
Non sarà la Sagrada Familia, ma per i polesani patochi o meno, rimasti ed andati, fedeli o non, è una “sagrada” presenza spirituale, dal valore altamente simbolico insito nella sua storica sobria e solenne presenza architettonica, che si identifica con la Città medesima e l’immagine urbana che si apre in direzione del porto di Pola. Mai le disgrazie del passato sono riuscite a demolirla in maniera perenne, senza poi lasciarla resuscitare in (im)mutata e rinnovata veste, nemmeno dopo i bombardamenti anglo-americani di quel fatidico 22 giugno 1944. Il suo nome ufficiale è Cattedrale dell’Assunzione della Beata Vergine Maria ed è la cattedrale cattolica della Città di Pola, al tempo stesso anche Concattedrale della diocesi di Parenzo e Pola, e per questo ruolo che le compete risulta essere uno dei templi più sacri della comunità cristiana dell’Istria. Sacro per la sua odierna posizione gerarchica, ma anche per il significato che il medesimo riveste nel perpetuare le liturgie in lingua italiana e offrirle in sede allargata pure presso la chiesa della Madonna della Misericordia in piazza Dante appartenente alla stessa parrocchia.

Foto: ARLETTA FONIO GRUBIŠA
L’avvento di una nuova era
Quello che per i polesani è chiamato Duomo, ancor più che Catterale è in effetti l’erede di un lascito storico-culturale senza soluzione di continuità. È qui, in questo preciso luogo, dentro e sotto queste pietre templari che è stata edificata la prima chiesa cristiana di Pola. Si scende ai tempi paleocristiani (IV e V secolo d.C), quando sul sito appartenuto al culto pagano e a quel tempio di Giove Conservatore, rimastoci come leggenda inserita entro testi storico-archeologici, si sovrappone tutto un complesso di edifici cristiani voluti per celebrare il nuovo credo monoteista, servire la crescente comunità cristiana locale e l’avvento di una nuova era. Nacque successivamente la prima chiesa a una navata a fianco della basilica di San Tommaso apostolo, in una chiara disposizione architettonica parallela che come tale è da considerarsi una vera e propria sede del vescovado. La chiesa, subì l’ampliamento fino a trasformarsi in basilica a tre navate, tanto che la Cattedrale attuale è il risultato di tutta una serie di ricostruzioni ed espansioni effettuate nei tempi a venire.

Foto: ARLETTA FONIO GRUBIŠA
Le metamorfosi
Costruzione e ricostruzioni sono la storia che si racconta attraverso questo prezioso edificio: vari governanti hanno contribuito alla sua forma attuale. Se in uno dei suoi “raptus” belligeranti, la Serenissima la danneggiò tutta nel 1212 – ed è purtroppo l’aspetto che alla storiografia… di parte, più piace sottolineare – sempre Venezia, mondo squisitamente incline all’arte e all’architettura, una volta acquisito il controllo della Città fece sì di abbellire la Cattedrale, dando spazio a una fusione di stili che oggi la rende più unica che rara. L’odierno Duomo che, in realtà si discosta dall’antico soprattutto per la parte anteriore, è dunque un concentrato di espressioni artistico-architettoniche: transenne paleocristiane alle finestre della navata centrale, finestre gotiche ai muri laterali, archi e colonne romanico-rinascimentali che reggono la costruzione del tetto costituito da capriate, frontespizio e campanile barocco “aggiunto” nel 1707 incastonando purtroppo anche pietre staccate dall’Arena e sostituendosi (teoria di Mario Mirabella Roberti), a una precedente elegante torre trecentesca colpita da fulmine. I nomi con cui gli studi fanno riferimento alla storia della Cattedrale e delle sue metamorfosi sono tanti. Maestri costruttori degli organi a parte, i vescovi Andegis (VIII-IX), Biagio Molin (con restauri dal 1410-1440), Altobello Averoldo (1497-1531), Giulio Saraceno (1640, autore dei barbacani all’esterno del Duomo), Maria Bottari (rifacimento del campanile) e via citando anche Ferdinando Forlati e Guido Brass nonché altri ingegneri e architetti che a cura della Sopraintendenza ai monumenti di Trieste misero in atto attenti restauri nel periodo tra le due guerre (1925-1927), con cui il Duomo riprese il solenne respiro della basilica antica.

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L’inventario superstite
A voler enumerare in maniera catalogata tutto l’inventario superstite ed anche perduto appartenente alla Cattedrale ci vorrebbe lo spazio di un grosso manuale. Tentare un elenco, ma assai breve, non guasta: l’altare maggiore di marmo con incorporato il sarcofago romano del IV secolo, il suo tabernacolo ligneo con la raffigurazione di San Tommaso (lavoro di scuola veneziana); l’altare di marmo con la statua lignea della beata Vergine Maria; l’altare del Cuore di Gesù (lavori dei maestri tirolesi); lo splendido battistero barocco, le acquasantiere, la tomba terragna del vescovo Michele Orsini (m.1497) nel bel mezzo alla navata centrale, resa invisible dal tappeto rosso. Poco se non nulla rimane dei ricchi affreschi che decorarono la basilica e dei tantissimi mosaici di cui oggi è evidente una traccia della pavimentazione votiva fatta realizzare dai coniugi DAMIANUS ET LAURENTIA. A tanto si aggiunge la lista dell’inventario “minuto” al quale si lega l’aspetto della tradizione medievale: le reliquie dei Santi Giorgio (quello del drago), Teodoro (quello del convento legato all’omonimo quartiere polese), Basilio, Fiore, Demetrio e del Beato Salomone il detronizzato re d’Ungheria, nonché i reliquiari d’oro e d’argento rinvenuti dentro al sarcofago della tomba scoperta nel 1860 e finiti al Kunsthistorisches Museum di Vienna, sepolcro che secondo testimonianze aveva contenuto delle statue d’oro misteriosamente sparite. A raccontare tante storie nella storia sono i capitelli del colonnato di un tardo-gotico venziano (spesso fondato anche da pietre romane di riporto), ognuno diverso, con le insegne dei provveditori e delle scuole che concorsero ai restauri, emblemi di vasai e fabbri, con stemmi, monogrammi, simboli e piccole raffigurazioni di Santi, tra cui l’immancabile Tommaso e motivi vangelici, ornamenti a fogliami e floreali, taluni anche ereditati e riutilizzati dall’epoca romana.

Foto: ARLETTA FONIO GRUBIŠA

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Ristrutturare necesse est
Capire la magnificenza del Duomo di Pola significa capire l’importanza della sua storia, capire, oggi, come non mai, l’impellente necessità di salvaguardarla e valorizzarla. Lo stato di salute in cui versa l’edificio sacro odierno soprattutto nella sua parte interna, esige un buon pronto intervento. I portoni d’ingresso, da quello centrale a quelli laterali invocano restauro d’urgenza e verniciatura-laccatura di protezione, altrimenti resterà l’alternativa di dover abbattere per sostituire tutto con dei “bei” solidi portoni nuovi (possibilmente non in PVC), mentre le pietre dabbene annerite della splendida facciata barocca invitano a mettere in atto una dettagliata riqualifica, magari attraverso collaudata tecnica di lavaggio a caldo idrodinamico con procedura non abrasiva per rimuovere sporco e impurità. Quello che va fatto all’interno, invece, dovrebbe essere un rassetto generale. Le pareti all’altezza del sottotetto stanno mettendo in mostra pezzi di intonaco rigonfio e sbucciato, segnale di umidità accumulata nel tempo per non compromettere la salute, se occhio non mente, ancora apparentemente buona delle splendide capriate. Idem agli angoli, in alto, a livello d’ingresso e dietro al presbiterio, mentre le pareti alla base, sono state private dall’intera intonacatura fino alla pietra nuda e attendono (da tempo) un rifacimento, lasciando intravedere ben esposte delle prese della corrente e dei fili dell’impianto d’illuminazione. Un’antica bella signora, al momento un po’ sciatta e trascurata…
A contare su un quanto più prossimo intervento, intanto, è il parroco don Rikardo Lekaj. “Se la chiesa è sopravvissuta nel tempo è proprio grazie a questa nostra parrocchia, che ne ha sempre avuto cura. Ora, il problema del recupero e di una manutenzione più capillare, soprattutto per quanto pertiene l’intonacatura al livello basilare delle pareti esterne della Cattedrale è strettamente connesso al progetto cittadino del rinnovo di via Kandler. L’opera di rimozione di tutto il vecchio intonaco, effettuata prima del mio insediamento nell’ufficio parrocchiale, non ha visto un seguito con i dovuti interventi di rifacimento mediante intonaci speciali e da protezione per le tracce degli affreschi. È inutile ristrutturare e rischiare penetrazioni dell’umidità, finché non sarà risolto il problema infrastrutturale di via Kandler. Sarà allora che, contando sull’appoggio del Ministero competente, si potrà provvedere anche al resto. Intanto ci affidiamo alla costante opera di vigilanza messa in campo dai sovrintendenti al patrimonio storico-culturale”.
Aggiungeremmo anche che vale la pena sperare nell’intervento dell’Assunta affinché ispiri gli umani a rendere più dignitoso, degno e decoroso il santuario dedicatole con tanta rinnovata secolare devozione di fedeli. Non resta che pregare.

Foto: ARLETTA FONIO GRUBIŠA
Le parole di Mario Mirabella Roberti
Di tutte le grandi basiliche, delle molte cappelle votive, che Pola un tempo poteva mostrare entro e fuori le sue mura, degne di stare accanto alle chiese di Ravenna per forme d’architettura e per ricchezza di marmi e musaici, ben poco ora rimane. Guerre, spoliazioni, demolizioni hanno privato la città di quanto attestava l’antico vigore della sua vita religiosa e di tanta ricchezza restano ora solo le memorie: S. Maria Formosa, S. Felicita al Prato Grande, S. Stefano sulle mura, S. Clemente e San Martino in monte, S. Giovanni in fonte, S. Caterina in isola…
Le chiese superstiti sono quasi prive di opere di scultura o di pittura, che parlino agli occhi e all’animo lasciando commosse immagini di bellezza e di fede: non una sola tela resta alla città dei più noti pittori veneziani, che pur in quasi ogni altro centro dell’Istria han lasciato i segni del loro caldo colorire.
Ma nelle scabre pareti del suo Duomo Pola conserva nella sua parte essenziale l’edificio sacro più antico della Venzia Giulia e uno dei più antichi d’Italia e l’unico esempio vivo di basilica paleocristiana e pianta rettangolare senz’abside. Una basilica della seconda metà del V secolo, che attorno al suo altare riunisce una serie di preziosi rilievi e di musaici paleocristiani, così che possiamo in essa seguire le forme della scultura ornamentale tardoromana, bizantina e barbarica dal IV al IX secolo della nostra era.
-Mario Mirabella Roberti
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