Vino e olio dell’impero romano

Erano i prodotti più preziosi che, duemila anni fa, venivano commercializzati nel bacino del Mediterraneo. Recente la scoperta di una nave romana nei fondali del Quarnero

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Vino e olio dell’impero romano

Era stato l’Imperatore Caracalla, con un editto, a stabilire che tutti gli abitanti dell’Impero dovevano considerarsi cittadini romani. Come tali, avevano diritto di essere difesi dalla legge in ogni loro attività, non ultima e meno importante quella del commercio che, in epoca imperiale, assumeva la preminenza negli scambi soprattutto delle derrate alimentari. Grande importanza era data ai cereali, all’olio e al vino. Anche l’Adriatico, come si è visto di recente con il ritrovamento dei resti di una nave romana nel Quarnero e dai suoi resti di un carico di anfore, era un mare trafficato dai commerci.
L’espandersi dell’Impero, aveva fatto conoscere ai Romani prodotti diversi e caratteristici dell’Oriente e dell’Occidente. Principalmente l’olio e il vino avevano assunto una grande importanza e già a quei tempi esistevano le preferenze per l’uno o per l’altro di quei prodotti che venivano distinti a seconda della loro provenienza. L’olio dell’Hispania e della Macedonia, così come il vino della Gallia, della Pannonia, della Tracia e dell’Epiro, erano molto ricercati nella Roma gaudente.
Le grandi rotte commerciali, per l’assoluta precarietà e pericolosità delle poche strade, erano tutte predominio delle lente e capaci “onerarie” che navigavano il “Mare Nostrum” in lungo e in largo. Il grande porto scalo di Ostia, era il fulcro di ogni viaggio e, non era difficile assistere a spettacoli di grande teatralità nella compravendita delle merci che arrivavano e che partivano per le lontane terre dell’Impero. Ed ecco che diventa facile immaginare una storia ambientata all’epoca, che gira attorno, appunto al vino e all’olio da trasportare via mare…
A casa di Litrivio…
Quella era una sera speciale. A casa di Litrivio, ricco commerciante di olio e di vino, si sarebbe tenuta una grande festa per inaugurare una nuova rotta di commerci tra Roma e Creta. Litrivio aveva fatto costruire due navi onerarie per un carico di oltre duecento tonnellate l’una e le avrebbe affidate al comando di due esperti marinai: Generio e Arcadio. Tutti e due erano felici di questo nuovo incarico che li avrebbe portati a ripercorrere, nel corso di lunghe traversate, rotte epiche attraverso porti e genti che vivevano il mare e non erano imborghesite come quelle che frequentavano i ricchi salotti romani a parlare di Cicerone, Catullo e Aristotile. Loro appartenevano ai “bassi” della Roma povera che si arrangiava come poteva ed era troppo impegnata a mettere d’accordo il desinare con la cena per potersi preoccupare delle sorti dell’Impero e dei suoi commerci redditizi.
La sistemazione delle anfore
Generio e Arcadio, si sdraiarono sui triclini a lato della sala resa rumorosa dalle tante lodi rivolte all’ospite Litrivio ed entrarono subito in argomento. Si parlava da tempo sulla maniera di sistemare le anfore vinarie e olearie dentro lo scafo delle onerarie. Una sistemazione, per la verità si era già trovata. Le anfore venivano distese su di un letto di sabbia che si inseriva poi tra uno strato e quello successivo. Questa sistemazione funzionava quando il mare era calmo e con navi meno capienti. La sabbia fungeva anche da zavorra, ma ora, che la rotta prevedeva percorsi più lunghi e traversate di mari spesso procellosi, occorreva sperimentare sistemazioni diverse e più sicure del carico.
Parlavano di questo i due capitani scelti da Litrivio per guidare le sue onerarie. Panciute, con la stiva capiente e con un carico che poteva arrivare anche alle duecento tonnellate, potevano affrontare il mare con maggior sicurezza. Il carico che dovevano trasportare da Creta e dalle coste dell’Asia Minore sino a Roma, era ciò che il mercato allora chiedeva con più insistenza: vino e olio. Non esistevano contenitori né di vetro, né di legno, né tanto meno di metallo. I “container” erano realizzati in argilla cotta al forno. Anfore: quasi esclusivamente per l’uso vinario e più capaci “dolia” per il trasporto e la conservazione dell’olio. Forse fu proprio nel corso di uno di questi incontri che nacque l’idea di una sistemazione più sicura del carico nelle navi.
Un originale piano di carico
Ci piace immaginare che forse proprio i due zelanti capitani, Generio e Arcadio, invece di abbandonarsi alla gozzoviglia e alle abbondanti libagioni, si isolassero dai festosi banchettanti per dare vita a quello che fu considerato dagli archeologi subacquei, come il più originale dei piani di carico delle anfore nelle navi della marineria imperiale Romana. Le anfore, colme di vino e sigillate con una specie di resina che ancorava il tappo al collo, per la loro forma, potevano essere posate in verticale su di un letto di sabbia al fondo della nave, sino ad occupare strette l’una all’altra l’intera superficie dello scafo. Negli spazi vuoti che venivano a crearsi nel mezzo di un gruppo di quattro anfore, ne venivano inserite delle altre sino a completare un secondo strato di posa e, così via, sino ad arrivare al limite di carico possibile. Poiché le onerarie non possedevano un ponte che facesse da chiusura alla stiva, l’insieme del carico veniva coperto dalla posa in opera di uno strato di tegole di terracotta. Questo tipo di sistemazione, oltre che permettere un maggiore numero di anfore da trasportare, creava un insieme compatto del carico e nel medesimo tempo elastico nella sua omogeneità, tale da poter reggere i rollii e i beccheggi delle navi in preda ai marosi. La posa in verticale delle anfore, poteva sopportare il peso di quelle sovrapposte nello stivaggio e ne impediva la rottura. Tale sistemazione permetteva inoltre lo stivaggio anche di anfore diverse nella loro fattura: provenienti da Paesi diversi, come quelle africane, soprattutto le puniche, molto più affusolate di quelle romane.
Una bevanda da patrizi
Insomma, il vino soprattutto faceva fiorire un commercio molto lucroso, ma anche l’olio aveva raggiunto in epoca imperiale uno sviluppo notevole. Eppure il vino, con il suo sapore “tormentato” come lo descrive Plinio, non aveva un prezzo abbordabile. Era una bevanda da patrizi, da gente ricca: per palati decisamente abituati al suo gusto acidulo che veniva corretto con l’aggiunta del miele e di alcune spezie. Trasportato dentro le anfore, come si fa oggi con le damigiane, veniva servito ai banchetti in coppe la cui mescita era effettuata da eleganti brocche di terracotta. Un tipo di vino scuro, ancor più acetico e mescolato al miele grezzo, ad erbe aromatiche come il cardamomo e lo zafferano, veniva usato per uso sacro, tanto che lo stesso Cesare in un passo del suo “De Bello Gallico” ne fa cenno sottolineando come l’ospite ne fosse stato subitaneamente stordito dal suo sapore.
L’eleganza delle lampade
Coppe e patere di eccellente e artistica realizzazione, indicano come il rito del bere, dell’offerta del vino all’ospite, fosse un gesto di grande rispetto: tradizione che si è tramandata poi nei secoli e come l’impiego dell’olio fosse oltretutto un rituale nel suo uso quale prezioso combustibile per le lampade e per le illuminazioni. Tra i resti delle navi naufragate, si sono sempre rinvenute delle splendide lampade ad olio, artisticamente lavorate, quasi a fungere da prezioso portafortuna e sempre in numero abbondante, quasi a rimarcare la necessità e il gusto per un oggetto di così grande utilità in ogni circostanza di arredamento.
Sicuramente anche da Litrivio, quella sera, è scorso del vino in abbondanti libagioni all’insegna dell’augurio per le nuove rotte, tra il tremolare della luce che splendeva in eleganti lampade ad olio e si rifletteva sui i marmi della dimora patrizia. Generio e Arcadio, sicuramente un po’ “allegri”, importunavano scherzosamente qualche ancella, pensando ai lunghi viaggi che li avrebbero portati lungo le rotte commerciali del non troppo conosciuto e molto periglioso “Mare Nostrum”.

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