La Via della Seta, una pista ciclabile da cui osservare il mondo

L’iniziativa «Marco Polo a pedali», partita il 25 aprile e conclusasi il 1º agosto scorsi, ha abbracciato anche la Cina, facendo scoprire alcuni aspetti sorprendenti di questo lontano e affascinante Paese. Abbiamo parlato a lungo con Alberto Fiorin, uno dei due protagonisti (l’altro è Dino Facchinetti) di un viaggio indimenticabile in bicicletta durato cento giorni, di cui è tornato gentilmente a raccontare per il nostro quotidiano. «Essendo già stato in Cina nel 1987, la cosa che mi ha sorpreso di più è stato rendermi conto che quella che prima era la Nazione della bici per eccellenza, al giorno d’oggi non pedala più, preferendo i mezzi elettrici», ci ha rivelato

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La Via della Seta, una pista ciclabile da cui osservare il mondo
Un viaggio in bici durato cento giorni. Foto gentilmente concessa da Alberto Fiorin e Dino Facchinetti

Il viaggio porta con sé un’infinità di modi e sfumature per essere vissuto. Si interseca e si avvicenda su piani, che dalla dimensione fisica, guardano a quella metaforica e che, dalla realtà, saltano nell’immaginario. È un trasportarsi altrove, in un luogo non necessariamente definito e non strettamente geografico. Viaggiare è scegliere di fare un passo fuori per arricchirsi dentro, è uno scambio osmotico tra persone e posti che per brevi tratti di strada temporali si incontrano, consapevoli che dell’altro e dal luogo attraversato prenderanno qualcosa in prestito da conservare e da condividere.
Navigare in acque poco familiari ha da sempre suscitato nell’essere umano una gamma di emozioni poliedriche, talvolta scomode: dalla trepidazione alla paura, dall’eccitazione all’aspettativa, dalla voglia di cambiamento al distaccarsi da una parte di sé che non lo rispecchia più. Ogni rotta intrapresa offre spazio a margini fondamentali per l’introspezione, permettendo di riempire il proprio zaino con nuovi libri di vita da sfogliare. L’esistenza diviene così una biblioteca universale le cui opere, da edizioni limitate, si tramutano grazie al passaparola di anime aperte e ricettive in best seller amati da un pubblico vasto come i mari e gli oceani.
Nel mondo sono presenti numerosi vocaboli ed espressioni che circoscrivono, definiscono e potenziano il concetto di viaggio. 旅行lǚ xíng e 旅游lǚ yóu spiegano bene, per esempio, la differenza che nella lingua cinese ha, nel primo caso, il viaggiare a piccoli passi assaggiando ogni aspetto e fase del percorso e il farlo con un intento ricreativo, se non istruttivo, nel secondo. Gradazioni tenui, ma sostanziali.
Se poi a queste si aggiungono la determinazione e la passione di sperimentarne il valore in piena autonomia, contando sulle proprie risorse, senza escludere l’esterno, la presenza del carattere “自” zì(letteralmente: “da”, “se stesso”) nella parola “bicicletta”自行车zìxíngchē (zì: se stesso; xíng: muoversi, camminare, viaggiare, fare; chē: veicolo) restituisce a un comune mezzo di trasporto significati più profondi che si incarnano nello spirito di libertà e di indipendenza, nel senso di convivialità umana e comunità, nelle interazioni sociali e culturali che si creano al ritmo di ogni pedalata.

Una quotidianità ritrovata, ma inevitabilmente diversa

Delocalizzandola dal contesto sportivo e situandola nel mondo delle espressioni idiomatiche cinesi, la bicicletta indica la capacità di agire per risolvere un problema e completare un compito, mediante la fiducia in se stessi che questa antica due ruote, con la dose giusta di perseveranza, permette di modellare.
I viaggi possiedono un inizio e mai una fine. Ed è forse nella metabolizzazione di singoli episodi riposti in valigia per il nostro rientro a casa che risiede il loro vero fascino. Sensazioni, ricordi, immagini, avvenimenti, discese e risalite, diventano tasselli di una memoria che ci accompagna in una quotidianità ritrovata, ma inevitabilmente diversa. E allora, partire dal punto in cui tutto è iniziato sembra essere la cosa più naturale e anche possibile.
Venezia, 24 agosto 2024, ore 10.30.
La caffetteria di Campo Santa Margherita non è particolarmente affollata. Nonostante la temperatura rovente e i masegni che, per un antipatico effetto di riverbero, rimandano calore afoso, riesco a trovare riparo in un cono d’ombra e, mentre attendo che arrivi l’orario dell’appuntamento, osservo i locali adiacenti che si preparano ad accogliere le ondate di un turismo scomposto, i banchi del pesce su cui sorvolano gabbiani – meno sfacciati però di quelli a Fiume – in posizione di attacco, la piccola comitiva di signori anziani che su una panchina, riparata dal sole, legge il giornale commentandone i titoli ad alta voce e, in particolare, i trafiletti della pagina sportiva che annuncia la partita del Venezia – da poco nuovamente in serie A – contro la Fiorentina per il giorno successivo, e nel farlo coinvolge i passanti in discussioni troppo impegnative per la temperatura bollente.
Alberto Fiorin arriva puntualissimo, accompagnato da uno stuolo di saluti affettuosi e di parole che, dall’empatia, si trasformano in abbracci solidali e di riconoscenza per l’impresa compiuta, in una forma di socialità spontanea che altrove si è perduta. Amici, conoscenti e sconosciuti. Sorride accogliendo tutti con una cordialità che si fa spazio tra riserbo e discrezione. Si accomoda, ordiniamo una bibita rinfrescante e in pochi secondi mi catapulto in una dimensione ovattata dalla gradevolezza dei suoi racconti.
Si è scritto molto – anche sul nostro quotidiano – di lui e del suo compagno di avventura, Dino Facchinetti, della loro spedizione in bicicletta lungo la Via della Seta, partita quest’anno dalla città lagunare il 25 aprile e terminata il 1º agosto a Pechino. Abbiamo letto minuziose e puntuali descrizioni quotidiane, pubblicate dal figlio di Alberto, Fausto, sulla pagina Facebook a essa dedicata, “Marco Polo a pedali”, e li abbiamo seguiti fino all’arrivo nella capitale della Repubblica Popolare Cinese, un po’ come fossimo stati presenti. Sono rispettivamente presidente e segretario della Società ciclistica “Pedale Veneziano 1913”, unica rappresentanza tra campi e campielli, con più di centodieci anni di storia.

Un albero imponente nasce da un seme

Nel conversare, ci soffermiamo soltanto su alcuni aspetti di una missione durata ben cento giorni e nata con l’intento di omaggiare Marco Polo, nel contesto delle celebrazioni del settecentenario della sua scomparsa, ripercorrendola in una sorta di sbobinamento fra sensazioni e riflessioni post-rientro.
Il filosofo cinese Laozi nel “Canone della Via e della Virtù” 道德经, Dàodéjīng scriveva: “Un albero imponente, nasce da un seme; una torre di nove piani, emerge da un cumulo di terra e un viaggio di mille miglia inizia da un singolo passo”. Al di là di quanto ambizioso possa risultare un obiettivo, è proprio dalle piccole cose che si deve partire per poterlo realizzare, il macro si sviluppa gradualmente dal micro. E così iniziamo.

Quale è stato il vostro primo passo?
“Il primo passo in assoluto è stato quando mia moglie Tiziana, nel 2023, un giorno mi ha detto: ‘Sai che l’Università Cà Foscari, mi ha proposto una collaborazione perché il prossimo anno si celebreranno i 700 anni dalla morte di Marco Polo?’. In quel preciso istante, mi si è accesa la luce. Quel giorno mi sono detto: ‘Ora o mai più!’”.

«Senza pregiudizi» e «con umiltà»

Ogni viaggio predilige delle chiavi di lettura che lo caratterizzano e lo rendono speciale. In quello di Alberto Fiorin e Dino Facchinetti, mi è sembrato di individuarne due, ben distinte e definite: “senza pregiudizi “e “con umiltà”. Esplorare non facendosi condizionare da visioni distorte, di quelle che inclinano la realtà oggettiva e che non consentono di godere appieno dell’esperienza, e il rifuggire da ogni forma di superbia, l’umiltà appunto, una virtù spesso menzionata da Confucio, basata sul rispetto e sullo spirito di ricerca, poiché a nessuno è dato di conoscere tutto.

Cosa ha significato e significa per voi il concetto di umiltà?
“Guido Piovene, scrittore vicentino degli anni ‘50, nel suo libro ‘Viaggio in Italia’ diceva che ‘viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà’. E in effetti, viaggiare in bicicletta è un grande atto di umiltà perché sudi, puzzi e sei esposto a numerosi elementi positivi e negativi: il sole, la pioggia, il caldo, il freddo, la sete. Quindi, si ha bisogno di tutto e di tutti. Cosa che si è immancabilmente verificata durante il nostro viaggio, addirittura per chiedere delle banalissime informazioni. È stata veramente immensa la voglia di aiutarci. Per esempio, in Cina è accaduto che molti inchiodassero con la vettura, anche su autostrade, e uscissero improvvisamente dall’automobile regalandoci delle bottigliette d’acqua per ristorarci dall’arsura. E tutto questo senza che potessimo comunicare in modo agevole. Se avessimo viaggiato con un altro veicolo, non sarebbe mai potuto accadere. Aggiungerei che uno dei temi del nostro viaggio, fin dall’inizio, è stato: ‘Con chi andare?’. Io non sono fatto per viaggiare da solo, molti si cimentano in solitaria. Mi piace comunicare, condividere e lo considero, in caso di necessità, anche una forma di aiuto reciproco. È fondamentale trovare un compagno di viaggio affidabile, su cui poter davvero contare, come per me è stato ed è Dino”.

Quel che colpisce del vostro viaggio, è l’eccezionalità nel vedere le reazioni delle persone che ora vi incontrano, vi chiedono, vi salutano con entusiasmo. Viviamo nell’epoca dei social e dei rapidi clic digitali con i quali si arriva ovunque. Questa calorosa partecipazione umana stupisce. Mi fa pensare a Marco Polo, a quando ritornato a Venezia racconta ai concittadini della permanenza in Cina, delle “genti” e dei paesaggi incontrati. È come se foste sbarcati da un altro tempo.
“Il mezzo di trasporto che abbiamo usato è lento. La chiave di lettura in questo senso è che la prospettiva dalla sella ti consente di vedere cose che non noteresti da nessun’altra angolazione e le persone ne sono curiose. Quando abbiamo preso l’areo di ritorno, in 17 ore abbiamo fatto quello per cui abbiamo impiegato 100 giorni. Il viaggio è tutto lì. Non è quando arrivi a Pechino. Si trascorrono giornate in silenzio e giungi poi a destinazione dove senti tanti rumori e vedi moltissime persone. È un contrasto quasi disorientante”.

Lei, Alberto, era i già stato in Cina nel 1987. Cosa ha notato di diverso ritornandovi dopo più di trent’anni?
“Sì, ero stato con mia moglie ma non in bicicletta. Ho riscontrato un cambiamento totale. Per me, la vera notizia è che in Cina non si va più in bici! La consideravo la Nazione per eccellenza di questo mezzo a pedali. All’epoca, ce n’erano a fiumi. Ricordo che quando scattava il verde, si metteva in movimento un caos di persone. Ora, sulle lunghe piste ciclabili, spesso eravamo gli unici, perché invase da mezzi elettrici. Anche nelle campagne è tutto elettrico! Stanno facendo molto. Abbiamo attraversato 100-150 chilometri di parchi eolici. Una cosa impressionante. E abbiamo visto tantissimi pannelli solari. Una Cina pulita, curata. Nei parchi e nei giardini pubblici c’erano giardinieri ovunque. Un senso del pubblico che noi non abbiamo. Mi ha profondamente colpito vedere città con grattacieli giganteschi (40-50 piani) e altipiani, per esempio nello Xinjiang, per poi scendere a Turpan a 48 gradi. Ci ha colpito questo continente in continuo fermento, che si è impegnato enormemente e che è una potenza. Ho visto moltissime auto che non mi aspettavo. Parlo di auto importanti, come i SUV. Uno scatto sociale ed economico incredibile”.

La morfologia del territorio cinese è particolarmente ricca e articolata. Pianure, fiumi, laghi, vallate, altipiani, montagne, colline e zone desertiche. Come vi siete destreggiati tra territori così estremi e variegati? Penso per esempio alla catena montuosa Huoyan (Huǒyànshān火焰山), conosciuta con il nome di “Montagne Fiammeggianti” (il nome deriva da un fenomeno in base a cui l’argilla rossa che le ricopre riflette il calore del deserto causando bagliori somiglianti alle fiamme). Ne avete parlato come di un luogo unico in quanto diviso a metà: da un lato il deserto, dall’altro un’estensione immensa di vitigni. Contrastanti, ma complementari. In qualche modo, avete attraversato lo yin e lo yang contemporaneamente!
“Una contrapposizione fortissima. Lo stesso ambiente ostile da una parte, ti accoglieva dall’altra, proteggendoti con l’ombra, offrendoti sollievo con i vitigni della ‘Grape Valley’ e acqua. A Turpan abbiamo visitato canali sotterranei per parecchie centinaia di chilometri. È proprio il caso di dire: lo yin e lo yang! Un deserto nel quale devi stringere i denti per sopportare temperature elevatissime come in Turkmenistan, per cui siamo stati costretti a fare delle tappe notturne perché era impossibile pedalare di giorno. Ma lì c’era difficoltà di approvvigionamento. In Cina, lungo il nostro percorso erano presenti più ristori. Per tornare alle Montagne Fiammeggianti, i vitigni a cui ho accennato non sono una piccola oasi, bensì chilometri e chilometri di superficie”.

Nei deserti, avete percepito suoni o odori speciali?
“Direi che, personalmente, ho provato più sensazioni in quello del Turkmenistan, dove mi sono sentito, nel bene e nel male, di essere fisicamente in un deserto. C’era un caldo fotonico, dromedari, pochissime auto e l’acqua scarseggiava. In quel momento, ci siamo sentiti piccoli, tanto piccoli e tanto fragili”.

A proposito del viaggiare in bicicletta e del potersi ritrovare a dormire all’addiaccio, sul sito ufficiale dell’associazione nazionale cinese www.china-bicycle.com, mi è capitato di leggere all’interno di un articolo una bella frase che recitava così: “Il cielo è la trapunta, la terra è il letto”.
“I famosi hotel a mille stelle! – e sorridiamo –. Siamo partiti in due e senza nessuno al seguito. È un modo diverso di viaggiare. Si deve essere disposti a dormire anche in condizioni difficili. Non abbiamo portato volutamente la tenda con noi. Avrebbe significato aumentare il carico generale nel volume e nel peso, di almeno 20 kg, e poi avremmo dovuto aggiungere troppi accessori. Avevamo identificato solo tre notti in cui saremmo stati costretti a dormire all’aperto, poiché non era previsto alcun riparo. Pertanto, ci siamo adattati alle circostanze”.

Avete incontrato altri pellegrini o viaggiatori durante il percorso?
“Pochi, pochissimi. Quasi nessun turista. Gli unici sono stati europei, e tra questi italiani, in Uzbekistan”.

Quale effetto ha avuto su di voi la moltitudine di persone in alcuni luoghi della Cina? Non si è abituati, vero?
“Ho osservato con attenzione. Ciò che mi ha colpito è stata la mole pazzesca di turismo interno. Se si vuole vedere l’Esercito di Terracotta, per esempio, si rimane annichiliti dalla miriade di persone locali, di cinesi in visita nel proprio Paese”.

E l’accoglienza? Ospitare chi “viene da lontano” è un concetto cardine nella cultura cinese.
“Direi una forma di accoglienza fiduciosa e semplice. Tante richieste entusiaste di scattare selfie insieme a noi. Più che in altre nazioni, è accaduto in Cina. Spesso i ristoratori ci offrivano il pranzo. Abbiamo percepito il senso profondo di ospitalità cinese. In altre zone del Paese, siamo andatati avanti ad angurie regalateci per combattere il gran caldo”.

Un aspetto più volte menzionato nel diario di viaggio è stato il concetto di età. Lo stupore da parte dei cinesi nell’apprendere la vostra.
“Sì, è stata tra le domande principi. Ci veniva chiesto: da dove venite, dove andate e quanti anni avete. Al nostro: ‘sixtyfour and sixtyseven’, le bocche dei cinesi si aprivano in una meraviglia senza fine. C’era rispetto, perché – aggiunge in tono scherzoso – per loro, una persona di 65 anni è già ‘vecia’”.

In effetti, nella cultura cinese alle persone over sessanta è associata una fase della vita in cui si diventa meno vulnerabili alle parole sgradevoli o negative. 耳顺ěrshùn: alle “orecchie non arriva più nulla di fastidioso e non vi è nulla che possa offendere il cuore”. Si acquisiscono maturità interiore e consapevolezza. Insomma, si diventa saggi!
“Lo abbiamo compreso realmente a Pechino, quando nel visitare vari musei, e rivelando la nostra età, scoprivamo che l’ingresso era gratuito. Esiste una grande attenzione anche in questo. Ricordo in particolare una signora, proprietaria di un piccolo negozio di alimentari, che ha un certo punto, ci ha detto: ‘Anch’io sono del ‘60!’. Poi, ha chiamato i vicini, gridando felicissima: YIDALIREN! YIDALIREN! (意大利人!意大利人! Yì dà lì rén: italiani! italiani!). Era entusiasta nel raccontare agli altri che fossimo suoi coetanei. Tra l’altro questa simpatica signora era davvero una calligrafa talentuosa. Ha trascritto la nostra età in cinese su un quaderno, come a voler sigillare una nuova amicizia tra persone che, nel trascorre del tempo, vedono possibilità e non limiti!”.

Qualche parallelismo tra voi e Marco Polo? Avete incontrato tracce del suo passaggio lungo la Via della Seta?
“La Via della Seta è un fascio di percorsi. Abbiamo cercato il più possibile di ricalcare il suo viaggio, dovendo comunque fare i conti con la realtà di oggi, ahimè. Passando infatti fra nazioni un po’ complicate, ci siamo trovati a fare degli slalom nelle guerre. Marco Polo andò sicuramente più a sud. Noi invece abbiamo evitato di allungare, scegliendo un percorso più scorrevole anche dal punto di vista burocratico. Per certe cose, è stato più semplice ora, rispetto a quando partirono i miei compagni nel 2001, per cui erano stati necessari molti visti. Noi, ne abbiamo dovuto richiedere soltanto tre. Inoltre, quest’anno in Italia sono stati istituiti due nuovi uffici, quello della Diplomazia Sportiva e della Cultura dai quali abbiamo ricevuto un grande supporto. Per quanto riguarda la presenza di Marco Polo lungo il percorso, il fatto assurdo è che per trovare qualcosa che lo ricordasse, siamo dovuti giungere nella capitale cinese, poiché a Venezia non vi è nulla. Non c’è un monumento, non c’è la tomba in quanto Napoleone distrusse San Lorenzo, luogo in cui era sepolto il mercante esploratore, non esiste un museo. Invece, in Cina e in tutto l’Oriente viene celebrato. Quando siamo arrivati a Pechino, ci siamo recati al famoso ponte ‘Marco Polo’, così soprannominato perché descritto ne ‘Il Milione’, e su cui si trovano ben oltre cinquecento sculture di pietra, ciascuna con forme diverse. Ci sono monumenti in Mongolia, a Ulan Bator, nella piazza centrale ad esempio. A Venezia non esiste un ponte ‘Marco Polo’. Sì, esiste la Corte Seconda del Milion, ma è una forzatura. È un paradosso: molto conosciuto e riconosciuto in Oriente e poco in Patria. Nel mondo, l’espressione ‘Silk road’ evoca immediatamente il nome di ‘Marco Polo’”.

A proposito di istituzioni, ho notato che, nelle occasioni ufficiali, vi siete presentati in maglietta e pantaloncini, esattamente così come eravate. Oltre a un discorso logistico che vi impediva di portare con voi diversi cambi di abbigliamento, immagino sia stato anche un modo per sottolineare la vostra identità.
“Sì, un’osservazione corretta. Soprattutto, quando si parla di iniziative di questo genere. Si è trattato, comunque, di un omaggio a Marco Polo e poi, scegliendo la bicicletta come mezzo di trasporto, in automatico si abbraccia un certo modello di vita. Abbiamo indossato due tipi di magliette. Una con i colori della nostra associazione storica, ‘Pedale veneziano 1913’, ovvero il nero e il verde, come da tradizione nello sport veneziano. Il nero a ricordare il colore delle gondole, il verde l’acqua dei canali. In alternativa a questa, una maglietta creata per l’iniziativa ‘Marco Polo a pedali’ con i colori rosso e oro, presenti nel Gonfalone di San Marco. Ma con noi avevamo anche un altro segno distintivo che tuttora considero un vero colpo di genio. Una bandiera dal doppio ruolo: di emblema ufficiale appunto e di vela per i venti contrari, sulla quale erano stati riportati il percorso da Venezia a Pechino e le 12 bandiere delle Nazioni – anche se all’ultimo momento abbiamo dovuto aggiungerne una tredicesima, il Kirghizistan – che avremmo attraversato. Abbiamo fatto firmare le singole bandiere dalle corrispettive istituzioni di rappresentanza. Per esempio, quella croata dall’Istituto Italiano di Cultura a Zagabria, ma in Slovenia, abbiamo fatto un’eccezione, chiedendolo al nostro amico Paolo Rumiz, scrittore, giornalista e soprattutto un instancabile viaggiatore”.

Una riflessione ad alta voce?
“Riguarda i molti cinesi che ho incontrato in bicicletta. Non avevo mai pensato in termini concreti a questo miliardo e mezzo di persone e mi sono chiesto: ‘Ci sarà qualcuno che ha fatto il percorso come il nostro?’. Vorrei sottolineare un fatto a cui tengo. Mi permetto di dire che siamo stati noi dell’Associazione a stimolare, in passato, l’idea di realizzare dei viaggi da Pechino a Venezia. Mi riferisco a quando nel 2001, nello stesso luogo di partenza (Piazza San Marco) e nello stesso giorno in cui è scattata l’iniziativa ‘Marco Polo a pedali’, salutai mia moglie e mio figlio per stare via novantacinque giorni. Purtroppo, un brutto incidente a pochi chilometri della partenza, mi costrinse a rinunciare. Si trattava di una spedizione di dieci persone ed ero convinto che, successivamente, li avrei potuti raggiungere in Turkmenistan e invece non fu possibile a causa di delicati interventi chirurgici a cui venni sottoposto. Per elaborare questo lutto, decisi di scrivere un libro dal titolo ‘Strade d’Oriente’, presentato a Pechino nel 2003. Quando i miei compagni arrivarono a Lanzhou il 29 luglio del 2001, furono svegliati da potenti fuochi d’artificio. Scoprirono essere i festeggiamenti per l’assegnazione delle Olimpiadi del 2008 nella capitale cinese. Due anni dopo la spedizione del 2001, andai a Pechino per la presentazione del libro e in quell’occasione furono organizzate numerose conferenze su Marco Polo. Portammo una nostra bicicletta, che regalammo al Comitato Olimpico Cinese, dicendo: ‘Marco Polo ha fatto l’andata, ma anche il ritorno! Sarebbe bello che qualche cinese facesse il percorso al contrario’. Nel 2004, a Venezia arrivarono due ciclisti provenienti da Pechino, un cinese e un americano, che ospitai proprio a casa mia!”.

Una staffetta!
“Sì. Quando si viaggia e si riceve tanto, è naturale restituire qualcosa al proprio ritorno”.
Se poteste riavvolgere il nastro del viaggio cosa cambiereste?
“Domanda interessante. Abbiamo avuto problemi con alcuni tipi di clima e logistici ma, in fin dei conti, sono stati parti imprescindibili dell’esperienza stessa”.

Da questi cento giorni cosa nascerà?
“Non so ancora, sto cercando di fermare il caleidoscopio di sensazioni. Mi piacerebbe fare qualcosa, non so se verrà fatto. Ho già molte soddisfazioni a livello umano, con gli amici, come quella che mi ha fermato poco fa. In qualche modo, ho condiviso un’idea importante: tutti possono fare una cosa del genere è solo una questione di testa e di volontà. Chiaramente, c’è anche un aspetto legato alla fortuna, per quel che riguarda la salute. Tanta forza di volontà e, nel mio caso, anche un senso di riscatto, seppure piccolo, rispetto al mancato viaggio del 2001. Il messaggio che mi sentirei di dare è che, se esiste la voglia di mettersi in gioco e superare le difficoltà, non c’è nessun limite mentale che possa osteggiarci”.

Sicuramente, Marco Polo sarebbe stato orgoglioso di voi. In un dialogo immaginario cosa gli avrebbe detto al vostro rientro nella città lagunare?
“Bella domanda! Devo pensarci su”.

Dopo qualche giorno, Alberto Fiorin mi ha scritto:
“Avrei detto: Ti ringrazio Marco per averci ispirato a guardare con attenzione e curiosità a questa immensa Terra incognita!”.
E lui, messer Marco Polo, come avrebbe commentato questa loro bellissima impresa in bicicletta?

*Referente Senior
per Progetti Commerciali
e Culturali Sino-Europei

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