Il primo giorno di ogni mese, secondo le abitudini dei miei amici lontani, si fanno gli auguri di buon inizio del mese. Novembre compreso. Quasi tutti gli auguri che ho ricevuto questo mese, hanno seguito un peculiare algoritmo del NO, producendo dei “NO dal contenuto positivo”: No al dispiacere, No alla malattia, No alla rinuncia, No alla delusione, No alla sconfitta, No al pianto, No al dolore, No all’ingiustizia, No alla miseria… per menzionarne soltanto alcuni.
Siccome credo profondamente nella serenità del bene perché la vita mi ha insegnato e confermato finora che l’ottimismo è la risposta a tutti i NO della vita, voglio sfatare i NO negativi con il NO positivo della NObiltà, quella delle piante interconnessa a quella dell’uomo.
Chi scegliere tra le più nobili? Non è stato difficile: sono due alberi considerati addirittura sacri per il loro nobile comportamento, per l’essere resilienti nella sopravvivenza in condizioni avverse, per la loro costante resa all’umanità nonostante l’uomo si limiti a vederli semplicemente e solo sotto la lente del banale profitto personale, usando anche nel loro caso l’inganno e la menzogna per speculazioni utilitaristiche.
Il sacro ulivo, albero senza tempo e «multitasking»
In questa parte del bacino mediterraneo, nel nostro bell’Adriatico, novembre è da sempre il mese tradizionalmente dedicato alla raccolta delle olive. Gli uliveti si risvegliano, rinascono, brulicano di vita, in quei momenti magici quando regalano all’uomo i loro preziosissimi frutti: le drupe gravide di olio. Lo fanno da millenni, piegando i loro rami, le loro fronde, lasciandosi pettinare, scuotere, tagliare, potare e soprattutto, ammirare e ringraziare. L’albero sempreverde, senza tempo, strettamente legato alla storia dell’uomo dai tempi antichi, è comparso nel Mediterraneo, nelle sofferenti terre dell’Asia Minore. Il rametto d’ulivo viene usato globalmente come simbolo di pace, ancora dai tempi di Noè e della colomba che lo portava nel becco. Che paradosso: il simbolo di pace originario dalle terre, che la pace la sognano ancora.
L’ulivo è uno tra gli alberi più generosi che abitano il nostro pianeta. Altruista qual è, si offre all’uomo nella sua totalità: dai frutti oleosi alle foglie medicinali, i rami, i tronchi e persino le radici. Si può mangiare, ci si può curare, riscaldare, arredare e creare opere d’arte. Alcuni lo definirebbero con un simpatico forestierismo inglese: un albero multitasking.
Ritorniamo a novembre. Il tempo è clemente, il sole ancora abbastanza energico, la prevalenza delle giornate senza precipitazioni invita i raccoglitori a radunarsi negli uliveti e a darsi da fare.
C’è chi entra con rispetto e con le vecchie nobili maniere, brucando a mani nude per toccare quei frutti pieni di oro liquido e sentire i suoi profumi, dai polifenoli alla clorofilla: aspri, dolci, amari e caldi. Unici. Si salgono le scale per arrivare in alto, arrampicandosi fino ai rami più sottili per raggiungere i frutti maturati alla luce e al sole.
C’è chi usa i guanti con i pettini, i bastoni, le pertiche e batte i nobili frutti che cadono sulle reti, insieme alle foglie e ai rametti.
C’è chi lo ha già fatto nei mesi passati, raccogliendo frutti verdissimi e c’è chi attende le giornate dal freddo pungente, all’invaiatura completata e raccoglie i frutti maturi, caratterizzati da quel colore violaceo e dall’intenso profumo dell’olio dal giallo intenso che è contenuto in essi.
Ultimamente, data la velocità crescente del vivere quotidiano e diciamolo, la comodità di usare attrezzi moderni senza toccare quei frutti oleosi che acquistano un significato solo quando vengono schiacciati, spremuti e pressati, la nobile raccolta manuale diventa un lavoro lento, noioso, lungo e faticoso. Tutto viene velocizzato e così subentrano scuotitori e scrollatori elettrici, di ogni specie. Più ne hai e più veloce ed efficiente sarai, per non perdere tempo: dall’uliveto direttamente al frantoio. Certamente, queste procedure portano novità e qualità al prodotto finale che è l’olio di oliva. Non solo vergine, ma extravergine, con sfaccettature monovarietali o monocultivar. Oramai, la produzione dell’olio ha da tempo superato la romantica aggregazione e la condivisione tra le persone durante la raccolta. Il denaro ci sta togliendo le emozioni sostituendole con strategie commerciali, con nuovi tipi di olio, con nuove tipologie di apparecchiature di raccolta, di lavorazione e produzione. I prodotti finali, però, risultano sempre più costosi. Così, non mi meraviglierei di vedere fra qualche anno un olio di oliva sintetizzato in laboratorio; così, per garantire la massima sterilità del prodotto e per ridurne i costi. Sono convinta che ci stanno già lavorando. E sulla riduzione dei costi non ho alcun dubbio. Il marketing creerà sempre nuove opportunità per aggiungere valori commerciali, alzando i prezzi; mai abbassandoli. Spero di sbagliarmi e pronuncio un fermo e deciso NO alla commercializzazione senza limiti, a favore della tradizione, dei valori tramandati, della nobiltà e della verità.
La palma da olio, con sincerità e senza restrizioni
Rimanendo sempre nel nostro emisfero, ci spostiamo in un’altra zona, un po’ più calda in questo periodo e non troppo diversa dalla nostra mediterranea. Entriamo nel fammigerato golfo di Guinea, sofferente del fenomeno di brigantaggio, oltre allo sfruttamento di enormi risorse energetiche di cui abbonda l’area subsahariana dell’Africa occidentale, dove gli alberi sacri sono molti, capeggiati dagli alberi di palma tra cui un nome latino si riferisce al golfo citato. La più importante e una tra le più generose porta il nome di Elaeis guineensis. Fu “scoperta” nel 1763 da Nikolaus Joseph Freiherr von Jacquin, botanico di origini olandesi, chimico e mineralogo, studente viennese e parigino, viaggiatore e ricercatore, direttore dei giardini botanici all’Università di Vienna e da allora il suo nome fa parte della tassonomia delle palme. Torniamo al presente per ammirare le varietà diverse della palma da olio, grazie anche all’azione dell’uomo onde ottenere maggior produzione di drupe e resistenza ai periodi di siccità, frequenti nei territori dove cresce. Così troviamo la Macrocaria, la Dura, la Pisifera e la Tenera di cui l’ultima rappresenta la varietà di alto valore commerciale.
Se non lo sapevate, nell’Africa occidentale novembre in particolare rappresenta il mese di raccolta intensiva di noci di palma, di drupe importanti per la produzione dell’olio usato da sempre nella cucina locale. Tuttavia, dalle parti subsahariane la più desiderata e la più coltivata, usata e abusata è proprio la palma da olio che da millenni, e non solo in Africa, rende all’uomo l’ingrediente essenziale non solo in cucina, ma anche nella cosmesi, nelle cure, nell’illuminazione pubblica come lo testimonia il diario di bordo di Lourenco Pinto, nel 1691. In esso lui descrisse la città che oggi porta il nome di Benin City, che aveva “enormi lampade di metallo alimentate dall’olio di palma”. Mi riferisco all’olio ottenuto dalla polpa delle drupe proprio come viene ottenuto l’olio d’oliva nel Mediterraneo. Eh sì, sto cercando di confrontare i due modi diversi di vivere la vita che, vissuti e analizzati più dettagliatamente, rivelano molti punti in comune tra cui anche il fatto che raccogliamo le olive e le noci nello stesso periodo. Direte: ma come si fa a paragonare il nostro eccellente olio di oliva al mediocre olio di palma? Si può fare, credetemi.
Chi ha visto, assaggiato e usato quel liquido rosso rubino nella propria cucina, sa che produce un saporosità diversa, calda e vivace come le melodie delle danze africane. Emana un sapore specifico di vitalità, di calore di casa, di un abbraccio amichevole e forte che si diffonde nelle cucine africane, uguale a quello che viviamo e gustiamo quando attendiamo l’uscita del nuovo olio nei frantoi o quando condiamo il nostro cibo con l’olio di oliva.
L’olio che proviene dalla noce/dalla drupa di palma si ottiene dalla spremitura della polpa, attraverso un processo di sterilizzazione tramite vapore, denocciolazione, pressatura e filtrazione. Vi ricorda qualcosa, eh? Ancora oggi questo processo si usa nelle case africane: le drupe si lavano, si espongono al vapore, vengono denocciolate e la polpa posta nei mortai dove viene ripetutamente battuta a mano, fino a ottenere una poltiglia nella superficie della quale si nota quel prezioso liquido rosso. Il Banga (in Nigeria) che dà nome a molti piatti locali. Dicono sia l’olio vegetale più usato al mondo. Questa è la semplice verità sull’olio di palma naturale, spesso identificato all’altro, di cattiva fama: l’olio di semi di palmisto (seme della drupa). Mentre il primo è un prodotto naturale, il secondo è di natura industriale, usato largamente nell’industria alimentare, a livello internazionale (ancora!) e nella produzione di biocarburanti eco-sostenibili, la produzione e l’uso del quale sono stati vietati dall’Unione europea a partire dal gennaio 2023. Le ragioni del divieto stanno nella tutela dell’ambiente e nella salvaguardia delle foreste di tutti i Paesi del mondo dove questo tipo di olio viene prodotto. Malgrado la decisione dell’Ue, la coltivazione delle palme da olio tuttavia registra una continua crescita, le piantagioni di palmeti sono in continuo aumento e non solo in Africa, ma in tutti i continenti dove si possono ottenere ottimi risultati di produzione. Non attaccata ancora dal punteruolo che è riuscito a colonizzare solo la parte settentrionale del continente africano, la palma da olio viene coltivata in piantagioni, a scapito dell’originale foresta pluviale e sta cambiando le caratteristiche del suolo dato l’uso eccessivo di fertilizzanti necessari per rapidi crescite e rese della stessa. Infatti, chi si reca nei territori africani, nota ogni anno fasce sempre più ampie di palmeti parallelamente alla riduzione delle aree forestali, che sono le uniche a garantire quella biodiversità gravemente minacciata. Monoculture che uccidono la biodiversità, a favore dei profitti locali e internazionali. Sconfinamento di risorse e di interessi, perché le esportazioni di questo tipo di olio registrano una crescita esponenziale e sono per alcuni Paesi la principale fonte di reddito.
Sì, siamo consapevoli che anche in Africa e ribadisco soprattutto in Africa, l’interesse, il guadagno, il profitto e tutto quanto connessovi, hanno portato a trascurare e distruggere consapevolmente l’equilibrio del sistema naturale autoctono, riportando gravi danni ambientali. Ripeto, è qui che al mondo viene servito il “peccato originale” dell’olio di palma, ma non nelle sue caratteristiche organolettiche, che oltre a contenere i così odiati grassi saturi (presenti anche nel nostro burro quotidiano, nella margarina e nello strutto), possiede a parte i beta carotenoidi, un’abbondante quantità di tocoferoli, fitosteroli assieme al tanto ricercato coenzima CoQ10, sostanze note per la loro attività antiossidante. In conclusione, possiamo dire che l’olio di palma (olio ottenuto dal frutto e non dai semi) negli ambienti subtropicali e tropicali ha un valore importante, che si affianca a quello dominante e superiore dell’olio di oliva mediterraneo.
Santificazione e demonizzazione
L’olio d’oliva è generalmente considerato in alcune aree dell’Africa simbolo dello Spirito Santo e come tale usato solo come “olio santo”. L’uso in cucina è sconsigliato, spesso severamente vietato. Nell’area subsahariana dell’Africa l’ulivo non riesce a raggiungere gli stadi vegetativi che permetterebbero la produzione delle olive. Gli scienziati locali ed esteri, compresi quelli italiani, stanno sviluppando nuove tecniche per poter inserire questa nobile pianta tra le altre importate dal mondo circostante.
Il terzo mondo santifica il nostro olio d’oliva, che veramente merita la posizione di privilegio tra gli oli prodotti nel mondo. Dalle nostre parti invece, nel primo mondo, ci stiamo difendendo a spada tratta da quel cattivo olio di palma che porta e può provocare tanti mali, demonizzandolo con vari messaggi creati a tavolino e che hanno, non dimentichiamolo, un solo scopo: mercanteggiare e vendere.
Chi non si è “venduto” ai vari slogan e riesce ancora a vedere chiaro in questo mondo di oli che hanno superato il punto di fumo, capisce la verità, che è semplice e chiara.
Messaggio morale finale di NOvembre
I due alberi, le due nobili piante, considerate sacre nelle proprie culture, rimangono umili e costanti nel loro dare. Una può sopravvivere per millenni, l’altra ha una vita più breve, ma non meno intensa. NOn approfittano della debolezza altrui. NOn umiliano le piante minori. Intorno ai loro fusti o tronchi trovano sempre spazio fiori e animali. Le loro allegre chiome nascondono e proteggono nidi di uccelli, di specie comuni e rare, tanto loro non ne fanno differenza. Sono maestre della resistenza alle intemperie e modelli di generosità durante le stagioni perfette. Sanno sfruttare le condizioni ideali, ma NOn ne abusano. E solo l’uomo che quando si intromette nella loro armoniosa convivenza naturale, crea lo squilibrio e allora accusa loro stesse per i propri misfatti esprimendo continui NO.
“Post fata resurgo”, dice la Fenice e lo ripeto anch’io: Madre Natura ha infinite risorse e si risolleva sempre, vincendo le avversità causate in gran parte da una creatura che spesso dimentica di muoversi all’interno della stessa con rispetto, umiltà, per poter rimanere aperta a imparare tante belle e nuove lezioni di vita.
*docente del Dipartimento di Studi Italiani dell’Università di Zara
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