
“Vidimo se sutra!”, “Sutra ujutro”, “Sutra navečer” e ancora: “Sutra! sutra! sutra!”.
Per un po’ di tempo hanno risuonato come le campane in un paesino sperduto tra le montagne, al cui richiamo festoso sarebbe stato impossibile voltare le spalle. Più le sentivo, più le orecchie si allungavano solleticate da vibrazioni gioiose e conviviali quanto i pranzi che solitamente rallegravano le domeniche in famiglia.
Una chiave di accesso speciale
Avevo spesso provato a inserirmi silenziosamente nelle conversazioni tra le persone che, di passaggio, andavano scambiandosi saluti aggrappati a momenti di pausa o tra quelle che, ai banchi nel Mercato cittadino di Fiume, sembravano passarsi il testimone di consuetudini.
Ero fortemente convinta che si trattasse di un inganno sonoro.
Le ascoltavo usare la parola, oggetto della mia attenzione, con disinvoltura, una naturalezza disorientante che, per assurdo, pareva aprire enormi valichi in una nebulosa conoscenza della lingua croata.
I cerchi esuberanti dei giovani, i gruppi accennati o chiassosi degli uomini e il moto indaffarato delle donne mi venivano incontro a spalancare la mente con una chiave di accesso speciale, di antica memoria: “Sutra”.
Una combinazione mistica di vocali e consonanti con la quale mi ero già confrontata a fasi ripetute e in luoghi diversi. In Italia e in Asia, durante gli anni di studio così come nelle travolgenti letture sul Buddismo e Induismo che, della complessità esistenziale, avevano saputo restituire semplicità e puro buon senso.
«Un, due, tre… stella!»
Ero incuriosita all’idea che un termine, proveniente da mondi sideralmente distanti, potesse affacciarsi spontaneo e autoctono sulle bocche di persone comuni.
Un vocabolo a cui è stata affidata un’immensa responsabilità, poiché illuminare gli esseri umani non è certo un compito semplice.
Ma cosa aveva a che fare il “Sutra” con le mie giornate nel Golfo del Quarnero?
In una tarda mattina di qualche estate fa, ero comodamente seduta su una panchina di legno, un sedile curvilineo avvolto intorno alla generosa circonferenza di un albero, di fronte al Teatro Nazionale Croato di Fiume “Ivan de Zajc”. All’ennesimo “Vidimo se sutra!” di due graziose signore, che camminavano discorrendo ad alta voce, voltai la testa di scatto e le sfidai con lo sguardo, quasi a dire: “Vi ho preso in castagna!”.
Una scena simile al gioco “Un, due, tre… stella!” della mia infanzia (un’evoluzione linguistica di “Un, due, tre… stai là”, dal piemontese: “Ste’ là!”) in cui i partecipanti, eccetto il capogioco, si disponevano dietro una riga disegnata sul pavimento e intanto quest’ultimo, di schiena e appoggiato a un palo o a una parete, gridava il famoso “Un, due, tre… stella!”. Quando si girava verso gli altri giocatori, cosa che faceva velocemente, il resto dei soggetti doveva rimanere immobile. Se uno tra loro si fosse mosso, sarebbe stato costretto a tornare al punto di partenza. Ma non nel mio caso. La coppia di gentili dame, infatti, non fece che allontanarsi bofonchiando qualcosa.
Una questione di principio
Avrei potuto consultare rapidamente un dizionario o le applicazioni di traduzione riproducendone il suono, ma districare quella matassa da sola, in piena autonomia, iniziava a ricoprirsi di strati appetitosi e andare fino in fondo, si stava trasformando in una vera e propria questione di principio.
Cominciai a cercare spiegazioni logiche e, ai miei monologhi, risposi con delle tele a olio immaginarie che ritraevano gli abitanti di Fiume identici a dei Bodhisatva (mortali aspiranti all’illuminazione o alla “Buddità”) contemporanei, inconsapevoli Portatori di luce o, a voler essere più precisi, “Risvegliati alla realtà ultima”.
Alcuni indizi mi avevano indotto a credere che si riferisse a qualcosa di bello.
Il tono disteso ed entusiastico che generalmente seguiva il nome “Sutra” era scandito da un’apertura evidente del volto, rilassata, ma decisa. Associai a essa un’inarrestabile galleria di opzioni, per la maggior parte concetti positivi, espressioni solide che potessero avere una certa rilevanza nei rapporti umani. Percepivo nettamente la sua capacità di creare un legame di attesa e di sospensione, di estendere il tempo che dal presente planava in un luogo del chissà dove!
Pronunciavano quel vocabolo e io reagivo come il topo della leggenda cinese accorso per primo al cospetto del Buddha, il quale, in base alla tradizione, presagendo la fine del mondo, chiamò a raccolta tutti gli animali della Terra, ma questi si presentarono soltanto in dodici. Il topo, più veloce e astuto degli altri, li anticipò. Il Buddha, comunque, premiò la loro lealtà dedicando a ciascuno un anno del ciclo lunare. Ed è per questa ragione che l’oroscopo cinese inizia proprio con il segno del roditore.
Un linguaggio perfetto e divino
I protagonisti delle mie visioni presero a inseguirsi nella testa, impadronendosi vorticosamente di uno spazio dal quale estrarre, alla stregua di un cilindro magico, ritratti induisti, sculture buddiste e testi arcaici in sanscrito. Una spirale attorcigliata su sé stessa, pronta ad agganciare e risucchiare ogni cosa, a scovare nell’essenza primordiale del sapere indiano, un sottile cordoncino sul quale si erano inanellati, come gemme preziose, aforismi e dettami sacri.
Sbigottita davanti al Teatro, ebbi la nitida sensazione che quegli oggetti inesistenti cadessero tra le mie braccia lanciati dall’alto e, in effetti, a guardare i palmi delle mani, un minuscolo e corposo libricino si era sdraiato a pancia all’aria, con le pagine che, ancora svolazzanti, si andavano disponendo in un ordine solo a loro comprensibile. Nell’arco di pochi secondi, tutto ritornò a una situazione di apparente normalità. L’albero, l’edificio del Teatro e l’animosità delle caffetterie vicine resistevano nonostante il turbinio a cielo aperto procurato dal mio troppo pensare. Sfioravo i fogli sgualciti e loro si ritraevano come gli anemoni di mare. Per convincerli a riaprirsi avrei dovuto usare il loro linguaggio, perfetto e divino.
Ma come ero giunta a quel punto? Dalle due figure borbottanti a me, sotto un ombrello di foglie che non aveva affatto l’aria di essere il sosia della Bodhi, il fico sacro, che aveva offerto riparo all’illuminazione del Buddha?
“Se un problema non ha modo di essere risolto, distogli la tua attenzione per qualche istante. Sarà esso a darti la soluzione”.
Le parole del monaco Shi rimbombavano forti e insistenti. La nostra amicizia era iniziata in un importante tempio buddista a Roma, quando il luogo di culto si trovava appartato e ristretto in una viuzza laterale di piazza Vittorio, famosa per essere la Chinatown della capitale italiana. Oggi, ne sorge un secondo dalla collocazione molto imponente e distintiva, il tempio HuaYi Si (Huá华: Cina, Yì意: Italia e Sì寺: tempio), che seppur in una zona periferica della città eterna, è tra i più grandi d’Europa.
Acque di sacralità
Il ricordo del suo volto espansivo, ma penetrante mi spinse a concentrare l’attenzione sul brusio delle fronde, sui cani a passeggio, sui gabbiani intenti a raccogliere qualsiasi scarto e di qualsiasi dimensione quando, improvvisamente, in un pub a brevissima distanza, il luccichio della lama di un coltello usato da un uomo per tagliare un cheeseburger a tre piani, mi suggerì la risposta.
Dissezionare!
Il piccolo volume del Sutra iniziò a scomporsi come il cubo di Rubik per terminare le sue capovolte e stirarsi, però, soltanto su due lati. Una sillaba per foglio, ‘Su’ – ‘Tra’, e mi tuffai nelle acque della sacralità.
Un potere affabulatore
Solo a vederle, la loro struttura armoniosa innalzava onde di benessere tanto contagiose che gli uccellini, prima nascosti tra le chiome compatte degli alberi, presero il volo cinguettanti mentre il vento, da irritato e nervoso, si lasciò a un soffio docile e conciliante. Un condensato di cinque lettere parlava dispiritualità e metamorfosi e nel farlo risvegliava il lato più delicato di cose, animali e persone.
Il monaco Shi me lo aveva spiegato bene. All’interno del tempio, la garbata e inebriante sala lettura era popolata da manoscritti arrotolati con ossequiosa accuratezza e disposti sugli scaffali a formare dei mandala. Creavano disegni concentrici in cui erano infilati libri dalle trascrizioni dorate, testi di letteratura tibetana e riviste che proponevano visioni e panorami osservati con gli occhi fiduciosi del Buddha. Ma era la fragranza pregnante dell’incenso aromatico che si impossessava di tutta l’aria e della materia presente in quel luogo ad avere un potere affabulatore. Mi piaceva inseguirlo con il naso sino all’ingresso, davanti alla statua del Buddha Felice, attorniato da frutta fresca e viziato dalle magnanime offerte che i cuori dei numerosi fedeli rinnovavano ogni giorno. Il suo sorriso non conosceva esitazione e ripensamenti, era pieno e compassionevole.
Nuove attitudini e prospettive
Trascorsi tanti mesi insieme al monaco Shi, paziente e impegnato a sedare le mie domande incalzanti con estrema disciplina e meticolosità. Da lui, appresi ciò che difficilmente avrei potuto imparare altrove; mi permise di leggere svariati scritti, di toccarli con i guanti bianchi di cotone e di annusarne l’odore colmo di infiniti cicli di nascita e morte. Il Sutra del Diamante, quello del Loto e del Cuore segnarono la strada verso nuove attitudini e prospettive.
Mi delucidò su questioni di grande importanza quali, ad esempio, l’ostinazione occidentale di concepire la vita come una linea retta. “Non sarebbe più semplice per gli uomini, essendo consapevoli che le cose lasciate alle spalle, prima o poi si ripresenteranno con forme diverse, ma stessi contenuti, trasformarle subito?”.
Non vi era mai giudizio o critica, semmai un’empatia che si chiudeva in un bel cerchio in cui il pianeta Terra era un puntino fra tanti altri.
“Gli insegnamenti del Buddha storico, Siddharta Gautama, cioè i Sutra, sono giunti a noi come linfa di una sorgente da cui poter attingere”, mi disse. “Possiamo scegliere di utilizzarli o di lasciarli in sospeso nella vacuità. Quando decidiamo di avvicinarci a loro per spegnere il bruciore tormentoso che ci attanaglia, avviene un prodigio e la nostra presenza terrena diventa una missione. Per risvegliare l’energia redentrice depositata nell’animo umano, talvolta è necessario attraversare difficoltà e sofferenze. La felicità è un sentimento come la tristezza, eppure l’uomo è convinto che sia al di fuori di sé. Sarebbe sufficiente domare la mente per sperimentarla nel quotidiano… Sebbene si voglia sfuggire dalla sofferenza, continuiamo a buttarci a capofitto nell’immenso mare che la ospita. La verità è che non si conosce davvero il significato della felicità e quindi ci si confonde, la si camuffa con abiti che facilmente si logorano. I Sutra sono delle lavande gastriche che eliminano tossine”. E sorrise coprendosi i denti sbiaditi con le mani a ventaglio.
Il monaco Shi rientrò in Cina prima che potesse testimoniare la nascita del nuovo tempio HuaYi Si. Mi annunciò che, dopo aver speso lunghe stagioni a beneficio delle persone nel mondo e in virtù dell’età avanzata, il miglior atto di gratitudine che avrebbe potuto compiere sarebbe stato riabbracciare il resto della famiglia che lo aveva sempre sostenuto e vivere il resto dei giorni in loro compagnia.
Poi, aveva aggiunto con un’espressione simile a quella di un bambino che sta per commettere una marachella: “Voglio prepararmi al meglio per la prossima rinascita. Devo iniziare con il piede giusto!”.
Uno splendido arazzo di interconnessioni
La panchina si era nel frattempo trasformata in un laboratorio di ricordi mentre il libricino, adagiatosi sui palmi, appariva rasserenato. Pensai ai Sutra come a dei robusti rami di una quercia secolare, aggrovigliati attorno a parole, poche ma feconde, che si erano tramandate di bocca in bocca, di anima in anima, percorrendo vasti oceani e terre fertili in cui potersi stanziare.
Il sedile tondeggiante di fronte al Teatro, il filo, da cui il Sutra deriva il proprio seme etimologico, e le relazioni umane stavano creando uno splendido arazzo di interconnessioni. Una maglia di fili longitudinali e orizzontali simili alla seta presente nel carattere cinese che indica la parola Sutra, 经Jīng (‘纟’da cui:丝Sī, seta), grazie ai quali volgersi al futuro, nella consapevolezza che il passato sarebbe stata una collina da cui ammirare nuovi paesaggi e l’oggi la via del “come” e “quando” percorrerli.
Ordito e trama di un tessuto sul quale distendere l’esistenza e ricercare la causa e l’effetto di una possibile felicità.
Il Sutra aveva finalmente rivelato sé stesso. Un promettente incontro con il futuro, tanto quanto il sorriso sui volti delle persone che lo avevano condiviso con spontaneità.
E allora, ripensai alle due signore.
Mi sarebbe piaciuto rincorrerle e dire loro: “Vidimo se sutra”, ma si erano ormai eclissate nella pancia della città. Lasciai, quindi, la panchina sotto l’albero, contenta di aver scoperto un angolo di eternità in un luogo dove, oltre al fiume, a scorrere erano e sono inesauribili “appuntamenti con il domani”.
*Referente Senior
per Progetti Commerciali
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