono stata a Pechino, mi sono sentita talmente a mio agio da decidere di restare oltre il semestre previsto; altri tre mesi che si sono rivelati poi fondamentali. In quel periodo, ho conosciuto mio marito, nato in Spagna da genitori cinesi, trasferitisi lì in giovane età”.

Un’esperienza unica
I suoi figli sono nati a Shenzhen. Come vivono questa realtà, considerate le origini italiane materne e sino-spagnole paterne?
“Non a metà fra due mondi, anzi. Se chiede loro di quale nazionalità siano, le rispondono: ‘Italiani’. Provano un grande senso di appartenenza all’Italia. Come direbbe mia figlia: ‘Etnicamente sono italiana, ma culturalmente anche spagnola e cinese’. Prendono qualcosa da ognuna di queste culture. Mio marito, pur essendo cinese, è cresciuto in Spagna e porta con sé entrambe le identità. I miei figli sono un vero melting pot. A casa nostra parlare è un gioco di incastri: con i miei figli comunico in italiano e, in spagnolo, con mio marito. I bambini parlano in inglese, pur coltivando con cura la lingua italiana, poiché vogliono potersi relazionare con i nonni materni. L’inglese è la lingua giornaliera, di facile approccio: la usano a scuola, con gli amici, nei giochi. Studiano in un ambiente internazionale, circondati da bambini provenienti da ogni parte del mondo, in prevalenza asiatici. Si trovano a contatto diretto con altre culture”.

Pensandoli come futuri adulti, tutto questo sarà per loro un patrimonio immenso, essendo abituati a confrontarsi con persone e idee di culture diverse.
“È uno dei motivi per cui abbiamo scelto Shenzhen. Sono convinta che in Italia o, in generale, in Europa, sarebbe difficile offrire lo stesso tipo di formazione, anche se frequentassero una scuola internazionale. La differenza non è solo nella didattica, è il trovarsi, ogni giorno, in un contesto multiculturale a rendere unica questa esperienza. È viverla tutti i giorni, tutto il giorno”.

Spesso la Cina viene accostata a un’idea di rigore scolastico e competitività, almeno nella forma più tradizionale. Può dirci qualcosa in merito?
“La scuola pubblica cinese è estremamente accademica. Si studia molto, sia a scuola che a casa. Tanto lavoro, tanta pressione sui bambini e sui genitori che diventano una sorta di supervisori, in quanto devono assicurarsi che ogni compito venga consegnato puntualmente, entro giorni e orari prestabiliti. Io non potrei farlo. In un certo senso, è come se ai bambini fosse sottratta una parte importante dell’infanzia. Anche le attività sportive, spesso, non sono vissute come un momento di svago o crescita personale, ma come un’altra arena competitiva in cui eccellere. Le aspettative sono altissime, da parte delle famiglie e della società. Ma io non voglio questo per i miei figli: esploderemmo tutti a casa. E, dunque, abbiamo scelto un altro modello educativo. Nella scuola internazionale, l’approccio è completamente diverso. Alle scuole elementari e medie non esistono i compiti perché la giornata scolastica è piena: dalle 8.00 alle 15.30, tutto avviene a scuola, e i compiti vengono svolti lì. Studiano, sì, ma lo fanno in modo più equilibrato e stimolante. Non ci sono libri di testo. Utilizzano programmi personalizzati su iPad nei quali vengono scaricati contenuti digitali. L’apprendimento avviene attraverso progetti condivisi, lavori di gruppo su temi specifici che si concludono con una presentazione o un esame, in un percorso simile a quello universitario. Il resto del tempo, viene dedicato alle loro passioni. Mio figlio mi dice spesso: ‘Se dovessi studiare anche a casa, non avrebbe senso pagare la retta di questa scuola’. E in effetti ha ragione”.

Una notevole responsabilizzazione rispetto ai propri impegni.
“Esatto. Le scadenze vengono rispettate con rigore. Si tratta di uno studio autonomo, seppur controllato dalla scuola. Gli insegnanti lavorano fianco a fianco con gli studenti. Due volte a settimana, ad esempio, i ragazzi possono completare insieme ai docenti ciò che non sono riusciti a terminare da soli”.

Vivere a Shenzhen, in una realtà così particolare e dinamica, ha implicato cambiamenti anche sul piano personale?
“Non è facile rispondere. Ho vissuto vent’anni anni in Italia e venti in Cina. Ma la verità è che, in Italia, non ho avuto tempo sufficiente per maturare esperienze significative. Sono andata via che avevo ventitré anni. Sono sempre stata una persona curiosa, mi piace confrontarmi con gli altri e amo la mia indipendenza. Non sono certa che, rimanendo in Italia, avrei raggiunto la stessa autonomia – sia intellettuale che pratica – che ho maturato qui. A Shenzhen, conosco un’infinità di persone. Ho costruito un network di contatti importanti che in Italia non ho. Quando vivi all’estero, o diventa tutto più semplice, perché entri nel flusso delle connessioni interpersonali, oppure rischi di restare isolato. Non c’è una via di mezzo. Spesso, basta una chiacchierata con un altro straniero per scoprire un sentire comune. E poi, ho anche molti amici cinesi: l’interazione con la società locale è determinante per me. Quando, per lavoro, a mio marito fu chiesto di scegliere tra Shanghai e Shenzhen, non avemmo dubbi. Optammo per Shenzhen. Ci era piaciuta moltissimo”.

La sicurezza come valore tangibile
Qual è l’aspetto più sorprendente della vita a Shenzhen che difficilmente potrebbe immaginare altrove?
“La sicurezza, senza dubbio. Quando arrivai, vent’anni fa per l’appunto, mi rubarono la borsa e il cellulare – ma era un’altra epoca. Oggi, Shenzhen offre un senso di tranquillità che credo sia impensabile in qualsiasi altro Paese. Mi capita spesso di dimenticare le chiavi appese al motorino, per tutta la notte, e ritrovarle lì il giorno dopo. La sicurezza riguarda anche i bambini. Mio figlio va a scuola da solo in bicicletta, percorre due chilometri circa. Quando mia figlia vuole uscire con le amiche, indossa un orologio con il GPS, così la monitoro facilmente. Ha il suo cellulare, su cui carichiamo dei soldini, nel caso voglia comprarsi un gelato con le amiche. In Italia, o altrove, non credo mi sentirei altrettanto serena. Questa è proprio una peculiarità di Shenzhen. Quando si parla di sicurezza e di videosorveglianza è inevitabile parlare di tutela della privacy. Qui, non esiste la privacy pubblica, ma nessuno controlla ciò che fai nel tuo privato. Qualche anno fa, un bambino si era perso e, grazie a questo sistema di sorveglianza, è stato subito individuato. Sono disposta a condividere ciò che faccio pubblicamente per poter avere in cambio la garanzia di una vita sicura. Non esiste la delinquenza. Posso girare da sola di notte, prendere un taxi, avere informazioni in tempo reale sull’autista. Tra l’altro, a bordo, è contemplato anche un pulsante d’emergenza da azionare in caso di necessità. Ti localizzano in un secondo. Con il riconoscimento facciale si ottengono rapidamente le informazioni necessarie su una persona. Prima di delinquere ci si pensa. Anche perché le pene sono serie e severe. Per me, la privacy è ben altro. Tutto ciò ha contribuito a creare un forte senso civico fra le persone. Nessuno ruba nulla. Se si trova un cellulare, si fa di tutto per restituirlo al legittimo proprietario. La sicurezza è un valore tangibile”.

Storie, letture e torte
Parlando di lei, delle sue passioni, ho notato che si occupa del Dragon Club – nato per promuovere la lettura di libri cartacei e per attività offline – e di cakedesign. In una città come Shenzhen, dove tutto corre verso il digitale e l’innovazione tecnologica, come mai questa scelta, apparentemente in controtendenza?
“In realtà, l’ho fatto per i miei figli. Non mi reputo una paladina di idee innovatrici. È un progetto nato durante la pandemia, per evitare che trascorressero troppo tempo davanti al tablet. Sono sempre stata attiva nell’ambito scolastico, coordinatrice di tanti eventi e ho sempre ricevuto largo seguito da parte delle persone. Abbiamo iniziato con delle fiere del libro. I bambini erano contentissimi. Trascorrevano il tempo a odorare, letteralmente, i libri, anche quelli che non sapevano leggere. Allora, abbiamo organizzato delle sessioni di storytelling, in cui narravamo storie, leggevamo e facevamo attività manuali a esso legate. Tantissime famiglie hanno accolto questa idea in modo entusiastico. Sono stati proprio i genitori a chiedere, a me e a una mia amica cinese, Marcia Yang, di cercare uno spazio vero e proprio. Trovare un locale a Shenzhen non è facile, perché gli affitti sono proibitivi. Acquistare una casa qui è più caro che farlo a Manhattan. Abbiamo comunque provato. Appena iniziato, è arrivata la pandemia. Avevamo tutto pronto, ma, per circa un mese, non abbiamo potuto fare nulla. Una volta ritornati alla normalità, il nostro club è diventato un luogo ricreativo e di incontro molto amato. Tuttavia, abbiamo deciso di chiuderlo quest’anno, dopo tre anni di incessante attività, perché era nato con l’idea di coinvolgere i miei figli che, nel frattempo, sono cresciuti, e con loro gli interessi a cui si dedicano. Le torte continueranno a esserci anche fuori dal club. Comunque, sentirò la mancanza di quella meravigliosa cucina in cui avevo allestito il mio laboratorio. Mi diverto nel realizzarle. È uno stress che mi fa stare bene”.

Porta con sé anche la cultura della pasticceria napoletana?
“Lei è stata in Cina, vero? Ha assaggiato, almeno una volta, un dolce cinese?”. La mia espressione facciale è inequivocabile. “Ecco! Quando preparo le torte di compleanno, i cinesi mi dicono che sono troppo dolci. Non sono abituati. I loro dessert, in pratica, sono zuppe dolci di fagioli rossi o verdi. Per me, è come mangiare una minestra vegetale. La pasticceria straniera si è adattata ai gusti locali, e, per esempio, il ‘pan di Spagna’ è qualcosa di arioso, dal sapore dubbio, con quintali di panna ovunque. È insopportabile! Sono bravissimi nel decorare le torte, ma se le addenti… mi avvalgo della facoltà di non rispondere! In qualche modo, sono stata una salvezza per gli stranieri residenti a Shenzhen che conoscono i dessert, almeno per come li concepiamo noi”.

Flessibilità e capacità di adattamento
Si è adeguata ai gusti locali?
“No, assolutamente no. Non faccio dolci con la panna. Tanto che la maggior parte dei miei clienti sono stranieri o cinesi che hanno vissuto all’estero. Non c’è bambino a cui non piacciano le mie torte. Essendo innocenti dal punto di vista dei gusti, si esaltano nell’assaggiare i miei dolci. Quando mi chiedono di fare delle torte senza zucchero, senza questo o quello, io rispondo: ‘Ma che te la mangi a fare? Il compleanno viene una volta all’anno. Se proprio insisti, mangiati una pizza!’. Faccio torte gluten free, queste sì. Non le fa quasi nessuno a Shenzhen. I cinesi non sono celiaci, ma molti stranieri sì, soprattutto gli americani. Non lavoro per soggetti con allergie gravi. Non sono attrezzata per questo”.

Come sono vissute le festività italiane a Shenzhen?
“Fondamentalmente, non vengono celebrate. In passato, si vedevano le strade illuminate a tema natalizio, ma ora no, perché è un evento religioso. Non è vietato, ovviamente. Chi vuole può esporre decorazioni, alberi di Natale, ecc. Noi le festeggiamo nell’ambito comunitario degli stranieri, proprio all’interno del club, in un clima gioviale per le famiglie”.

E il concetto di amicizia in Cina?
“Dipende dalla persona. Chiaramente, con un’amica italiana posso avere più comunanza culturale. Per affinità, si cerca un’amicizia che non sia totalmente diversa da sé. Intendo dire che, sebbene possa avere un rapporto cordiale con la signora del chioschetto nel parco, non andrò oltre a un semplice saluto, in quanto avremmo poco da condividere. Le amicizie si costruiscono in base a una sintonia, indipendentemente da dove ci si trova. Lo stesso avviene in Cina”.

Altre passioni?
“Sono una persona iperattiva, quindi amo stare sempre in giro. Quest’anno, dopo aver chiuso il progetto del Dragon club, vorrei prendermi una pausa di riflessione. Ho in mente diversi progetti ancora in fase embrionale, ma se non dovessi trovare un’alternativa stimolante, farò la mamma a tempo pieno. Il lavoro più duro al mondo e non retribuito”.

Rimboccarsi le maniche e andare avanti
Consiglierebbe una permanenza in Cina a un neolaureato in cerca di crescita professionale?
“Assolutamente sì, sia come esperienza personale che lavorativa. È un contesto molto formativo, ma anche impegnativo. Da neolaureata, non è stato semplice trovare lavoro. Ho iniziato nel settore del trading e ho impiegato del tempo per comprendere in quale ambito poter crescere. Parlare la lingua cinese non era tutto. Sono stati necessari molta pazienza e volontà. Ho iniziato come assistente del direttore fino ad arrivare a gestire una mia divisione”.

La sua filosofia di vita?
“Direi: vivere giorno per giorno. L’esistenza è imprevedibile, costellata di eventi inattesi – come quando una tempesta violenta ha divelto un albero di trenta metri nel giardino del club, distruggendone il recinto. Per fortuna, non c’era nessuno nei paraggi. Mi piace organizzare la quotidianità, certo, ma so anche che la realtà, spesso, prende direzioni inaspettate. L’unica soluzione è rimboccarsi le maniche e andare avanti. Non si può essere troppo rigidi. Flessibilità mentale e capacità di adattamento sono qualità, o meglio, requisiti essenziali per vivere in Cina”.
La conversazione si conclude e a rimanere è la schermata nera del computer. Un insieme di pixel minuscoli e compatti che, combinandosi, sembrano trattenerne l’eco. Ancora vibrante, come il sorriso della mia carismatica interlocutrice.

*Referente Senior
per Progetti Commerciali
e Culturali Sino-Europei

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