L’uomo che parlava al vino

Pillole di vita e saggezza raccolte negli anni del secondo dopoguerra in un paese della Bassa Padovana tra le cantine e l’emporio locale

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L’uomo che parlava al vino

Diciamo subito che il nome di questo paese è meglio non farlo: non per paura di beccarmi una sgridata, ma per rispetto di quella manciata di abitanti che con la loro ingenua, allegra, e profonda umanità, hanno fatto sì che io ricevessi quelle prime nozioni di “logica della vita” che negli anni mi sono servite a capire meglio il prossimo e difendermi nell’attraversare i campi minati del pressapochismo.

 

 

Una casa spartana
Appena finita la Seconda guerra mondiale, le controversie politiche nate dalla spartizione delle terre d’oltre Carso, dov’ero nato, mi gettarono a chiedere ospitalità in un paesino della Bassa Padovana. Meglio dire che fu mio padre a chiedere ospitalità per tutta la famiglia, nel posto che chissà da chi e come gli era stato suggerito. Arrivammo in pieno inverno, in questo paese. La casa era quello che di più spartano si potesse immaginare. Stanza da letto “globale”; cucina in comune e cesso fuori di casa, nell’aia. Tinello, o meglio punto di ritrovo per socializzare: la stalla con quattro vacche, due buoi e una capretta, alquanto insolente che appena arrivato mi dette una cornata al basso ventre, così, tanto per farmi capire chi comandava in quell’antro caldo e umido di piscio di vacca. I ragazzini del padrone di casa, attratti dal mio fascino schizzinoso di cittadino che mai aveva conosciuto l’ambiente campagnolo, speranzosi forse di imparare qualche novità del vivere “civile” in uso nelle metropoli d’allora che facevano, sì e no, duecentomila abitanti e che la maestra nominava con rispetto durante le lezioni di geografia, cercavano di contendersi l’esclusiva della mia disponibilità.

Conoscere Bepi Trinca
Fu così che un giorno il più intraprendente della combriccola mi disse, quasi a rivelarmi un segreto, che mi avrebbe portato a conoscere Bepi Trinca: l’uomo che “parlava al vino”. Non detti troppo peso alle sue parole, sebbene fossi rimasto sorpreso da come gli altri ragazzi avessero improvvisamente interrotto il loro cicaleccio nell’udire quel nome. A quel tempo, le persone anziane, soprattutto quelle che nell’immaginario collettivo acquistavano una certa patina di sapienza o comunque agivano al di fuori della comune apatia, vivevano in una sorta di privilegiata cornice di rispetto che destava sempre curiosità. Bepi Trinca, non ho mai saputo se quelli fossero il suo vero nome e cognome o piuttosto degli pseudonomi d’arte derivati dalla sua “professione”. Era un uomo anziano; di quelli ai quali non si riesce a dare un’età esatta. Mi portarono a conoscerlo al suo “posto di lavoro”.


Una cantina… un regno
Quel giorno lavorava in una cantina che pareva un antro polifemico. Un tugurio nero ornato da merletti di ragnatele, qua e là ingentilito dalle macchie giallo pallide di piccole forme di formaggio posate su delle tavole sorrette da due colonne di mattoni. Bepi, seduto di fronte a una botte enorme, pareva in paternale conversazione con la stessa. Spillava del vino e lentamente ne sorseggiava piccole quantità “sciabordandole” da una guancia all’altra prima di deglutire.
“Cara la mia bote, come andemo? De note te dormi ben? Te sarà miga disturbada?”
Mi sembrava strano, ma Bepi stava proprio parlando con la botte e quel che era più strano ancora, sembrava che un certo brontolio che proveniva dall’interno della botte fosse in sincrono con le domande del Bepi.
“Go capio – proseguiva Bepi –, bisogna che doman te travaso”.

I brontolii delle botti
Interrotto nel suo dialogo dal nostro apparire e leggendo una certa sorpresa nei miei occhi iniziò a sentenziare: “No ghe xe niente de strano se parlo al vin. El vin xe come un fiol, come una creatura. El ga bisogno de sentirse vivo, capido. E mi parlo con lui per conoser quali xe le sue esigenze. Non son miga mato. E gnanca el vin se mato. Solo che ogni tanto el fa i caprici. Ma mi lo calmo e quando el brontola capiso cosa el vol, proprio dal suo brontolio.”

Già, perché il vino brontola dentro le botti, nei lunghi mesi che si affina e il Bepi, diventato il massimo conoscitore di questi brontolii, veniva convocato a pagamento dai vari contadini che producevano vino. Veniva convocato e dal suo giudizio dipendeva non solo la scelta del vino, ma anche la garanzia per gli acquirenti e i consumatori dei famosi tre tipi di vini che si producevano allora nella Valpolicella. In verità si producono ancora, ma con tutt’altre considerazioni.

Una lezione di enologia
Bepi Trinca, forse vedendomi perplesso, mi spiegò che in Valpolicella tutto nasce da un miscuglio di tre uve: l’uva “rondinella” dai riflessi violacei che fornisce la struttura al vino; l’uva “molinara” dalla buccia sfarinata di bianco che dà il tono e l’uva “corvina”, nera come la pece che dà al vino il profumo e l’eleganza del gusto.

Ecco, così nasce il “valpolicella”, iniziò a sentenziare il Bepi, dando il via a una delle più colorite ed esaltanti lezioni di enologia. “Spero che no me senti el parroco perché già una volta el me voleva scomunicar, quando go affermado che el valpolicella se un vin ‘uno e trino’. Esiste infati el valpolicella ‘da pasto’ che sfrigola come un vecio gato che fa ‘ron-ron’. Poi xe el ‘recioto’ che fa un ron-ron più giovane e ancora el ‘amaron’ che el par una sinfonia de gato che fa le fusa.”
Tre vini, dunque, che il Bepi sosteneva nascere dal medesimo uvaggio, ma armonizzati da esperienze conosciute e sottolineati dalla sapienza di chi sa riconoscerne l’anima fin dentro la botte che li affina. Nominava il valpolicella versione “da pasto” con misurata sufficienza, dicendo che il “ron-ron” era un discorso amabile “da veci contadini imbriagoni” che si raccontavano la vita dura e povera dei campi e che si accontentavano dei suoi 12 gradi. Aveva invece una particolare benevolenza per il “recioto” da 14 gradi: amabile e grazioso accompagnatore di dolcetti, amico del panettone e ciarliero “ciacolon” dei salotti borghesi. Intrigante vino che piace alle signore e alla “corte del paron dei campi”. Il “recioto” aveva bisogno di continui travasi che ne bloccassero la fermentazione per impedire che tutto lo zucchero si trasformasse in alcool e il Bepi conosceva perfettamente il “ronfare” di quel vino che gli raccontava come trascorreva il tempo da quando i “racimoli” alti, “le recie”, gli orecchi dei grappoli solamente erano stati scelti perché maggiormente inondati dai raggi del sole.


Amarone, nato per caso
Con le lacrime di commozione, arrivò al culmine della lezione, quando avvicinatosi a delle piccole botticelle accatastate in bell’ordine nell’angolo più recondito di quella “santa cripta”, come lui la chiamava, mi indicò con gesto grave e solenne il suo interlocutore che maggiormente sapeva colloquiare con lui attraverso quei legni pieni di vita. “Ma ti sa che l’amaron xe nato per caso.” In una cantina, una botticella di “recioto” rimase sepolta sotto alcune grosse botti vuote e rimase nascosta e dimenticata per diversi anni. Ritrovata durante un riordino, un cantiniere volle assaggiarne una spillata prima di gettare il contenuto considerato ormai andato a male. Fu invece una delle sorprese più esaltanti. Era nato uno dei vini più favolosi. Una squisitezza da non meno di 15 gradi, che “el me parla con un ‘ron-ron’ che me fa vegnir le lagrime ai oci”. “Ciò mona – si rivolse il Bepi ad uno di noi che si avvicinava alle botticelle di “amarone” –, che no te vegnisse in mente de tocarle”.

L’offerta del «botegon»
Una domenica di giugno eravamo tutti invitati in Cascina Meneghin, al pranzo di matrimonio del figlio di Toni Tecia. Altro personaggio stranissimo questo Toni Tecia. Anche il suo cognome mi sa tanto di manomesso o meglio, di imposto dal suggerimento popolare. Toni Tecia era considerato il ricco del paese. E ricco, a quei tempi era considerato veramente chi lo era “a tanti sghei”. Dicevano che mezzo paese fosse suo. Di visibile e controllabile dalla curiosità popolare, era però il suo negozio: un grande emporio con annesso magazzino fornito di ogni ben di dio, per quei tempi. Vi si trovava di tutto: dagli alimentari alla legna da ardere, dagli abiti ai mobili, dai fuochi d’artificio ai tabacchi, ad ogni sorta di merceria, coloniali, frutta, vino, salumi: insomma non c’era articolo che non si vendesse nel “botegon”. Ma ciò che maggiormente veniva messo in evidenza tra le merci del “botegon” erano le pentole, pentolini e pentoloni che già si notavano luccicare dal fondo dello stradone che conduceva alla chiesa. Siccome in padovano la pentola si chiama “tecia”, penso che il cognome di Toni fosse in riga con i significati dedicati.

Toni Tecia era un avaro che si vantava della sua taccagneria come fosse uno dei maggiori meriti di cui potesse vantarsi. Non ne faceva mistero con nessuno e tutti erano a conoscenza di questa sua prerogativa.

Il pranzo di nozze
Figuriamoci con quale aspettativa e curiosità assieme, gli invitati al pranzo del matrimonio di suo figlio, si preparavano a partecipare. Il pranzo fu una sorpresa per tutti. Una piacevolissima sorpresa per la signorilità e il buon gusto con i quali fu offerto. Fu però teatro di una sorpresa cui nessuno si sarebbe mai aspettato di assistere. Toni Tecia, al culmine del pranzo, ormai completamente ubriaco, si produsse in un assolo memorabile, rivelando un mistero cui inutilmente da molti anni l’intero paese cercava di penetrare. Il padrone del “botegon” soleva spesso declamare una frase che rappresentava in sintesi la sua enunciazione di avarizia. A chi gli rinfacciava il suo vizio di rubare sul peso quando serviva al banco, spiegava la valutazione personale circa l’interpretazione del chilogrammo. “Oto eti a tuti; nove eti a qualchedun; diese a nessun”. Avevano provato in molti a coglierlo in fallo.


Il mistero della bilancia
La bilancia in legno, di quelle classiche in uso negli anni della guerra, con due piatti in ottone, uno dei quali veniva lucidato dallo sfregamento delle merci poste a pesare e l’altro più opaco e con i segni dell’usura dei pesi che Toni posava con studiata attenzione per dimostrare la sua “onestà”, era tenuta attentamente d’occhio dai clienti. Sembrava sempre tutto regolare. Anzi, Toni la sottoponeva volentieri alla prova della precisione ponendo due pesi da un chilogrammo sui due rispettivi piatti, dimostrando così la precisione dello strumento. Eppure coloro che a casa possedevano una bilancia, constatavano che certe merci, naturalmente quelle più costose, erano spesso scarse di peso. Protestavano a volte, ma con poca convinzione perché Toni li metteva subito in difficoltà sostenendo che le loro bilance erano, a dir poco, dei “zogatoli da fiera”.

Erano anni che la faccenda del peso andava avanti. Ne aveva parlato perfino il prete alla Messa della domenica. Ma non c’era il becco di una prova. Dopo l’ennesimo bicchiere di amarone, improvvisamente e forse anche perché stimolato nel suo amor proprio dal rifiuto di un approccio con la vicina di tavola, ecco che Toni Tecia si lasciò andare. Le parole, in parte biascicate, scivolano incespicando di quando in quando. Dapprima il cicaleccio festoso dei presenti si acquietò e poi scemò improvvisamente il brusio trasformandosi in un silenzio attento.

Un segreto svelato
“Ve go sempre fregà e adesso ve digo come”. Nemmeno alla predica domenicale, quando si sapeva che il parroco stava per lanciare il suo anatema verso qualche peccatrice di cui si mormorava, c’era tanta attenzione. Nel “botegon”, la bilancia posata sul bancone rimaneva sempre un po’ celata da qualche pacco o pacchettino che faceva bella mostra pubblicitaria. Nella tasca del grembiulone scuro che vestiva sempre, Toni teneva una fetta più o meno grossa di lardo. Quando voleva appesantire il piatto della bilancia sul quale metteva la merce e che era sempre il sinistro per chi stava di fronte a lui, con mossa fulminea, nel mezzo di una battuta o protetto dalla confusione degli avventori, attaccava rapido la fetta di lardo sotto il piatto della bilancia e… il gioco era fatto. Semplice e a scanso di equivoci o sorprese, se fosse stato scoperto poteva sempre giustificare il lardo come merce appoggiata al banco pronta per essere venduta. L’argomento tenne banco sino a notte fonda in paese e rimase a lungo negli annali storiografici.

Ricordi preziosi
Toni cedette il “botegon” al figlio che ne prese possesso con la moglie al ritorno dal viaggio di nozze. In capo a un paio d’anni, però, il figlio che nemmeno lontanamente possedeva il carisma del padre, si separò dalla moglie, gestì ancora per un po’ il “botegon” con l’amante che si era fatto, indi si mangiò l’impresa lasciatagli dal genitore. Toni, convinto che le sue disgrazie fossero nate con la sua famosa rivelazione, intensificò la cura con l’“amarone”, disperandosi di non avere un nipote per potergli insegnare i trucchi del mestiere.

Ho tentato diverse volte di ritornare a quel paese di matti a vedere se erano rinsaviti. Non ci sono mai riuscito. Mi prendeva sempre un nodo alla gola nel ricordare momenti che pur nella loro astrusa sciatteria, hanno lasciato un segno nella mia memoria, permettendomi di farvi riferimento quando arrivava il momento delle scelte.

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