
Severino Dianich, nato nel 1934 a Fiume, è un illustre teologo italiano. Sacerdote dell’Arcidiocesi di Pisa dal 1958 e docente ordinario di ecclesiologia presso la Facoltà di Teologia di Firenze, ha insegnato teologia presso varie facoltà teologiche in Italia e all’estero. È stato tra i fondatori dell’Associazione Teologica Italiana, di cui è stato presidente dal 1989 al 1995.
Nell’ambito delle celebrazioni del “Giorno del Ricordo” – istituito con Legge 30 marzo 2004 n.92 in memoria delle Vittime delle foibe, dell’Esodo Istriano, Fiumano, Giuliano e Dalmata e delle vicende del confine orientale, ndr –, organizzate dalla Regione Toscana a Firenze il 10 febbraio 2025, il sacerdote fiumano Severino Dianich ha tenuto un discorso in presenza del Consiglio regionale, che ritengo importante far conoscere a una platea quanto più ampia.
L’ideologia non c’entra
Il teologo ha fatto appello a non strumentalizzare politicamente la vicenda degli esuli e ha testimoniato l’esperienza della sua famiglia, esodata da Fiume nel 1948 e accolta nel campo profughi di Gaeta. Con testimonianze personali ha illustrato il regime oppressivo e la miseria in cui si visse nei primi anni del comunismo jugoslavo. Ha evidenziato che tali circostanze hanno causato l’abbandono degli esuli delle terre d’Istria, Fiume e della Dalmazia, e non ragioni di carattere ideologico o nazionale quali la difesa dell’identità nazionale italiana.
Chiedendosi quale lezione di vita si possa trarre dalla tragica esperienza degli esuli, Dianich ha manifestato la propria indignazione rispetto al rigurgito dei nazionalismi che ci hanno portato a due guerre mondiali nel Novecento. “Com’è possibile che dal Deutschland über alles si sia giunti oggi al Make America great again”, si è chiesto Dianich in un discorso accorato.
Il 1948 a Gaeta
“Nell’ottobre del 1948 sono diventato profugo di Fiume. Arrivato con la mia famiglia al Centro di smistamento di Udine, siamo stati spediti al campo profughi di Gaeta. Non della Gaeta splendida zona turistica di oggi, ma della Gaeta miserevole del Dopoguerra, nel 1948. Quindi in una situazione veramente di grande desolazione. Ebbene, poi la storia è andata avanti, tanti problemi si sono risolti e ne sono nati ovviamente di nuovi”, racconta Severino Dianich.
“Sono approdato al Seminario di Pisa – prosegue – perché il vescovo di Fiume era stato nominato Arcivescovo a Pisa (Ugo Camozzo, Vescovo di Fiume tra il 1938 e il 1948, Arcivescovo di Pisa dal 1948 al 1970, ndr) e questo fu l’occasione per il richiamo di seminaristi di allora. Un tempo si decideva da piccoli cosa fare da grandi… Io sapevo già a 15 anni che avrei fatto il prete, ed eccomi a 90 anni ancora qui. Pisa è così diventata un punto di ritrovo e di raduno di seminaristi e sacerdoti fiumani, dove ben 25 preti hanno operato nella vita pastorale dell’Arcidiocesi di Pisa”.
Sofferenza. Non offendere
“Sono stato ordinato prete nel 1958, ho vissuto il mio ministero pastorale sempre a Pisa e ho ricoperto l’incarico di docente di Teologia in varie facoltà teologiche d’Italia e all’estero, soprattutto come docente ordinario alla Facoltà teologica di Firenze. Il mio primo pensiero è una preghiera, che però è già stata delusa dai fatti, ed è che nessuno offenda la nostra sofferenza facendone motivo di polemica politica. Questa è una cosa indegna, non si approfitta dei morti e dei sofferenti per le proprie battaglie di partito. Inoltre, desidero fare un chiarimento. Nel Giorno del ricordo ci si riferisce alle foibe, senza dubbio, come oggi si usa dire un’icona giusta, veritiera e molto efficace per trasmettere il livello della tragedia di quegli eventi. Ma non si tratta solo della questione delle foibe – ritiene –, (dove le stime degli infoibati variano tra 4.000 e 11.000) nelle epurazioni del 1943 e poi nel 1945. Al di là dei morti e cacciati nelle foibe, si tratta dell’esodo di 300.000 profughi dalle province di Pola, Fiume e Zara, dalle città e dall’entroterra, avvenuto tra il ‘43 e il ‘52. Profughi che hanno abbandonato la loro terra per sfuggire alla fame – bisogna essere concreti e realisti – la miseria e fame che si soffriva in quegli anni, e per sfuggire e voler vivere in libertà rispetto a un regime oppressivo, quello dittatoriale di Tito. Tre province Pola, Fiume e Zara sono state coinvolte in questo esodo”.
Il vero motivo?
“Io non sono uno storico di mestiere – racconta ancora Severino Dianich –. Quello che posso riportare è solo la mia esperienza, le mie impressioni, i miei pensieri, a partire dalla mia esperienza. Sono di Fiume dunque il contesto regionale del mio discorso è quello di Fiume. Le ragioni dell’esodo? Mi domando sempre perché 300.000 persone hanno lasciato la loro terra? Le ragioni le stanno appurando gli storici. A seguito dell’ingresso della Croazia nell’Unione europea si stanno aprendo gli archivi, per una risposta storicamente e scientificamente appurata. Io posso parlare da testimone e non da storico: sono nato nel 1934, uno dei pochissimi testimoni rimasti. Posso dire: Io c’ero”.
“La pressione più forte a lasciare Fiume, nel mio ricordo e della mia famiglia, non è stata di carattere ideologico e politico, ma il bisogno di fuggire dalla miseria – puntualizza –, tale da averci fatto fare l’esperienza della fame, vera e propria fame. Ricordo cosa voleva dire stendere la marmellata, pochina, sulla fetta di pane in maniera molto distesa. Perché un briciolo di marmellata doveva bastare per decorare una fetta di pane. Ma ricordo ancor di più la coda per il pane: io presso un forno, mio fratello presso un altro e mia madre presso un altro, con la speranza di raccattare almeno qualcosa. Poi arrivare al banco per sentir il fornaio dire ‘El pan xe finido’. E tornare a casa con la saccoccia vuota. Quindi questo è stato il primo motivo”.
Negazione delle libertà
“Prima di studiare movimenti di pensiero, ideologie, ideali, restiamo coi piedi in terra. Fu la fame, la miseria provocata sia dalla crisi economica dovuta alla guerra, sia dalla politica del regime di Tito che, da un lato tendeva alla nazionalizzazione di tutte le forze produttive e dall’altro lato privilegiava l’esportazione. Noi vedevamo partire i treni pieni di ogni ben di Dio per Trieste, mentre a Fiume si faceva la fame. Il regime aveva un forte bisogno di valuta estera, sia per lo sviluppo della sua economia sia per lo sviluppo dell’industria pesante su esempio e ordine dell’Unione Sovietica. E della produzione di armi. Questo era il nostro pane, il nostro pane andava a finire lì. Una ragione ancor più decisiva della fame, è stata poi l’oppressione insopportabile del regime nella negazione delle più elementari libertà”.
«Niente scarpe per il bimbo»
“Non ritengo improprio che io ricordi fatti personali, perché è una testimonianza che mi è stata chiesta. Ebbene, camminavo da anni con un paio di scarpe da tennis bucate perché scarpe non c’erano, non durante la guerra, dopo ancor peggio. Finalmente arriva la notizia, voce di popolo: ‘Da Bata sono arrivate le scarpe!’. Corriamo per poterle acquistare, un paio almeno, e ci dicono: ‘Il certificato?’, e noi ‘Quale certificato?’. ‘Il certificato del capocasa, del controllore del Partito per il quartiere’. Papà corre dal capocasa per farsi fare il certificato, ma gli viene risposto: ‘Ma lei non viene mai alle riunioni del Partito, niente certificato e niente scarpe per il bambino’. Questo per citare un caso di cosa è l’oppressione di una dittatura”.
“A mio parere, il motivo principale dell’esodo quindi non è stato di carattere ideologico, come dire salvare la propria identità di italiani. Non che questo non ci premesse, ma non credo che si possa ritenere lo spirito nazionale, o se volete nazionalista, sia stato la spinta determinante a lasciare la propria città. Il nazionalismo, fra l’altro, in quegli anni significava filo-fascismo e coloro che erano compromessi con il Fascio se n’erano bene andati nei primissimi giorni, se non erano già finiti nella foibe”.
Fiume, cultura cosmopolita
“Soprattutto, va detto poi che Fiume ha sempre goduto di una cultura cosmopolita, aperta. Fiume ha vissuto sotto l’Impero Austro-ungarico, è stata provincia del Regno d’Ungheria, ha saputo governarsi con le sue ampie autonomie in quanto territorium separatum dell’Impero. Ha saputo amministrarsi difendendo la sua cultura e la sua lingua italiana anche quando è stata sotto sovranità ungherese, ha saputo amministrarsi anche nella totale indipendenza di città-stato quando nelle elezioni del 1921 il partito autonomista di Zanella aveva stravinto e Fiume è diventata Città autonoma. Ha saputo godere di un sistema scolastico di scuole in maggioranza italiane, ma anche con la presenza di scuole ungheresi e croate. Quindi Fiume è stata una città aperta a tutte le possibilità. È stata l’oppressione, la mancanza della libertà, la distruzione della propria dignità, che ci ha fatto lasciare la nostra terra”.
“Con tutti i cambiamenti che la città ha vissuto lungo la storia, mai era venuta ai Fiumani l’idea di andarsene. Fiume avrebbe potuto continuare a godere di questo carattere cosmopolita anche rimanendo sotto la sovranità jugoslava, se la Jugoslavia avesse avuto un sistema di governo democratico e rispettoso delle libertà e rispettoso delle minoranze, cosa che è stato”.
Tante contraddizioni
“Nella grande maggioranza dei casi è per amore della libertà e di una vita dignitosa sul piano economico che ci siamo fatti esuli. Esuli, permettetemi di dirlo, in patria, a dire il vero. Perché le contraddizioni non sono mancate nemmeno una volta arrivati in Italia. Siamo stati considerati fascisti che scappavano dal paradiso comunista di Tito. Quindi spesso non ben accolti. Senza dimenticare le istituzioni pubbliche: l’Italia ha pagato i danni di guerra alla Jugoslavia, come il Trattato di pace le imponeva, con i nostri beni senza però risarcirci. I beni che noi abbiamo lasciato là sono serviti a pagare i danni di guerra che l’Italia doveva alla Jugoslavia, pagati alle nostre spalle. Quindi il discorso sarebbe lungo e complesso, anche dal punto di vista politico”.
“Si pensi anche al miserabile livello dell’accoglienza. Io ricordo al campo profughi di Gaeta, un box quattro metri per quattro, negli androni di una caserma smessa, due casette di ferro, un pagliericcio, tre tavole e a mezzogiorno un piatto di minestra. Quale lezione di vita ricavarne. Permettetemi, in questi ultimi minuti che mi restano, di dire qualcosa rispetto a una domanda che non può non emergere. Se la storia è maestra di vita, ciascuno ne ricaverà la lezione che gli sembra più importante. Io vi dirò la mia, senza pretendere che valga nulla di più di quello che può valere il mio pensiero, il pensiero di una persona”.
Ricchezza di tradizioni
“Rispetto al dissennato attuale revival a livello globale dei nazionalismi, la nostra storia ha molto da dire. Abbiamo da meravigliarci che ancora si possa ritornare a posizioni ideologiche che hanno fatto tanto danno, che hanno seminato tante lacrime e tanto sangue in giro per il mondo. Dal Deutschland über alles, siamo oggi al Make America great again?
Una terribile domanda, mi rendo conto, ma la somiglianza, l’analogia non può sfuggire. Passando dall’Argentina di Javier Milei, al confessionalismo induista di Narendra Modi, per arrivare al preoccupante sdoganamento del nazismo in Germania, i nazionalismi stanno riprendendo piede. I nazionalismi che ci hanno portato a due guerre mondiali. L’autoesaltazione della coscienza nazionale, la chiusura dei confini, la spinta alla rivalità tra le nazioni più che alla solidarietà, mi paiono fenomeni che ci portano indietro di secoli nel cammino della civiltà”.
“Noi Fiumani, Giuliani e Dalmati ne siamo stati come popolo fra le ultime vittime, mentre i Balcani hanno continuato a produrne: ricordate la Sarajevo di trent’anni fa. Infine, credo che a noi Italiani di Pola, Fiume e Zara, alle nostre associazioni, che anche le nuove generazioni stanno portando avanti brillantemente e con impegno, spetta il compito di testimoniare che è possibile ed è garanzia di armonia, pace e di un incessante arricchimento culturale, coltivare e sviluppare ulteriormente la ricchezza delle nostre tradizioni culturali attraversando tutti i confini, vivendo in qualsiasi parte del mondo. Non senza pretendere allo stesso tempo che le istituzioni della Repubblica ci proteggano e favoriscano i migliori sviluppi di queste memorie, che noi conserviamo e che portiamo avanti come fattore importante di una visione, quindi anche di una politica che sappia custodire e valorizzare le proprie identità culturali”.
“Non chiudendosi ma aprendosi al mondo, al di là di tutti i confini e della ricchezze delle diverse culture tra le quali viviamo. Come dice il nome della nostra associazione di profughi Fiumani Italiani nel mondo”, conclude Severino Dianich.
*storico, teologo e ricercatore fiumano, laureato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, professore della Facoltà di Medicina di Fiume
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