
Materiale e immateriale. Tangibile, l’uno; inafferrabile, l’altro. Personalità divergenti, eppure unite da un legame complice e solidale. Un parto gemellare che li ha voluti speculari in grembo e antagonisti nella vita.
La materia, in quanto sostanza, si contrappone a tutto ciò che non lo è. Un principio semplice che permea la vita in un ampio spettro di sfaccettature: dall’arte alla scienza, dal mondo astratto alla tecnologia, dal pensiero ideale e teorico, alla vita concreta e percettibile.
In-materialis, una fisicità a cui si antepone un prefisso, -in, trasformandola in qualcosa di diverso e proiettandola in una dimensione superiore, dove l’impalpabile si arricchisce di sfumature e possibilità. Uno spazio ben definito nel quale è portavoce di una collettività che si tramanda grazie a un lascito di eccellenze, prezioso e necessario al mantenimento delle pluralità identitarie. Ed è proprio con l’immaterialità che ciò si rende possibile.
Onde e fili incorporei
Incoraggiare un dialogo globale destinato alla comprensione di realtà e di popoli, è l’obiettivo cardine su cui si fonda il Patrimonio Culturale Immateriale, un ambasciatore contemporaneo di incredibili microcosmi, non ancora del tutto esplorati. Nel 2003, l’UNESCO ha adottato la “Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale”, ponendo l’accento sulla “ricchezza di conoscenza e competenze” che esso racchiude e che trasmette attraverso un tempo privo di barriere. Questi saperi si diramano su fili incorporei, ma non inesistenti, propagandosi come un’onda da genitori a figli, da nonni a nipoti, da antenati a discendenti.
Una questione impellente
Un viaggio che inizia dalle comunità e dalle singole persone nel sentirsi attori protagonisti di un disegno straordinario, quale l’appartenenza sociale e culturale. L’immaterialità è implicitamente un atto di grande responsabilità al quale tutti, come custodi e divulgatori attivi, dovremmo essere in grado di rispondere.
Non si tratta di preservare soltanto l’identità di un Paese piuttosto di garantirne una continuità storica e un processo di rinascita costante che coinvolga ogni civiltà del pianeta.
Un architetto di relazioni umane
Comprendere il ruolo che ciascun cittadino può svolgere per contribuire e sensibilizzare una platea più vasta diviene una questione quasi impellente.
Nel sottolineare la rilevanza di una partecipazione individuale, il prof. Bruno Grassetti è sicuramente un nome significativo nella creazione diconnessioni ammirevoli tra Europa, in particolare Italia, e Cina. Come un architetto di relazioni umane, con impegno assiduo e impeccabile professionalità, ha dedicato lunghi anni alla realizzazione di iniziative che, oltre ad aspetti prettamente tecnologici, scientifici e commerciali, si sono focalizzate su interlocuzioni autentiche allo scopo di conoscere scenari eterogenei e con essi interagire.
Mediante un lavoro meticoloso e paziente, ha saputo plasmare modelli di interscambio che vedessero nel Patrimonio Immateriale Culturale una base solida e duratura. Fin dagli anni ‘80, il prof. Grassetti ha intrapreso un percorso lungimirante che oggi gli permette di insaldare e accrescere rapporti di amicizia e di reciproca fiducia con numerosi organi istituzionali nel mondo. Non è solo un accademico di spicco, dal ricco bagaglio di specializzazioni quali: ingegneria industriale, sviluppo sostenibile (in “Water Resources Management”, Harvard University) e alta formazione, ma è anche un consulente di prestigio per organizzazioni come FAO – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, WTO – Organizzazione mondiale del commercio, UNIDO – Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, UNDP – Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, UNFSTD – Commissione delle Nazioni Unite per la scienza e la tecnologia per lo sviluppo.
Equità e passione
È un convinto sostenitore che un’equa condivisione tra Paesi, nei campi dell’innovazione e del progresso, possa facilitare il superamento di sfide globali complesse. In Italia, annovera molteplici collaborazioni, dal Ministero dell’Interno al Ministero dello Sviluppo Economico. In contesti internazionali, si è occupato di progetti per l’attuazione di parchi scientifici, “TORCH” in Cina, in Uruguay e Venezuela. La sua innegabile passione per l’insegnamento, ha condotto il prof. Grassetti alla docenza presso rinomati atenei come La Sapienza di Roma, LUISS, UNICUSANO e l’Universidad de Piura in Perù. Attualmente, ricopre la funzione di Senior Advisor per l’Istituto Italiano OBOR – One Belt One Road, la Nuova Via della Seta, è presidente di CEFORM – European Center for training e vice presidente di CETE, un programma sull’educazione e formazione per favorire la cooperazione tra Europa e Cina.
Sintetizzare la sua carriera è stato veramente difficile. Suggerirei di partire dalla laurea in ingegneria industriale, in quanto mi è sembrato il punto da cui tutto si è sviluppato. Concorda?
“Indubbiamente, è da lì che si deve iniziare. Tengo molto a questa professione e nel tradurla in inglese con la parola ‘engineer’, sottolineo sempre che non sono affatto un ‘engineer’, termine che deriva da macchina, semmai sono un ingegnere di ‘ingegno’, con riferimento all’origine etimologica italiana. Ogni volta che lo spiego agli amici cinesi, è un bel ridere insieme”.
Come è nata la sua esperienza con e per la Cina?
“Nel 1984, ero docente all’Università La Sapienza di Roma e alla LUISS, inoltre avevo fondato uno Study Institute. Viaggiavo molto. Ero diventato consulente per il Ministero della Ricerca e venni nominato delegato italiano per le Nazioni Unite per la Scienza e la Tecnologia, anche per i Paesi in via di sviluppo. Un giorno, giunse al mio ufficio, al Palazzo di vetro (sede ONU a New York), la richiesta da parte del Governo cinese di organizzare un gruppo di esperti per attivare il progetto ‘Torch Program’, finalizzato alla costituzione di 53 parchi scientifici e tecnologici in Cina. Accettai, ritrovandomi poco dopo a Pechino (distretto di Haidian) nel primo hub tecnologico-scientifico Zhongguancun (中关村). Una collaborazione che tuttora prosegue con molti altri. Due cose mi colpirono, visitando le città e le aree di sviluppo: i trasporti erano esclusivamente su bicicletta. Vi erano pochissime automobili, e i centri scientifici, allora, e sottolineo allora, erano dei prati. Si intravedevano solo alcuni edifici in cui venivano ospitate delegazioni straniere. Mi riferisco al periodo successivo alla presidenza del Grande Riformatore, Deng Xiaoping, il quale aveva dato vita alle ‘quattro modernizzazioni’ (agricoltura, industria, scienza e tecnologia, difesa). Il settore in cui io mi muovevo rientrava in una delle ‘quattro modernizzazioni’ quindi risultò particolarmente appetibile”.
A proposito di poli tecnologici cinesi degli anni ‘80, diceva trattarsi solo di estensioni territoriali, ma era presente un’idea, una visione prospettica.
“Sì, la lungimiranza è parte fondamentale della cultura e forma mentis cinesi. In termini moderni, si traduce in una strategia di sviluppo e pianificazione che caratterizza la governance e le politiche economiche cinesi e si manifesta nella capacità di prevedere e intercettare le esigenze future, di adottare misure proattive, investimenti, ad esempio, in settori strategici. Costruendo hub tecnologici, il Governo cinese ha saputo anticipare dinamiche e andamenti economici. Comunque, è stata un’evoluzione partita da lontano. Il segretario di Stato americano Henry Kissinger, negli anni ‘70, contribuì molto agli investimenti statunitensi su suolo cinese. Sarebbe opportuno, a mio avviso, per cogliere meglio la portata dello sviluppo multisettoriale contemporaneo in Cina, specificare che, quando nel 2001 essa entrò a far parte del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) e molte produzioni internazionali si trasferirono lì, era ancora oggettivamente un Paese in via di sviluppo. Da allora, è iniziata una politica di alfabetizzazione dell’intera Nazione, soprattutto nelle zone rurali, che ha liberato oltre 600 milioni di persone dalla soglia di povertà. Con l’attuale presidente Xi Jinping ciò è ancora più evidente. Trasformazioni enormi che ho visto con i miei occhi”.
Quest’anno, ricorrono per lei due anniversari speciali: quarant’anni dal suo primo ingresso in Cina e dieci anni dal Premio Amicizia ricevuto da parte del Governo cinese. Quali le riflessioni per questa doppia ricorrenza?
“Dall’‘84 in poi, mi sono dedicato intensamente a una serie di progetti sino-italiani. Ho organizzato moltissime delegazioni di rappresentanze universitarie in visita presso famosi atenei di Pechino, Qingdao, Canton solo per citarne alcune. Ho avviato iniziative per sostenere interscambi bilaterali tra ambienti scientifici, formativi e artistici. L’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia a Roma, osservando la mia incessante dedizione, ha voluto premiarmi e di questo sono davvero orgoglioso”.
Ben più di cinquanta viaggi in questo Paese, si sente a casa in Cina?
“Direi proprio di sì! Ho frequentato molto aree interne e le città di Chengdu, Chongqing, Qingdao, Tianjin, in cui si trova una concessione italiana (un extra-territorio in cui governava, in questo caso, l’Italia, poi restituito alla Repubblica Popolare Cinese nel 1947) di cui ancora esiste testimonianza architettonica e che, nel tempo, è diventata un fulcro dinamico per la divulgazione della cultura italiana. Si trattava comunque di viaggi brevi, di una settimana circa o al massimo di un mese. Ciò, purtroppo, non mi ha consentito di poterne studiare la lingua cinese, anche perché non è una cosa semplicissima”.
Da qualche settimana è rientrato da un viaggio nel Paese di Mezzo (Cina). Quali impressioni desidera condividere?
“Dopo una lunga assenza di circa cinque anni, dovuta anche alla pandemia di Covid-19, sono tornato a visitare due città in cui ero già stato in passato, ovvero Shanghai e Hangzhou. Le ho trovate entrambe trasformate in modo impressionante. Sistemi di trasporto urbano rinnovati, collegamenti rapidi ed efficienti; veicoli elettrici, tutti di fabbricazione cinese, mentre negli anni ‘80 e ‘90 erano solo di marchi americani ed europei, di produzione FIAT in primis. Nell’insieme, ho trovato più sostenibilità ambientale e accessibilità. Oggi, questi centri urbani rappresentano non solo un nuovo volto della modernità, ma anche un affermato simbolo di un’estetica e di un’industria che sanno guardare avanti con determinazione. Partecipando all’Expo ‘Hangzhou Cultural and Creative Industry’, ho notato una grande attenzione, da parte delle aziende espositrici, verso temi delicati e spinosi come l’ecosostenibilità. Artisti e designer hanno presentato le proprie opere avvalendosi di tecnologie avanzate integrate. Ciò ha avvicinato il pubblico a nuove forme di apprendimento e di fruizione culturale. Inoltre, ho riscontrato un’eccezionale valorizzazione delle tradizioni locali, con artigiani che le hanno reinterpretate in chiave moderna. L’Expo ha anche avuto una precisa missione nel rafforzare il networking fra professionisti del settore, imprenditori e creativi, e questo non potrà che agevolare la crescita di nuovi posti di lavoro e di figure professionali. La cultura, nell’attuale panorama geopolitico così instabile e conflittuale, espleta un compito sempre più aggregante. È vitale!”.
Ritornando allo sviluppo economico. L’espressione “Dal made in China al Designed in China”, racchiude un processo estremamente veloce che ha caratterizzato gli ultimi anni e segnato una transizione significativa in questo Paese, il quale non è più visto come un luogo di produzione a basso costo, bensì come un riferimento per l’innovazione al passo con le esigenze planetarie.
“In soli trent’anni, come ricorda correttamente lei, ha raggiunto un livello tecnologico, che da un orientamento indirizzato all’esportazione e con bassi livelli iniziali – infatti si pensava ai prodotti cinesi come a quelli di scarsa qualità – è giunto a standard industriali altissimi. Molti sono gli studenti cinesi presenti nelle migliori Università del mondo che ricevono riconoscimenti illustri. Non dimentichiamolo!”.
Quindi, da un atteggiamento di apparente inattività in cui la Cina ha osservato e studiato in modo sapiente il mondo, è giunta ad acquisire il know-how tecnologico che sembra disorientare l’Occidente.
“In molti hanno detto e dicono che i cinesi sanno solo copiare. Personalmente, sostengo che è un qualcosa che andrebbe insegnato bene”, e sorride. “Per tornare a essere seri, il copiare è un espediente per apprendere come si fanno le cose, magari guardando agli anziani o alle persone che ne sanno di più in un dato ambito, ma una volta che si impara si va avanti autonomamente. È necessario un atteggiamento di umiltà, unita alla tenacia di voler realizzare obiettivi ragguardevoli. La Cina ha aggiunto una grande capacità e impegno lavorativo e, sicuramente, c’è anche una sorta di desiderio di rivincita e la Cina non ha mai nascosto di voler ritornare a essere al centro del mondo, come era prima dell’invasione dei colonialisti, nel cosiddetto ‘secolo delle umiliazioni’”.
Che cosa si può chiedere all’Europa per stare al passo con la Cina?
“Partendo dall’Italia, sono convinto che quando, nel 2019, venne firmato l’Accordo sulla Via della Seta, in quel momento fosse stata giocata una carta di grandissimo interesse strategico. Se ne erano comprese le potenzialità. L’ultima visita del presidente del Consiglio italiano (luglio 2024), ha restituito un po’ di speranza anche per non perdere delle possibilità nel comparto automobilistico elettrico di cui la Cina non è soltanto un mercato allettante, ma ormai anche leader produttivo nonché un partner imprescindibile. In un quadro globale competitivo, l’agilità e il senso di adattamento risultano cruciali e le alleanze strategiche con la Cina offrono un vantaggio notevole. Essendo un ingegnere parlo di cose concrete”.
La Cina rappresenta ancora un’opportunità?
“Lo è ancora di più. Negli ultimi anni, ha dimostrato una resilienza economica sorprendente, conformandosi ai cambiamenti mondiali e alle sfide interne. La crescita del mercato cinese, alimentata da un’enorme classe media in espansione, continua a offrire innumerevoli occasioni alle imprese internazionali. La digitalizzazione si è diffusa su piattaforme e-commerce che stanno rivoluzionando il modo in cui i consumatori acquistano e interagiscono con i brand. Inoltre, il Governo cinese sta investendo e promuovendo massicciamente in innovazione, tecnologia e in settori come l’intelligenza artificiale, la mobilità elettrica e le energie rinnovabili. Questi trend non solo stimolano l’economia interna, ma generano anche un terreno fertile per partnership e collaborazioni internazionali. Le aziende che riescono a entrare in tale contesto dinamico e a innovarsi ciclicamente possono trarre immensi benefici. Il mercato cinese però è un ecosistema in perenne evoluzione che deve essere approcciato con una strategia ben definita e una comprensione profonda delle sue peculiarità. Solo così, sarà possibile trasformare le sfide in chance concrete e a lungo termine”.
Nell’introduzione, ho menzionato il Patrimonio Culturale Immateriale. Cosa significa esattamente?
“Nel pensare all’Immaterialità mi viene in mente una frase di Blaise Pascal: ‘Esprit de finesse, esprit de geometrie’ (‘Spirito di finezza e spirito di geometria’), la quale si riferisce a due modi distinti di interpretare la realtà. Il primo, con un’intelligenza intuitiva, il secondo con un approccio razionale e analitico. In sintesi, il filosofo si soffermava sull’importanza di bilanciare l’intelletto con una percezione più sottile della vita e della sfera umana, dove, a mio parere, l’Immaterialità si colloca ed è il fondamento a cui tornare per far nascere e crescere relazioni internazionali. Il Patrimonio Culturale Immateriale diventa incisivo nella diplomazia culturale e nella costruzione di un mondo più coeso e armonioso”.
Perché è necessario preservare il Patrimonio Culturale Immateriale in un contesto di globalizzazione e modernizzazione?
“Parlerei di ‘diffondere’ piuttosto che di ‘preservare’, un dovere quest’ultimo che spetta alle comunità, sue detentrici. La divulgazione è qualcosa che compete alle istituzioni, con un impegno effettivo e definito. L’odierna fase storica sta modificando i valori umani di base e spingendo verso un’omologazione generale. È essenziale ribadirne l’importanza: accoglienza dell’altro, difesa della biodiversità. Il Patrimonio Culturale Immateriale parla al cuore ed è intrinsecamente legato all’identità e alla storia. Incoraggia il rispetto e l’apprezzamento per le differenze, ma richiede un approccio serio.
In che modo il Patrimonio Culturale Immateriale contribuisce allo sviluppo socio-economico delle comunità?
“Due sono i modi con i quali il Patrimonio Culturale Immateriale contribuisce. Lo spirito di comunione e di mutuo soccorso che spesso si traduce in organizzazioni di accoglienza per visitatori/turisti interessati a determinati aspetti e per i quali si creano delle esperienze coinvolgenti e autentiche; e poi, l’imprenditoria artigianale. Mi riferisco alla lavorazione di tessuti, di ceramiche, ai prodotti gastronomici e, ovviamente, a tanto altro. Lo scorso ottobre, nella splendida città di Hangzhou, ho avuto l’onore di partecipare, al seguito di una delegazione italiana, alla diciottesima edizione di un’autorevole iniziativa settoriale, la ‘Cultural and Creative Industry Expo’, a cui precedentemente ho accennato. Si è esplorato il concetto di Immaterialità attraverso una variegata presenza di opere artistiche: da gioielli ispirati all’archeologia – realizzati da un giovane archeologa – per esempio, il Tuffatore di Paestum, a tele pittoriche evocanti ‘memorie paesaggistiche’, a sorprendenti estemporanee di body painting. Un momento di particolare suggestione è stato rappresentato anche dall’utilizzo di un dispositivo, un visore per la realtà virtuale, che consente di rivivere l’eruzione del Vesuvio e la drammatica distruzione di Pompei, offrendo un’esperienza unica su un evento storico di straordinaria rilevanza, molto apprezzata dai ragazzi. Direi essere stata un’occasione per il futuro delle industrie creative sia in Italia che in Cina e, ancora una volta, si è dimostrato quanto l’arte, il design e le tecnologie moderne possano fornire un valido contributo allo sviluppo economico di un Paese e questo loro, da tempo, lo hanno compreso molto bene. La cultura è anche una risorsa economica”.
Quali sono le sfide principali nella preservazione del Patrimonio Culturale Immateriale in un mondo digitalizzato?
“Credo che la questione risieda nel tenersi il più lontano possibile dall’uso delle tecnologie in questo ambito, o meglio, utilizzarle per diffondere ulteriormente il Patrimonio Culturale Immateriale, tramite collegamenti a distanza, documentari, racconti filmati, e creando un archivio accessibile a un pubblico più variegato. Al contrario, si rischia di farlo diventare un mero spettacolo digitale. Le tecnologie sono strumenti che necessitano di un riferimento progettuale di cui essere, appunto, un mezzo. A salvaguardare devono essere, comunque e sempre, le comunità”.
Qual è il ruolo del Patrimonio Culturale Immateriale nella promozione del dialogo interculturale tra Cina e Europa?
“Non mi sembra vi sia una strategia mirata. Lo spazio sarebbe enorme ma, in Italia, rimane a livello ministeriale, salvo qualcosa di prettamente simbolico. In Europa, forse per mia scarsa conoscenza, non mi è giunta notizia di progetti relativi al ‘dialogo interculturale’ su temi di Patrimonio Culturale Immateriale. Grazie a eventi, festival, e programmi di scambio artistico, le comunità possono confrontarsi, imparare l’una dall’altra e apprezzare le diversità, riducendo pregiudizi e stereotipi. Tuttavia, come sottolineato, sembra esserci una lacuna nelle strategie formali. Il Patrimonio Culturale Immateriale non ha ancora ricevuto l’attenzione necessaria in termini di politiche pubbliche. In Europa, sebbene esistano reti e programmi dedicati, come quelli promossi dall’UNESCO, l’assenza di iniziative sistematiche e visibili può limitarne il potenziale”.
Quali sono alcune delle espressioni di Patrimonio Immateriale nella cultura cinese da lei sperimentate? E come si differenziano o somigliano a quelle della cultura europea?
“Sicuramente la Cerimonia del tè, il calcolo con l’abaco (spesso usato nelle banche), la Calligrafia, la Sericultura. Il comune denominatore che troverei, potrebbe essere nella promozione del turismo imperniato sul Patrimonio Culturale Immateriale. Entrambe cercano di valorizzare le proprie tradizioni e aggiungerei che la Cina lo impiega anche come soft power. Un aspetto da non trascurare”.
Cosa consiglierebbe a un giovane per poter conoscere la Cina?
“Renderei quasi obbligatorio un periodo di studi all’estero. Molti studenti cinesi si trasferiscono in Italia o altrove nel mondo per frequentare le migliori Università. Insomma, vivere la Cina in modo diretto e non filtrato. E poi, compatibilmente, lo studio della lingua cinese”.
Quali i suoi prossimi impegni?
“‘La settimana dello stile di vita italiano’ già realizzata a Tianjin nel 2002, di concerto con importanti istituzioni sino-italiane. Questa volta, ho voluto proporre qualcosa che esulasse dal solito ‘made in Italy’, suggerendo lo splendore della cultura rinascimentale. Poi, un convegno sull’AI applicata all’archeologia sottomarina, che è il nostro futuro, decisiva per ottenere informazioni utili anche sulle ‘terre rare’, oggigiorno di esclusiva cinese”.
Guardando al futuro, quali sono le sue aspettative in merito ai rapporti tra Europa e Cina?
“Per natura, sono un ottimista, ma non in questo caso. È indispensabile cercare un’unione di intenti. Lavorare per la pace, per il pianeta e per i popoli. Il potere dell’immaterialità è anche questo”.
*Referente Senior
per Progetti Commerciali
e Culturali Sino-Europei


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