Una cattedrale verde

Nel Parco naturale del fiume Sile

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Una cattedrale verde

Se Venezia è per antonomasia la città che sorge sul mare, ce n’è un’altra, non molto distante, che invece sembra galleggiare sulle acque dolci dei suoi fiumi, dei numerosi cagnani (canali) e dei rii che s’insinuano in modo intrinseco nel tessuto cittadino, cingendo anche la gran parte delle mura che contengono il nucleo storico. Si tratta di Treviso, citata per la prima volta da Plinio il Vecchio nel III libro della sua Naturalis historia, ma che sicuramente esisteva già in epoca preromana. Tra tutte le sue acque, il corso principale è però rappresentato dal Sile, che come tante altre vene fluviali della bassa pianura veneta rappresenta una risorgiva scaturente da numerosissime sorgenti piccole e grandi, ovvero dai fontanassi, come si definiscono nel locale dialetto veneto.
Un… invito a nozze

Il Sile presso l’Isola della Pescheria, sul Cagnan grande a Treviso; chi avesse il permesso può pescare da casa

Per una naturalista come la sottoscritta, abituata per lo più a scorrazzare giorno e notte tra le pietre del Carso, la visita a un habitat simile, umido e quindi ricchissimo di flora e fauna assolutamente particolari, è stata proprio un invito a nozze. E a confermare che si tratti di un sito naturalistico importante, c’è il fatto che nel 1991 è stato proclamato Parco naturale regionale. Nell’area sono quindi in vigore tutte le misure necessarie a tutelare il suo eccezionale valore ambientale. Studiarne prima i punti salienti e visitarli poi, percorrendo le alzaie, ossia le strade lungo le rive dalle quali un tempo si eseguiva il rimorchio dei natanti o le agevoli passerelle di nuova data, costruite in modo da permettere l’accesso ai punti in cui il transito sarebbe altrimenti impossibile, è stata veramente un’impresa piacevole oltre che molto interessante.

Il barbagianni ama vivere accanto all’uomo

Eccomi dunque alla palude calcarea nel Gran bosco dei fontanassi, dove in epoca odierna scaturiscono le risorgive del Sile, che un tempo sgorgava invece alla Porta delle Acque; nell’800 però, quest’ultima area venne interrata per contrastare le esondazioni causa dei palù, ossia delle aree acquitrinose, attualmente di grande interesse scientifico, che in passato però erano poco considerate per lo scarso potere produttivo.
L’impeto delle acque
L’impeto delle acque è comunque un fenomeno inarrestabile. Se da una parte si impedisce la loro venuta a giorno, trovano immancabilmente un’altra via di sfogo. Eccole quindi fuoriuscire nel fitto del bosco, ultimo relitto delle antiche foreste che l’uomo ha ridotto e distrutto completamente, smantellando anche i campi chiusi d’un tempo. La tecnica di coltivazione applicata a quest’ultimi, consisteva infatti nel conservare ai margini dei terreni agricoli sieponi di alberi e arbusti per proteggere i campi dalle intemperie, ricavando nel contempo dalle piante beni utili all’esistenza quotidiana. Oltre a stabilizzare le sponde dei fossati, esse fornivano infatti legacci (salici), pioppi (ottimi funghi), legna da ardere (platani), foraggio per i bachi (gelsi) e legno pregiato (noci). Dal punto di vista naturalistico alberi e siepi erano altresì importantissimi in quanto fornivano rifugio e siti tranquilli per la nidificazione, nonché una sicura via di spostamento per gli animali selvatici. La scomparsa di questa particolare tecnica agricola ha portato perciò alla perdita di gran parte della fauna, soprattutto dei grandi mammiferi di cui un tempo la pianura veneta era molto ricca.
Una sorgente… salvata

Una coppia di svassi, dai caratteristici ciuffetti sul capo

Entrare quindi in questa cattedrale verde, dopo chilometri di campi coltivati e vigneti è stata davvero una grossa sorpresa, superata però dall’osservare il “ribollio” dell’acqua, che con la sua pressione riesce a sollevare la ghiaia finissima nei numerosi fontanassi, in parte celati dalle fitte felci di palude. È qui che dalla falda sotterranea il fluido torna a giorno, quando le ghiaie permeabili vengono sostituite da depositi argillosi impermeabili che costringono l’acqua a emergere. Il fondo sabbioso, in continuo movimento, non dà però alle piante del sottobosco la possibilità di radicarsi. D’altra parte, proprio per la loro natura paludosa, le sorgenti del Sile si sono salvate dall’antropizzazione. Ecco allora spiegata la presenza di quei meravigliosi volatili che sono i Martin pescatore e delle vivacissime arvicole terrestri che scavano le loro tane tra le radici degli alberi.
Ontano nero, il «padrone»

Il fantastico cimitero dei burci abbandonati nel ramo morto del Sile

Non è raro, verso sera, imbattersi in esemplari di volpi, furbe e opportuniste, mentre sugli alberi scorrazzano gli scoiattoli rossi, di recente acquisizione. È inoltre molto interessante la rana di Lataste, una specie endemica presente solo nell’area tra la Pianura Padana e la Croazia, legata proprio ai boschi umidi e abituata a deporre le uova nei fontanili, dove vive anche lo scazzone, una specie ittica di piccola taglia, dagli occhi molto prominenti. E se l’ontano nero, l’al han dei Celti, la fa da padrone, non sono da meno anche parecchi esemplari di gigantesche querce. Qua e là, simpatiche e utilissime cassette nido rappresentano un notevole aiuto per gli uccelli che tengono sotto controllo gli insetti dannosi, ma sono anche il rifugio invernale per molti roditori. Purtroppo, anche qui la globalizzazione ha prodotto l’insediamento di specie alloctone, tra cui il gambero rosso della Louisiana, che assieme ad altre specie esotiche più adattabili ha provocato la rarefazione del gambero di fiume europeo. Il monitoraggio e l’eradicazione in atto dovrebbero dare i loro frutti, ma la presenza di alieni (tartarughe americane orecchie rosse) che riesco a immortalare più tardi, nel corso basso, mi fa capire quanto il fenomeno sia dilagante.
Il vecchio mulino

La tartaruga orecchie rosse, un alieno proveniente dall’America

Proprio nel cuore del Parco, l’Oasi naturalistica di Cervara, costituita da una vera e propria isola delimitata dal Sile e dal Piovega, dove sorge l’ultima grande palude del fiume, mi stupisce piacevolmente per la ricchezza di vita. Germani reali, folaghe e cicogne (quest’ultime in fase di reintroduzione) si muovono in libertà tra i rami dei salici immersi nell’acqua e le foglie e i fiori dei nannuferi, mentre i gufi e i barbagianni, prettamente notturni, sono ospitati nell’apposita Arena. Il pittoresco mulino con le due gigantesche ruote, che sorge proprio all’ingresso, risale a prima del 1325, al cui anno è legata la prima traccia scritta. È il testimone dell’antica arte molitoria, che nel 1500 contava sul Sile ben 33 ruote con 20 mugnai, numero sufficiente a formare una piccola arte. I mulini rappresentavano all’epoca indubbiamente dei centri di aggregazione sociale, anche perché, oltre a prestare il servizio di macinazione, i mugnai riuscivano a catturare nelle vasche gamberi e bisatte, che poi scambiavano con gli ortaggi forniti loro dai contadini. Inoltre, sin dall’epoca paleoveneta, il Sile ha sempre rappresentato un’importante via di comunicazione. In tempi successivi è stato l’arteria pulsante tra la Marca trevigiana e Venezia, in quanto ancor oggi, seppure spostato dall’intervento umano, sfocia nella Laguna non lontano da Torcello. Lungo la corrente e nelle paludi si procedeva con le pantane, le barche a fondo piatto spinte a mano con un lungo palo. Per il trasporto di merci, e soprattutto per quello dei prodotti agricoli, venivano invece impiegati i burci, che con le gabane, le comacine, i batei, i topi e i barchetti, rappresentavano le tipiche, secolari imbarcazioni venete.
La fine di un’epoca leggendaria
Soppiantate dal trasporto merci su strada, tra il 1974 e il 1975 quelle che ancora erano in funzione, vennero abbandonate nel ramo morto del Sile presso Casier. È qui che termina la mia passeggiata. Getto un ultimo, melanconico sguardo ai grossi battelli in sfascio che l’acqua e le intemperie stanno finendo di distruggere, ma che comunque hanno creato un ambiente unico, dove sostano (e forse nidificano) cigni, aironi e svassi. Le vecchie imbarcazioni in rovina rappresentano la fine di un’epoca leggendaria, in cui la vita e il lavoro dell’uomo erano scanditi dai ritmo della natura e dalle piene del fiume. Un capitolo che si chiude, con tante specie in meno e alcune, ahimé, in più, introdotte per negligenza dall’uomo, che si spera non intacchino ulteriormente il biotopo ancora relativamente ben conservato dell’antico, maestoso fiume Sile, che scorre come un grosso, fantastico serpente nella placida pianura veneta del Trevigiano.

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