Sentieri invisibili che guidano i nostri passi

Tra neuroscienze e mappe mentali: un viaggio nell’affascinante mondo dell’orientamento spaziale, dove scegliere una direzione non è mai solo una questione di istinto. Ne abbiamo parlato con la prof.ssa Laura Piccardi, esperta di cognizione spaziale e «visual imagery» (rappresentazione mentale)

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Sentieri invisibili che guidano i nostri passi
La prof.ssa Laura Piccardi (terza da sinistra), con i ricercatori (sempre da sinistra) Andrea Di Piero, Sofia Pepe e Alessandro Von Gal. Foto gentilmente concessa dalla prof.ssa Laura Piccardi

Ricerca, esplorazione e orientamento sono ben più di abilità innate o competenze acquisite dall’intelletto umano nel corso della vita. Potremmo definirli forze generative, che hanno plasmato e plasmano il nostro modo di conoscere e di interpretare la realtà fisica, creando tessuti multiformi e dinamici. Mediante tali processi si è sviluppata una rete articolata di saperi, in costante evoluzione, capace di guidare percorsi e intuizioni. Trama e ordito che, sul filo della curiosità, si sono evoluti e che, nella consapevolezza individuale, hanno trovato l’impulso per compiere un salto nell’ignoto e in ciò che, altrimenti, non sarebbe mai stato possibile scoprire.
Così come la ricerca non è solo una questione di mera indagine scientifica e l’esplorazione una naturale attitudine a osservare con cura territori incontaminati – siano essi luoghi, cose o persone – anche l’orientamento non è riducibile a semplici punti cardinali o a coordinate spazio-temporali.

Impercettibili sistemi psicofisici
Ma cosa accade nel nostro cervello quando scegliamo una direzione e ci spostiamo da un punto X a un punto Y o quando, all’improvviso, modifichiamo un itinerario? Gesti apparentemente ovvi e metabolizzati, sono il risultato di impercettibili sistemi psicofisici, che dai sensi arrivano al cervello, in un impianto organizzato e flessibile di memoria, sensazioni e segnali che ci inducono a risposte ben precise.
Il concetto di orientamento spaziale, pertanto, non è solo legato al come muoverci, ma anche al come usare le mappe mentali create e immagazzinate dalla mente durante l’esperienza quotidiana.

Il nostro GPS interno
Senso dell’orientamento e navigazione sono fortemente interconnessi. Il primo, semplificando, ci fa “sapere dove siamo”, il secondo “come raggiungere un posto”. È fondamentale comprendere “dove siamo” per poterci orientare, decidendo quali azioni effettive intraprendere. La navigazione, dunque, non può fare a meno dell’orientamento, che trova nell’ippocampo – situato sulla porzione mediale del cervello, in una piega interna del lobo temporale, morfologicamente simile a un cavalluccio marino – il nostro GPS interno.
Il cervello umano è dotato di una plasticità sorprendente (neuroplasticità), sa adattarsi a stimoli ambientali, a danni cerebrali, a cambiamenti comportamentali (nuove abitudini), a esperienze ed è il mezzo principale che consente all’orientamento e alla navigazione di manifestarsi.

Un contributo scientifico di prestigio
Nel panorama della psicologia contemporanea italiana, la prof.ssa Laura Piccardi si distingue per l’analisi e la divulgazione di aspetti medico-scientifici tanto profondi quanto affascinanti. Una figura chiave della psicologia cognitiva, il cui contributo accademico e di ricerca ha arricchito la comprensione e l’acquisizione di conoscenze concernenti i meccanismi di percezione, attenzione, memoria e pensiero. La sua attività scientifica si è progressivamente concentrata sull’orientamento spaziale e sulla rappresentazione mentale dello spazio stesso, esplorandone le diverse dimensioni: quella personale, peripersonale (lo spazio circostante e raggiungibile), extrapersonale (lo spazio più lontano dal corpo) e immaginativa, attribuendo un focus particolare alla relazione tra “mental imagery” (“immagine mentale”) e navigazione spaziale.

Un impegno condiviso e sinergico
La carriera accademica della prof.ssa Laura Piccardi inizia presso l’Università degli Studi dell’Aquila, mentre il suo lavoro sulla cognizione spaziale nasce al Di.Vi.Na. Lab (Laboratorio dei Disturbi Visuo-spaziali e della Navigazione) dell’Università “Sapienza” di Roma, sotto la guida della prof.ssa Cecilia Guariglia, professore ordinario presso il Dipartimento di Psicologia del medesimo Ateneo e responsabile scientifico del laboratorio della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma. Nel tempo, il suo percorso si è arricchito grazie a numerose collaborazioni internazionali, come quelle con il prof. Alain Berthoz al Collège-de-France e all’Ospedale “Pitié-Salpêtrière” di Parigi, nonché con la prof.ssa Maria Kozhevnikov, del Laboratorio di Psicologia Cognitiva, della National University di Singapore e della Harvard Medical School.
Attualmente, è professore ordinario del Dipartimento di Psicologia dell’Università “Sapienza” di Roma e svolge ricerca presso l’Ospedale San Raffaele di Cassino. Tra le sue collaborazioni vi è il prestigioso DASAS Aerospace Medicine Department di Pratica di Mare (Ten. Col. Paola Verde), che si avvale della partecipazione di medici e piloti militari, specializzati nell’orientamento spaziale. Inoltre, è membro del comitato editoriale di diverse riviste scientifiche internazionali ed è stata curatrice ospite di molteplici numeri speciali inerenti ai suoi temi di ricerca.
È comunque importante sottolineare — ed è la prof.ssa Piccardi a farlo durante il nostro incontro — che ogni progetto di ricerca esiste in virtù dell’impegno sinergico di esperti, animati da obiettivi comuni e funzionali al benessere della collettività.
Vorrebbe che fossero menzionati tutti, ma l’elenco sarebbe davvero lunghissimo e quindi ci limiteremo a citarne solo alcuni.

Prof.ssa Piccardi, la neuropsicologia e lo studio del cervello sono discipline che richiedono un’immensa dedizione professionale. A cosa si deve questa sua passione?
“In realtà, da piccola sognavo di diventare una storica, ma poi mi sono imbattuta nella neuropsicologia ed è stato amore a prima vista. La curiosità e la voglia di esplorare mi hanno spinto verso la ricerca scientifica. Mi sono appassionata all’emisfero cerebrale destro, quello deputato allo spazio, un processo cognitivo considerato marginale, un po’ Cenerentola. Diverso dall’emisfero sinistro, deputato al linguaggio, molto più ‘frequentato’ dagli studiosi. Vorrei specificare che l’esplorazione dello spazio può precedere il linguaggio. Pensiamo, infatti, al gattonare del bambino, che consente lo sviluppo di competenze più complesse”.

Spazi immaginati e corporei

Può introdurci al suo campo di ricerca?
“Mi occupo di ‘Cognizione spaziale’, un concetto ampio che include i processi cognitivi alla base delle nostre capacità di orientamento nell’ambiente. Lo spazio è una struttura multidimensionale. Non ne esiste solo una tipologia. Vi sono quello corporeo, di reaching (a portata di braccio), extrapersonale (navigazionale) e lo spazio immaginato, per intenderci quello che visualizziamo a occhi chiusi quando immaginiamo il nostro salotto mentre siamo da tutt’altra parte. L’orientamento è poi connesso con altre funzioni: la pianificazione, il problem-solving, l’attenzione, l’elaborazione delle informazioni, la trasformazione dei dati acquisiti e la rappresentazione mentale”.

Un esempio concreto?
“Certamente. Quando arriviamo in un luogo familiare da una prospettiva insolita, il nostro cervello è comunque in grado di riconoscerlo. Questo accade perché la mente riallinea l’immagine memorizzata con ciò che stiamo osservando in quel momento. Le rappresentazioni mentali, aggiornandosi continuamente, non sono statiche, ma dinamiche. Ciò rende possibile ricordare percorsi, riconoscere luoghi abituali o acquisirne di nuovi. Tutte le variazioni vengono incorporate nel nostro database mentale”.

E se un luogo dovesse cambiare aspetto?
“Riusciremmo, comunque, a riconoscerlo. A Roma, per esempio, i lavori per il Giubileo hanno alterato l’estetica di molte zone, ma il cervello si adatta ai nuovi layout. Anche un palazzo ristrutturato è riconoscibile. Notiamo la sua nuova fisionomia, ma la identifichiamo ugualmente. I luoghi dell’infanzia possono evocare percezioni diverse legate al nostro vissuto esperienziale: una scalinata che da piccoli appariva insormontabile, da adulti, potrebbe essere insignificante. Si tratta, in questo caso, di una rappresentazione mentale costruita da un ‘io’ più piccolo. Diciamo, un errore percettivo di grandezza, giustificato dalle dimensioni dell’osservatore”.

Dunque, la mappa mentale cambia in relazione alla percezione sensoriale?
“Sì, è il primo passaggio. Gli organi di senso inviano informazioni al cervello, che le elabora creando una percezione multisensoriale, anche con il movimento del corpo (salite, discese ecc.). Dico multisensoriale, perché i non vedenti hanno una rappresentazione mentale dell’ambiente che non passa attraverso la visione, la quale è, in genere, l’organo predominante per i normovedenti”.

L’orientamento nello spazio è il risultato di tutte queste componenti?
“È molto di più: è un network di strutture cerebrali eterogenee che partecipano alla costruzione della realtà che ci circonda. Per esempio, le aree cerebrali che si attivano per ricordare un ambiente reale differiscono da quelle coinvolte quando si tratta di un ambiente virtuale”.

Non solo una questione di genere

Alcuni studi scientifici hanno evidenziato differenze nell’orientamento spaziale tra uomini e donne. Può offrirci qualche delucidazione in merito?
“Vi sono fattori interni ed esterni che ci rendono più o meno abili a orientarci nell’ambiente. Sicuramente, il ‘genere’ è un fattore interno. Alcuni studi hanno dimostrato che gli uomini sono più bravi delle donne nell’orientarsi, nel leggere una mappa o nello stimare delle distanze. Le donne adottano strategie diverse; non sono meno abili, ma hanno necessità di maggior tempo per ‘apprendere’ un ambiente, anche se una volta ‘fatto’, non lo dimenticano più. Navighiamo usando due tipi di coordinate di riferimento: egocentriche e allocentriche. Le prime prevedono che la visione dell’ambiente sia in prima persona e che le direzioni da prendere vengano decise in base alla propria posizione; le seconde, che la visione dell’ambiente sia di tipo ‘mappa’, una visione dall’alto, in cui la relazione tra i luoghi è stimata a prescindere dalla propria posizione. Le donne preferiscono le coordinate egocentriche che sono meno flessibili delle allocentriche. Questa ipotetica differenza tra uomini e donne, affonderebbe le sue radici in un passato remoto, richiamando concetti ontogenetici legati alla teoria del ‘cacciatore-raccoglitore’, e potrebbe essere addotta a una distinzione di ruoli sociali. L’uomo primitivo cacciava, lasciava la caverna per inseguire la preda e poi doveva, con il bottino, far ritorno; la donna, invece, era dedita alla coltivazione dei campi e doveva ritrovare, nel periodo del raccolto, il proprio tra quello degli altri. Per questo, le donne, ancora oggi, hanno una migliore memoria per le posizioni spaziali. Sanno sempre dove è stato lasciato un oggetto e trovano, ad esempio, con più facilità l’automobile nel parcheggio. Avrete già notato la differenza, quando si chiede un’informazione stradale, a una donna o a un uomo. Le donne aggiungono dettagli, indicano un negozio o un monumento. Gli uomini sono più schematici, dicono: ‘Fra 300 metri sei arrivato’. Tuttavia, il ‘genere’ non è il solo fattore interno a contare. Anche lo ‘stile cognitivo’, una predisposizione a estrapolare alcune informazioni e non altre dallo spazio fisico. Lo scambio tra essere umano e ambiente è continuo”.

Strategie e ambienti

Professioni, abitudini e hobby possono incidere?
“Senza dubbio. Esploratori, piloti militari, ingegneri aerospaziali sviluppano competenze navigazionali molto elevate e sofisticate, che riportano nel quotidiano. Chi gioca a tetris – parliamo non di dipendenza da gioco – possiede una spiccata capacità di ruotare mentalmente gli oggetti. La familiarità con l’ambiente, che si acquisisce con la pratica quotidiana di un luogo, produce effetti precisi. Se l’ambiente in cui ci troviamo è omogeneo, e non presenta molti landmark (segni distintivi), dovrò affidarmi ad altre strategie di riferimento (es.: il sole). Diversamente, se ve ne sono di importanti quali il mare, la montagna, o monumenti svettanti come la Torre Eiffel a Parigi, il loro uso sarà immediato. Anche l’estensione dell’ambiente in cui ci muoviamo ha il suo peso: un conto è orientarsi in un piccolo centro abitato, un altro è muoversi in una metropoli”.

L’utilizzo di dispositivi elettronici per la navigazione, condiziona la nostra capacità di orientamento?
“È un tema dibattuto. Si potrebbe pensare a una forma di impigrimento mentale. Un tempo, ricordavamo a memoria i numeri telefonici, mentre oggi, la selezione rapida e diretta dei numeri dal cellulare, fa sì che ne ricordiamo solo un paio. Di conseguenza, si tende a credere che si sia persa la capacità mnemonica. Qualche anno fa, insieme alla prof.ssa Raffaella Nori, dell’Università di Bologna, abbiamo effettuato uno studio sull’uso del navigatore e delle strategie navigazionali. I risultati hanno evidenziato come i bravi navigatori impieghino il GPS, perché consente loro di scoprire nuove strade. Se navigo bene, non temo di percorrere una via alternativa per evitare il traffico, anzi mi piace ampliare il mio repertorio di conoscenze. È un approccio costruttivo. Al contrario, i cattivi navigatori, tendono a percorrere sempre la stessa strada e quindi a non usare molto il GPS. Fanno fatica a servirsene, perché, solitamente, la prima istruzione che ricevono è: ‘Vai verso nord o sud’, e un cattivo navigatore non ha idea di dove siano i punti cardinali. C’è da dire che, ora, molti GPS possono essere personalizzati, rispondendo sempre più a esigenze studiate per l’utente (per esempio, in Live view, posso realmente vedere gli edifici) e i cattivi navigatori, se superano la riluttanza iniziale e insistono con costanza, acquisiscono maggiori competenze, aumentando anche il loro senso di efficienza. Sempre con la prof.ssa Nori, abbiamo riscontrato che i cattivi navigatori commettono più infrazioni stradali dovute alla paura di perdersi, violando il codice stradale nel tentativo di ritornare, quanto prima, al percorso conosciuto”.

Quanto interferisce l’aspetto psicologico sulla percezione dell’ambiente? L’insicurezza personale può compromettere l’efficacia dell’orientamento spaziale?
“Sì, purtroppo molto. Tornando alla differenza di “genere”, le donne si autopercepiscono meno abili perché subiscono lo stereotipo negativo delle donne meno brave a orientarsi. Esso è condizionante al punto da indurre alcune a muoversi con minore frequenza, a non guidare, a non viaggiare per il timore di perdersi, anziché tener conto degli effetti benefici della pratica. Meno agisco, meno navigo, meno navigherò”.

Quali le reazioni di un cattivo navigatore in un videogioco in realtà virtuale?
“Molto probabilmente il cattivo navigatore non sceglierà giochi in cui sono richieste abilità orientative. Si perderebbe anche in quel contesto. Spesso, nel gioco sono previsti più mondi paralleli e la navigazione può risultare estremamente complessa. In campo sperimentale, si applica molto alla realtà virtuale, in quanto è comoda, crea vasti spazi in cui il partecipante può, virtualmente, percorrere svariati chilometri. La corrispondenza tra ambiente virtuale e reale è un tema spinoso. Il nostro cervello non si fa ingannare e riconosce perfettamente i dati provenienti da un mondo virtuale o reale, tanto che le aree cerebrali interessate sono distinte per i due ambienti, e la stimolazione sensoriale è ben diversa. L’ambiente virtuale simula quello reale e, in alcuni contesti, è necessario. Pensiamo ai piloti che durante il loro addestramento svolgono ore simulate di volo, anche per ammortizzare i costi di un aereo che decolla realmente. In definitiva, i videogiochi possono essere utili se ben usati e non abusati”.

I videogiochi possono favorire la costruzione di mappe mentali?
“Dicevo, poc’anzi, che consentono di affinare alcune capacità visuospaziali e navigazionali. Spesso il gioco richiede di muovere il nostro avatar all’interno di ambienti elaborati e sconosciuti. Un processo che impegna la nostra capacità di creare, nel gioco, immagini mentali dell’ambiente e di usarle per decidere eventuali strategie. La nostra mente, si aggiorna di continuo, seguendo gli stessi procedimenti che adotterebbe nel mondo reale”.
Massimo rendimento con minimo sforzo

Quando ci rechiamo in luoghi sconosciuti, completamente diversi dagli usuali, pensiamo a una città in Cina, Shanghai, i punti di riferimento sono totalmente diversi. Il nostro cervello come risponde a questi nuovi impulsi?
“Intanto, bisogna specificare che il cervello è caratterizzato da una grande elasticità che si basa su una regola d’oro dell’Economia: massimo rendimento con minimo sforzo. Si adatta alle caratteristiche intrinseche del luogo stesso. Inizialmente, saremo un po’ disorientati, ma presto ci adegueremo, grazie anche agli ausili elettronici che il mondo moderno ci offre”.

Arte, percezione e spazio

Quando non siamo fisicamente in movimento e ci troviamo di fronte a un’opera d’arte come, ad esempio, La Gioconda, esiste comunque una stimolazione sensoriale?
“Certo. L’arte e l’apprezzamento estetico si basano molto sulla percezione. Il nostro cervello è in grado di cogliere informazioni percettive anche usando un solo occhio e ricorrendo ai cosiddetti ‘indizi pittorici’ (chiaroscuro, prospettiva lineare, colori ecc.). Si ha l’impressione netta, se l’artista è stato bravo, di trovarsi innanzi a un ambiente tridimensionale, sebbene, nei fatti, si tratti di una rappresentazione bidimensionale. Questo è dovuto a una serie di elementi (ombreggiatura, tessitura ecc.) che suscitano sensazioni di profondità. Nonostante La Gioconda sia un’immagine bidimensionale, la nostra mente può percepire la profondità del paesaggio dietro il volto della Monna Lisa. La sua espressione enigmatica, poi, e il suo sguardo che sembra seguirci ovunque, contribuiscono a un certo dinamismo tra spazio e fruitore dell’opera d’arte. Esistono sindromi, come quella di Stendhal (la quale provoca diversi gradi di malessere quando si contemplano opere d’arte di straordinaria bellezza) che sono il prodotto di un vissuto immersivo ed estatico, generato dall’opera osservata. Anche nella percezione di un dipinto e nel godimento estetico può incidere lo stile cognitivo. Mi viene in mente lo studio che effettuammo su alcune opere di Giuseppe Arcimboldo (1527-1593). Il pittore usa un’ambiguità percettiva ‘tutto-parti’ (generale e di singole componenti) che vuole una lettura dell’opera da due punti di vista egualmente possibili. Infatti, Arcimboldo, nel caso della ‘Primavera’, realizza un volto umano con i fiori. Se un individuo possiede uno stile cognitivo che lo induce a osservare prima il dettaglio, per poi spostare lo sguardo sull’insieme del volto, è probabile che il suo gradimento estetico sarà più elevato, poiché il particolare è ben realizzato. Al contrario, l’opera sembrerà meno attraente, se avrà notato prima il volto, che nell’insieme è meno ben riuscito e curato del dettaglio. Chiaramente, il suo giudizio risentirà anche del proprio bagaglio culturale: riconoscerà il valore artistico di Arcimboldo, precursore del Surrealismo, e apprezzerà il gioco artistico e l’intento di intrattenimento dell’opera, oltre alla sua originalità, quando la inserirà, appunto, nel contesto storico-artistico a cui l’opera appartiene”.

E l’arte che ricorre alla realtà virtuale?
“L’arte digitale e la VR (Virtual Reality) sono diventate nuove forme di espressione artistica contemporanea, in cui la rappresentazione dello spazio e dell’ambiente non è più statica, ma dinamica e interattiva. Gli spettatori entrano in un mondo totalizzante, in dimensioni dove l’orientamento e la navigazione diventano esperienze sensoriali e intellettuali. In queste opere, il confine tra il mondo fisico e quello digitale quasi si dissolve”.

Si può fare qualcosa per migliorare la nostra competenza navigazionale?
“Sì, la competenza navigazionale può essere esercitata. Qualche anno, fa abbiamo svolto uno studio su bambini dell’ultimo anno della scuola materna, ai quali abbiamo proposto giochi di esplorazione dell’ambiente, come la ‘caccia al tesoro’ o altri in cui navigavano all’interno della scuola, fornendo loro facili riferimenti da ricordare. Alla fine del training, i bambini hanno compiuto un enorme salto in avanti nell’acquisizione delle competenze navigazionali, se confrontati con i coetanei impegnati in altre attività ludiche. Quindi, sì, le abilità navigazionali possono essere potenziate. Non solo, possono essere migliorate anche in presenza di problemi più gravi o di patologie, come nel caso del Disorientamento Topografico Evolutivo, un disturbo specifico dell’orientamento spaziale, la cui esistenza è stata descritta per la prima volta nel 2009, che impedisce alle persone di ‘apprendere’ l’ambiente. È indubbio che, per i soggetti che soffrono di questo disturbo, la presenza di un disagio psicologico rappresenti un’aggravante, anche se non sono completamente connessi. L’indipendenza dei due disturbi è dimostrata dal fatto che, quando si interviene sul disagio psicologico, si ottiene una riduzione dell’ansia spaziale, ma non un reale miglioramento dell’orientamento spaziale. Viceversa, se si interviene sul disturbo della cognizione spaziale, la persona migliora e anche l’ansia si riduce. Ciò richiede un intervento serio e mirato”.

Sensibilizzazione sociale

Prima di concludere la nostra conversazione, la prof.ssa Piccardi mi chiede di aggiungere una riflessione a cui tiene molto.
“Il Disorientamento Topografico Evolutivo è un’alterazione poco nota. Quando una persona presenta criticità nell’orientamento spaziale, spesso viene derisa. Chi non ne è affetto, non comprende la gravità di una condizione così limitante, che mina la qualità della vita e il benessere dell’individuo. Al contrario dei deficit linguistici o comunicativi – immediatamente riconoscibili – quelli attinenti alla cognizione spaziale sono sottostimati. Sensibilizzare la società è fondamentale per garantire un supporto adeguato a coloro che ne soffrono”.

*Referente Senior
per Progetti Commerciali
e Culturali Sino-Europei

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