Un giorno trovarono una nave piena di vino

Avevano fondato una società di recuperi marittimi, riattivando un vecchio rimorchiatore che ora, nella darsena, stavano approntando per prendere il mare e fare rotta verso un punto della costa, una piccola baia nascosta, nel fondale della quale un pescatore diceva di aver scoperto un relitto

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Un giorno trovarono una nave piena di vino

Avevano fondato una società di recuperi marittimi che operava in qualsiasi posto in cui era chiamata dalle compagnie che si stavano ristrutturando e riprendendo faticosamente dopo i duri anni della guerra. Bombardamenti, siluramenti, mine e situazioni pericolose, avevano decimato notevolmente il naviglio ancora in grado di trasportare carichi commerciali. I noli erano alti e i proprietari delle “carrette” rimaste a galla ne approfittavano per affittare queste navi fatiscenti e rese insicure per la scarsa manutenzione a chi le avesse richieste, anche senza alcuna specifica a riguardo del tipo di carico. Così l’armatore intascava il prezzo del nolo e per il resto ogni problema veniva risolto dal comandante che si assumeva anche il tipo di equipaggio con il quale armare la nave. Si può capire così quali misteri potessero avvolgere i carichi e le rotte che spesso e volentieri non venivano neppure indicate. Centinaia di navi, soprattutto quelle di piccolo cabotaggio, andavano perse in quegli anni a causa delle tempeste, dei marosi e della precaria manutenzione. Carichi misteriosi, sicuramente non denunciati, spesso pericolosi per la loro natura fisica o per la loro appartenenza a proprietari di dubbia reputazione, finivano così in fondo al mare e nessuno ne denunciava la scomparsa.

L’opera dei palombari

I relitti di navi erano numerosissimi e molti palombari che avevano prestato la loro opera in Marina nel corso della guerra appena finita e che lì avevano avuto occasione di specializzarsi nel difficile lavoro subacqueo, ne approfittavano per mettere in pratica i segreti del mestiere. Un gruppo di ex compagni d’armi, tutti palombari, avevano dato vita così a questa società di recuperi marittimi, riattivando un vecchio rimorchiatore che ora, nella darsena, stavano approntando per prendere il mare e fare rotta verso un punto della costa, una piccola baia nascosta, nel fondale della quale un pescatore diceva di aver scoperto il relitto di una nave nel quale s’impigliavano i suoi tramagli. Poteva essere un facile recupero di rottami di ferro. La profondità era appena sui 25-30 metri e le rottamazioni si vendevano molto bene in quegli anni alle fonderie. I caschi di rame brillavano sul ponte e le tute da palombaro erano messe ad asciugare ben distese all’ombra per non essere cotte dal sole. Nelle capaci ceste, gli scarponi appesantiti dalle suole di piombo e le cime arrotolate con cura, erano separate dalle matasse dei tubi di gomma telata che servivano per portare l’aria da respirare al palombaro in immersione. Il grande compressore a cilindri, imbullonato a poppa del rimorchiatore, era l’apparecchiatura più curata e verificata in assoluto. La vita del palombaro dipendeva infatti dal suo perfetto funzionamento di fornitore d’aria, in ogni attimo della sua prestazione di lavoro.

La tensione dell’attesa

L’alba era da poco spuntata e la lunga scia del rimorchiatore marchiava la distesa plumbea del mare che stava per tingersi di azzurro carico. Avevano calcolato quattro ore di navigazione a otto nodi per giungere a ridosso della baia dove giaceva il relitto e tutto procedeva a meraviglia. Un caffè e una sigaretta servivano per coprire la tensione che l’attesa generava sempre prima di ogni immersione all’inizio di una campagna di recupero. C’era sempre l’incognita del carico che una nave affondata poteva rivelare. C’era la sorpresa del tipo di nave. La posizione del relitto; la sua consistenza e il tipo di lavoro che i palombari avrebbero dovuto affrontare. Insomma, anche se nessuno lo ammetteva, ognuno pensava a qualche piacevole sorpresa dovuta al tipo di carico trasportato e sul quale potevano mettere le mani in quei duri anni del dopoguerra.

I messaggi «a tocchi e strappi»

L’ecoscandaglio acquistato di seconda mano e proveniente da un dragamine in disuso, segnalò già alla prima passata la presenza del relitto. Un ingombro abbastanza consistente sul fondale, che aveva messo di buon umore l’intero equipaggio. Due palombari, due mozzi che fungevano da aiutanti alla pompa dell’aria, da tecnici, motoristi, marinai e carpentieri assieme e il comandante che era poi anche l’amministratore delegato della società di recuperi. Il dialogo tra il palombaro in immersione e l’aiutante in superficie avveniva attraverso un personale sistema di tocchi e strappi trasmessi dalla cima che teneva collegato il palombaro al suo assistente. Si capivano talmente bene che pareva di assistere a una comunicazione telegrafica nel loro dialogare riferito ad ogni più piccola esigenza di spostamento sul fondo, di lavoro o di richiesta di attrezzi necessari al recupero. Dino, il più giovane dei due palombari era sceso per primo per un giro di ricognizione sul relitto e stava trasmettendo le prime impressioni “telegrafiche” mentre Peo, un vecchio palombaro che di relitti ne aveva visti ormai a decine e aveva lavorato anche come esperto minatore nel taglio delle paratie metalliche con l’uso degli esplosivi, attendeva eventuali chiarimenti che il suo compagno Dino trasmetteva come d’uso e si approntava a raggiungerlo.

«Non bere»

Il relitto è in buone condizioni, trasmetteva Dino. Ha ceduto la paratia centrale e la stiva di prua è aperta. La nave è leggermente inclinata sulla dritta. Ha due belle eliche in bronzo fosforoso che tranceremo con il cordone esplosivo. Entro nella stiva per vedere cosa trasportava. Dopo un paio di minuti i tocchi con la fune fecero sorridere divertito l’assistente che rispose: Non bere. Avrà mica trovato delle bottiglie? sottolineò Peo, cui non era sfuggita la battuta. Si, rispose l’assistente di Dino, ma non due o tre solamente. Una stiva piena! Prepara la cesta che ne tiriamo su qualcuna, furono le uniche parole di Peo prima di scomparire dentro lo scafandro e calarsi sul fondo. Il bigo ne tirò su un centinaio di bottiglie quel giorno. Quattro volte la cesta fu vuotata sul ponte, accuratamente, stivando le bottiglie nel carabottino di prua. Le bottiglie contenevano un liquido scuro. Guardate contro luce, il liquido pareva privo di sedimenti. I tappi di sughero erano bene inseriti nei colli. Non avevano alcuna etichetta e non pare che i palombari ne avessero trovata alcuna nella stiva del relitto e questo faceva pensare che non si erano scollate dalle bottiglie a causa dell’acqua. Semplicemente ne erano prive in origine. Chissà cosa contenevano quelle bottiglie.

Il liquido rosso rubino

Nessuno a bordo si azzardava ad aprirne una. L’usanza e la tradizione vogliono che qualsiasi cosa di strano o di misterioso venga salpata, occorre attendere il ritorno del palombaro che l’ha scoperta, prima di verificarne la consistenza o l’apertura nel caso di un contenitore. Quando Dino e Peo furono di ritorno a bordo, il comandante, tra il serio ed il faceto, con la punta del cavaturaccioli saggiò la consistenza del tappo di una delle bottiglie. La punta si avvitava facendo presa nel sughero e questo era un buon segno, sentenziò Peo. Il tappo fece la sua giusta resistenza e uscì. La bottiglia era stappata! Ora bisognava conoscerne il contenuto. Comparve, come per incanto, un bicchiere e il comandante ne versò a riempirlo per un quarto. L’equipaggio intero infilò il naso nel bicchiere e ognuno disse la sua da provetto sommelier, ma nessuno si azzardò ad assaggiare il liquido rosso rubino. Eppure dall’odore sembrava un buon profumo di vino. Se la davano tutti da esperti, sentenziando addirittura nomi di vini famosi. Finalmente il più anziano, Peo, si portò una lacrima del liquido sulla punta della lingua e poi ancora una dentro la bocca. La fece scorrere tra la lingua e il palato e i suoi occhi si illuminarono.

«Non sa di aceto»

Ma è vino! Vino buono. Non sa di aceto, furono le sue parole prima di vuotare con un sorso il bicchiere. La bottiglia finì nel giro dell’equipaggio e ne furono sturate delle altre quel giorno. Non ho mai chiesto quante. So solamente che il relitto fu completamente smantellato e il ferro recuperato in diversi mesi di lavoro. Con le paratie arrugginite vennero a galla e furono recuperate alcune migliaia di bottiglie. Quelle con il tappo che si levava facilmente vennero rigettate a mare. L’esperienza aveva insegnato che il mare era filtrato all’interno guastando il vino. Le altre rifornirono diverse cantine. Nessuno mai seppe che tipo di vino fosse quello che trasportava la nave e per quale motivo un così gran numero di bottiglie anonime fosse custodito nella sua stiva di prua. Il vino era ottimo e non c’è da meravigliarsi affatto che così fosse, visto che attualmente esiste in Francia un produttore di vino, credo sia un Borgogna, che ha legalizzato una proprietà sottomarina, ove invecchiano per qualche anno le sue bottiglie affondate, acquistando caratteristiche di pregio grazie a questa originale sistemazione “in cantina”.

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