
“Sei entrato in uno spazio creativo privo di condizionamenti, come posso agevolare la tua esistenza?”.
Un messaggio questo che, dal cellulare, mi restituisce la sensazione chiara e cristallina di ciò che sto per assaporare: un salto quantico compiuto dalla Terra verso un altrove indefinito, ma, per assurdo, più aderente al cuore della vita.
Davide Rausa, in arte Monsieur David, risponde così al mio primo contatto telefonico.
Il quesito posto spalanca mari e oceani di profondità. È un invito ad abbandonare ogni forma di stereotipo o pensiero preconfezionato, poiché il mondo capovolto li trova scomodi, un impedimento alla naturale evoluzione dell’anima, nel suo essere tessuto immortale di energia e trascendenza.
La postura ideale per osservare la vita
A occidente del globo, si è abituati a una visione lineare degli accadimenti in base alla quale, osservarli e interpretarli mantenendo la testa alta e i piedi ben piantati sul suolo, è considerata la postura ideale per conferire sicurezza e convinzione a quello che facciamo. Ma di certo, non a chi siamo nella realtà. Se riuscissimo a spostare appena di qualche millimetro le fondamenta interiori, i grattacieli di certezze e convincimenti che abbiamo edificato nel tempo, questi cederebbero sicuramente il passo a prospettive più gradevoli e intriganti.
Accade, ad esempio, quando d’improvviso scompigliamo le carte di un gioco. In quel momento passeggero di follia, breve seppur travolgente, del non rispettare le regole, si dischiude l’ingresso preferenziale alla capacità innata di sapere osare. Lo sguardo incredulo e meravigliato di chi ci osserva, e vorrebbe svincolarsi dall’imbrigliamento di appiccicosi ruoli sociali per abbandonarsi a quella stessa pazzia, diventa una sfida a svelare versioni di sé inedite.
Ma quali possibilità emergono nell’abbracciare l’ignoto, il nostro ignoto?
Forse, è questa l’opportunità del viaggio interiore che Davide Rausa e il Teatro del Piede (Feet Theatre) propongono con eleganza e poesia. Durante i suoi spettacoli, non si è semplicemente spettatori o presenze passive, bensì parti integranti del processo inventivo e del disegno di rinascita in essi implicito. Non è soltanto l’atto di usare fisicamente e letteralmente i piedi come protagonisti del palcoscenico, piuttosto una demolizione di punti di vista tradizionali, una liberazione da condizionamenti che ostacolano la manifestazione delle potenzialità individuali.
La domanda iniziale – “Come posso rendere più leggera la tua esistenza?” – è di per sé uno stimolo all’introspezione.
Il peso delle aspettative
Nel mondo sottosopra, la forza espressiva, collettiva e singolare, si dispiega senza il peso delle aspettative. In qualche modo, entrare in tale “spazio” significa sperimentare un cambiamento di coscienza per accogliere una consapevolezza più fiduciosa nell’essere umano e nel suo potere visionario, il quale si nutre delle metrature tra ciò che apprendiamo razionalmente e che immaginiamo con il cuore.
Torinese, di origine siciliana, Davide Rausa propone racconti, storie e personaggi strabilianti, che dai piedi nascono per poi diramarsi ovunque.
Le chiavi del successo
Negli anni, si è confrontato con diverse culture in ambienti internazionali e attingendo da vari stili artistici. L’improvvisazione teatrale, il teatro fisico gestuale e la pantomima sono le chiavi del suo successo (ospite frequente in famose trasmissioni televisive italiane: Domenica In, Colorado, Soliti Ignoti, Cultura Moderna, Italia’sGot Talent e Italia sì su Rai Uno) costruito in anni di carriera e studio per i quali ha ricevuto numerosi premi di prestigio mondiale: Il Salieri Circus Award 2023 – medaglia d’argento, alla presenza di rappresentanti del Cirque du Soleil, di Alain Frère del Circo di Montecarlo; il Premio AssoTutela Eccellenza Italiana 2021– fondato da Michel Emi Maritato e patrocinato dal Senato della Repubblica Italiana; Best Trick Festival Comedia da Odesa Ucraina 2019; premio NOPS 2017 come miglior spettacolo e Premio Nazionale Righetto – per i 150 anni dell’Unità d’Italia, in occasione del quale ha presentato il primo e unico cortometraggio realizzato con il Teatro del Piede, dal titolo “Fiaba Tricolore”.
In questi giorni, partecipa all’edizione del Carnevale di Venezia, dedicata alla celebrazione dei trecento anni dalla nascita di Giacomo Casanova, dal cui istrionismo è stato ispirato per realizzare uno spettacolo insolito e prezioso.
E la scintilla che ha innescato il tutto?
“Per ben diciassette anni ho lavorato come animatore presso villaggi turistici intercontinentali, pur non volendo diventare un animatore professionista. Piuttosto, ero alla ricerca di un habitat evolutivo nel quale crescere artisticamente e spiritualmente. Ho trovato nei villaggi turistici un luogo dove allenare la mia personalità, il mio carattere, le mie esigenze anche creative, imparando a stare con gli altri, con persone di età diverse fra loro. Ho potuto sviluppare delle competenze a tutto tondo: dal palcoscenico all’aspetto organizzativo del “dietro le quinte”, ossia la programmazione di una scaletta, la costumistica, la scenografia. Uscito dal contesto dei villaggi turistici, mi sono reso conto di essere cambiato sensibilmente. Mi sentivo “pieno”, ho percepito una sorta di illuminazione per cui ho compreso che non avrei dovuto lavorare e basta, ma scandagliare nel profondo. Accettai di supportare una mia amica in un progetto che prevedeva la formazione di animatori. In quel periodo, entrai in contatto con il Teatro del Piede. Ricordo che, nell’ufficio, c’era uno specchio di fronte al quale mi esercitavo, ed è lì che ho creato la prima parrucca, la stessa bionda che uso oggi, dopo quindici anni”.
Come è diventato l’artista capovolto?
“Inizialmente, ero ‘Monsieur David’. Poi, in questi lunghissimi anni di studio, ho avuto un’intuizione: l’uomo capovolto rappresenta tutti quegli uomini che sono immersi in una materia divina, fatta di interconnessioni. Per usare una metafora: come me, sono immersi alla stregua di un biscotto nel caffellatte. Quando ascoltiamo questa nostra spiritualità, emerge qualcosa di speciale. La grandezza che ci ha creato ama i coraggiosi, coloro che vogliono sbocciare con le proprie qualità. L’uomo capovolto è una persona che ripone fiducia in se stessa, che entra in contatto con le propria essenza, anche creativa, e riesce a concretizzarla. Ricordo che, quando ero piccolo, ero affascinato dalle storie degli inventori. Tuttavia non ho mai accettato l’idea che dovessero essere, per me, un modello di umanità straordinaria, lontano o superiore al mio”.
Cosa è il mondo capovolto?
“Nel mondo capovolto, gli uomini investono nel proprio ‘respiro’, ossia in un rifugio intimo. È fondamentale! La vita ci chiede di esprimerci indipendentemente dalle sovrastrutture. Quasi per paradosso, quando si ritorna al cuore e l’universo si sintonizza con questa autenticità, diventa tutto più semplice”.
Quindi, il mondo capovolto permette di osservare da un’angolatura diversa rispetto a quella a cui siamo soliti?
“Sì. In fin dei conti, non racconto nulla di inventato o astruso. Sono riuscito a trasformare quel bambino vissuto in situazioni difficili in un individuo in grado di entrare in contatto con il centro di se stesso. Quando mi capovolgo, non è una pura questione di show, semmai di infondere a tutti i presenti un concetto ben preciso: si può fare, ce la potete fare!”.
L’arte a cui fa riferimento, è un insieme di competenze e talenti multidisciplinari?
“A differenza del teatro tradizionale, quello del Piede mi ha indotto ad analizzare ulteriori aspetti di me. Prima, parlavo tantissimo, ero molto egoico. Cercavo di stupire l’audience con la parola o la battuta giusta e, a un tratto, mi sono stancato di farlo. Ho cercato il silenzio, incuriosito dal sapere cosa mi riservasse, e questo mi ha condotto gradualmente a scoprire il significato di uno spazio scenico, dell’essere sinceramente generoso nei confronti degli spettatori. L’arte del Piede è una danza continua. Sono io al servizio dei miei personaggi non il contrario, anche se in fondo li animo io. (clicca qui per vedere una delle performance di Davide Rausa). È un tipo di servizio (mi piace chiamarlo così!) che mi ha regalato l’umiltà di cui avevo bisogno per elevare la mia vibrazione artistica. Dopo quindici anni, dico che, per fare una battuta, sono diventato un monaco, perché sono totalmente cambiato, e intendo dire sin dalle radici”.
Chi è Monsieur David?
“Fu il mio primo capovillaggio, osservando i miei modi, a soprannominarmi così. Monsieur David rappresenta la possibilità di relazionarsi, elegantemente, a chiunque. Credo che il cambiamento personale sia anche il cambiamento dell’altro. È un meccanismo sorprendente. Monsieur David è una persona leale e schietta, che ricorre alla fonte originale di sé, che rispetta la propria natura e la propria missione su questo pianeta. Una cosa che mi piace pensare è che il mio Teatro del Piede possa proteggere i gesti delicati, soprattutto del genere maschile, con la musica e il silenzio, contribuendo ad armonizzare la società. La gentilezza può essere molto più virile di tanti cliché comportamentali proposti oggi”.
Davide e Monsieur David sono due identità distinte?
“Direi che si sono incontrate e congiunte. Riconosco di essere molto empatico, avendo vissuto in un contesto familiare piuttosto complesso. In fondo, sono il risultato anche di un passato. Ho avuto il privilegio di crescere con un bagaglio di esperienze umane che ora crea la differenza persino in campo professionale”.
È un pioniere in Italia?
“Lo sono nella mia modalità. È un’arte impegnativa, che richiede grande volontà e disciplina. Ci si conta sulle dita di una mano. Iniziai nel periodo dell’occupazione al ‘Teatro Valle’ di Roma nel 2011, avevo da poco abbozzato la storia d’amore da portare in scena e mi esibii proprio il giorno in cui avvenne l’occupazione. C’erano Nanni Moretti, Elio Germano e c’ero anche io, con un amico pianista jazz che mi accompagnò, improvvisando per l’occasione. Un giorno, mentre ero sulla metro a Roma, sentii un annuncio del Censimento Artistico Romano organizzato da Pino Insegno, che cercava profili sconosciuti. Decisi di rispondere, ma dimenticai di inviare l’e-mail per la candidatura, cosa che avvenne due settimane dopo e, guarda caso, a occuparsene era una ragazza che mi aveva visto nel mio esordio al ‘Teatro Valle’ e convinse gli organizzatori a contattarmi, dicendo loro: ‘Io l’ho visto… è uno pazzesco!’. Da quel momento, e dopo notevole impegno, sono giunto fin qui. Una grandissima emozione che mi ha incoraggiato a continuare. È stato comunque l’effetto di tanti cambiamenti interiori”.
Come ci si prepara a questa forma d’arte, a una performance?
“Pratico pilates tutti i giorni per mantenere elasticità corporea. Negli anni, ho compreso anche cosa utilizzare per non farmi fisicamente del male. Però, la preparazione vera e propria è più psicologica. Mi immagino a camminare senza ossa, visualizzandomi invertebrato. Mi sento meglio con le gambe in aria rispetto a quando sono in posizione verticale – e sorride –. Devo trattare bene il mio corpo, con una costante attività fisica e una sana alimentazione”.
Quali tecniche integrative sono presenti nel Teatro del Piede?
“Sto aggiungendo tanti altri ingredienti: la poetica e anche la drammaturgia dei fenomeni. Come avviene in questi giorni sul palco insieme a Maurizio Battista, con il quale ho già avuto l’onore di collaborare nel 2018 al Teatro Sistina di Roma, e quest’anno, con lo spettacolo ‘MB Show Il Gran Varietà’ al Teatro Olimpico (nella capitale italiana), dove a un certo punto il protagonista si trova di fronte a una scelta: accettare di essere respinto da una donna di cui è innamorato o affidarsi agli scenari che l’ignoto gli sta offrendo. Lui decide di precipitare all’indietro in un tunnel immaginario e con le gambe crea una storia d’amore parallela. Un mio amico ha detto che propongo un’interpretazione dadaista. A me piace pensare che quell’uomo abbia trovato una cura per l’anima, grazie a una negazione ricevuta dall’esterno”.
Si è sempre allievi di se stessi e, pertanto, non si finisce mai di imparare e proporre un’arte così pregiata e pregevole.
“Esatto. Sarebbe impossibile non esplorare in me e negli avvenimenti esistenziali”.
Un personaggio particolare da cui ha tratto ispirazione?
“È stato un approccio graduale. Il primo fu di acquistare un meraviglioso libro di Viola Spolin, docente presso l’UCLA di Los Angeles e antesignana del teatro di improvvisazione, nel quale parlava di una tecnica innovativa, per cui l’attore avrebbe dovuto coprire la parte superiore del corpo e lasciare fuori gambe e piedi, appoggiandoli a terra. Il passaggio successivo consisteva nel trovare un titolo, far partire la musica, mentre gli allievi dovevano riuscire a trasmettere a coloro che guardavano, cosa stessero raccontando, la loro storia. Il secondo approccio, credo quello determinante, fu vedere una donna, in un circo, ribaltare una poltrona, facendo spuntare le piante dei piedi completamente nudi. Lei lavorava con le dita dei piedi, creando dei movimenti essenziali ed estremamente comunicativi. La minimalità è la mia caratteristica preminente. Il piede è diventato una testa, la caviglia, il collo. Nel ritagliare i vestiti per i miei personaggi, mi stupii tantissimo di quanto risultassero incredibilmente reali. Il mio lavoro non è marionettistico, io mi soffermo sulla lentezza. Propongo degli alieni carichi di forza emotiva”.
Qual è il pubblico di riferimento?
“In molti si ostinano a pensare sia uno spettacolo per i bambini, per la famiglia. Ma si tratta di un’esperienza mistica, dedicata agli adulti, che in sala, rimangono attoniti e in silenzio. Alla fine dell’esibizione, mi guardano come se avessero compreso che è avvenuto uno scatto, difficile da descrivere. Percepisco riconoscenza. Con i bambini è più semplice, sono allineato alla loro vibrazione. A me interessano principalmente gli adulti, perché sono loro che devono vedere, con i propri occhi, che un artista di cinquant’anni è ancora capace di ribaltarsi come un giovincello, fuori dagli stereotipi. Che non fa, ma è!”.
Di cosa parlano le storie proposte in scena?
“Sono poetiche e contemporanee e vari sono i personaggi: ad esempio, il mago, quello degli archetipi però; lo speleologo che ricerca se stesso nella caverna ed è un numero, quest’ultimo, improvvisato. Ogni volta, diverso; c’è anche una storia d’amore; un pupazzo che canta e con il quale ho stabilito una relazione davvero particolare. Rendere veritiero un oggetto inanimato, è una sensazione potente”.
I testi che accompagnano il vostro spettacolo?
“Ve ne è uno che amo, non perché lo abbia concepito io, ma per il messaggio che traspare. Lo trascriverò per poterlo fotografare e condividere con i lettori de ‘La Voce del popolo’. Mi auguro sia gradito”.
Lei, sul palcoscenico, è affiancato da un’artista raffinatissima e delicata, Federica Gumina.
“Sì. Con lei esiste una combinazione astrologica che ci unisce da tempo. Federica, Madame Marion, è il tocco femminile che arricchisce lo spettacolo, apporta un flusso energetico bellissimo. Non abbiamo collaborato da subito, è stata una decisione presa in seguito, nel voler unire le reciproche peculiarità artistiche. Lei, è anche un’eccezionale danzatrice di tango argentino. Grazie a Federica, ho conosciuto la danza contemporanea internazionale. Possiede una grande sensibilità che trasmette attraverso il suo essere multidisciplinare con una maestria impressionante. Non è facile rendersi conto dell’enorme impegno richiesto per fondere danza e tango da solista. Inoltre, è una splendida attrice, la sua voce incanta. Ora, ci occupiamo, in sinergia, di un nuovo spettacolo in cui inserire un connubio tra la pantomima comica e il teatro fisico. Ho voluto che avesse un ruolo ben delineato per conferirle il valore che merita. Federica mi ha, di contro, coinvolto in un suo spettacolo, ‘Frida’, dal quale fa emergere nettamente un talento cosmopolita. È una storia, tradotta in spagnolo e, a breve, in inglese, ricca di testo e danza, di stupore e magia, non si parla solo di sofferenza”.
Siete stati recentemente e per la prima volta in Cina, a Pechino. Quali le impressioni?
“Ci siamo esibiti presso il Beijing People’s Art Theatre, un’istituzione tra le più rinomate in Cina. Mi ha colpito l’estrema ospitalità di tutti. Durante la nostra settimana di permanenza, siamo stati letteralmente coccolati. Abbiamo scoperto che in Cina questo tipo di teatro, lento e sensibile su cui anche loro lavorano, è molto gradito. Sono dotati di un grande spessore teatrale. Il pubblico ha davvero apprezzato e la cosa che mi è piaciuta è stata vedere che i ragazzi, a differenza di quelli in Italia, hanno posto domande specifiche su aspetti scenici. Per l’occasione, ho costruito una pupazza cinese che usciva da una scatola, cantando un brano, Love Song (情歌) dwi Fish Leong – Liang Jing Ru –, che ho scoperto essere tra i più famosi in Cina, ma io lo avevo scelto intuitivamente, senza saperlo. Abbiamo anche scoperto che si mangia benissimo – e lo dice soddisfatto –. Inoltre, a Pechino, abbiamo realizzato un workshop intitolato ‘Ritorno al fantastico’, che ha suscitato enorme interesse, al punto che ci è stato proposto di ritornare. Vorremmo andare anche a Shanghai e in Corea del Sud. Vedremo. In futuro, ci piacerebbe creare uno spazio che immagino tondo, nel quale aiutare le persone a sviluppare il potenziale creativo con l’ausilio della danza, dell’improvvisazione e della musica. Una sorta di farmacia ambulante. Insomma, dove formare artisti, creare repertori. Si comincia, comunque, sempre dal presente e lo si sviluppa strada facendo”.
Adattate la lingua ai luoghi?
“Ad oggi, esclusivamente il testo che accompagna il finale dello spettacolo, e che abbiamo tradotto in inglese”.
Passando dai piedi alle mani. Lei è autore di magnifiche illustrazioni. Aveva già realizzato, nel recente periodo pandemico, “Giù la maschera, scarabocchi di Monsieur David”, con la prefazione di Nicola Vicidomini, innovatore del linguaggio umoristico italiano, ma ora sta lavorando a un nuovo libro. Ne parliamo?
“Certamente. Si intitola ‘Se non puoi dirlo, disegnalo’, ed è in attesa di essere pubblicato. Vi è un canovaccio di base che guida il lettore a osservare attentamente i particolari e, in una seconda fase, lui stesso sceglie l’andamento del libro, i pensieri che desidera condividere. Vorrei che la mia poetica fosse conosciuta anche attraverso i disegni. Mi chiedo spesso se tutta la fatica che sto facendo, tutta la passione che sto mettendo nella mia arte, rimarrà un giorno agli altri. Vi sarà traccia, un ricordo?”.
Mi risulta difficile non annuire. E, come in un film del cinema muto, dalla pellicola in bianco e nero affiorano la velata malinconia e la speranza che tanto ricordano Charlie Chaplin, il cui figlio, Davide Rausa ha incontrato a Odessa nell’ambito della premiazione soprammenzionata, e dal quale gli è giunta la proposta di creare un personaggio in onore del leggendario Charlot.
Monsieur David mi ha ricordato che i percorsi più gratificanti sono quelli in cui, accantonando timori e pregiudizi, riusciamo finalmente ad aprirci all’ineffabile quanto misteriosa sostanza che alimenta l’incommensurabilità. Un’inversione a “u” nel nostro cuore, dove alloggiano verità segrete e inaspettatamente redentive.
*Referente Senior
per Progetti Commerciali
e Culturali Sino-Europei
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