L’arte di illuminare le ferite

Il Kintsugi cammina su due traiettorie parallele e mai antagoniste, sulle quali dimensione spirituale ed esteriorità fisica percorrono il tratto di strada necessario a manifestare la versione migliore di sé. A colloquio con la restauratrice e artista Ambra Graziani, esperta di quest'antica tecnica giapponese

0
L’arte di illuminare le ferite
Foto gentilmente concessa da Ambra Graziani

Si può restituire dignità a una ferita che, inaspettatamente, si è appropriata di uno spazio; si può accettarne la presenza come elemento migliorativo della casa in cui ha deciso di abitare e la si può riabilitare a parte integrante o imprescindibile di una maturazione interiore.

Le ferite sono un passaggio quasi obbligatorio attraverso cui le cicatrici, visibili e invisibili, da testimoni di sofferenza, divengono catalizzatori di crescita personale.

Guardiane di completezza

Esse possono plasmare e decidere il peso specifico delle nostre azioni e perfino la capienza della vita. Quanto e cosa accogliere. Il loro tempo di guarigione risiede negli occhi con i quali le osserviamo e nel cuore con il quale le percepiamo. Sono guardiane di una completezza che nasce dal difetto e che dalla fragilità risorge.

L’unicità si appoggia sull’idea che l’essere “diversi” sia una condizione speciale da proteggere e da condividere con gli altri poiché è il terreno fertile in cui coltivare e far crescere individui che dell’imperfezione hanno fatto un dono eccezionale.

Le ferite sono piante rigogliose e un habitat sociale, per definirsi “salubre”, dovrebbe attingervi costantemente. Si uniscono ad altre diversità in un effetto domino, che invece di far cadere i tasselli, li aiuta a tenerli in equilibrio. Così come la polvere d’oro o d’argento delicata si adagia tra fessure e interstizi di fratture e varchi spaziali creati dall’usura e da ciò che di improvviso accade nella vita, rispettandone le linee e le rotte casuali, al tempo stesso, il mondo di emozioni umane che le ha viste nascere si nobilita e si riscatta in una forma più straordinaria, che apprezza il recupero dell’essenza di un oggetto e in questo si rispecchia.

Una gestualità silenziosa

“Unire o riparare con l’oro”: l’antica Arte giapponese del Kintsugi金継ぎ(金Kin, oro; 継Tsugi, unire o aggiustare) nasce da qui, da una gestualità silenziosa, lieve e precisa che direziona nuove luci su ombre e con loro si amalgama e si fonde. Riunire frammenti di materia con la pregevolezza di alcuni metalli preziosi significa elevarne la natura e celebrare un rinnovamento che li rende irripetibili e singolari.

La versione migliore di sé

Il Kintsugi cammina su due traiettorie parallele e mai antagoniste, sulle quali dimensione spirituale ed esteriorità fisica percorrono il tratto di strada necessario a manifestare la versione migliore di sé. Tale tecnica affonda le proprie radici nel Giappone del XV secolo. Vi sono vari racconti che ne descrivono la nascita, tra questi, si narra che un giorno l’ottavo shōgun (capo militare) Ashikaga Yoshimasa, appassionato di tè, ruppe inavvertitamente la sua tazza preferita. Ordinò quindi di ripararla ma, le metodologie allora impiegate erano piuttosto grezze e rudimentali. Così, quando lo shōgun se la vide restituire, rimase fortemente deluso. A quel punto, decise di affidare la riparazione ad alcuni artigiani i quali con pazienza la ricostruirono, unendo i pezzi con una lacca particolare, Urushi, e farina di riso, per poi decorare i punti di giuntura con la polvere d’oro. Il Kintsugi abbraccia importanti principi filosofici che nel Paese del Sol Levante costituiscono una parte delle fondamenta culturali. L’accettazione dell’impermanenza e dell’imperfezione che vive nel “Wabi-sabi”侘寂; il flusso mentale del “Mushin”無心 che libera dall’angoscia provocata da un cambiamento consentendo di abbracciarlo o il rammarico sincero nello sprecare oggetti e situazioni, nello svalutare persone, nel non permettere loro di esprimersi fino in fondo e, di riflesso, di garantire ai primi un ciclo di esistenza fisica più lungo e di conservazione anziché di consumo smodato, presente nel concetto di “Mottainai”勿体無.

Stimolare nell’armonia, la ricerca

Una strabiliante modernità che dal passato a oggi ha saputo diramarsi in aree geografiche distanti dalla sua fonte originaria e stimolare nell’armonia la ricerca di un’evoluzione personale.

Ma cosa avviene quando il Kintsugi incontra un’artista, per di più restauratrice, a Occidente del globo terrestre?

L’Arte si rende spesso messaggera della natura rigeneratrice e, in qualche modo, salvifica di questa secolare pratica giapponese ed ecco che accanto agli strumenti tradizionali si affianca, quasi indispensabile, la capacità di osservare con discrezione e pazienza l’oggetto destinato al restauro e di accompagnarlo in punta di piedi nel processo di guarigione fino a una nuova vita.

Ed è proprio il termine “cura” il filo conduttore che lega l’attività artistica di Ambra Graziani alla sua personalità eclettica, formatasi nel cuore pulsante di Roma, rappresentato dal microcosmo creativo delle antiche botteghe di restauro.

Dall’universo classico e tradizionale della doratura, applicata principalmente a opere del Barocco italiano, in particolare del ‘600 romano, e la cui impeccabile tecnica l’ha resa una raffinata esperta, al mondo della ceramica dal quale parte alla volta di esplorazioni vissute sempre con riguardo e serietà. Ma prima ancora di essere restauratrice e artista, nel significato più versatile che tali parole sottendono, Ambra Graziani è un’osservatrice sensibile, e oserei dire anche sensoriale, dell’animo umano, poiché è dalle percezioni intuitive che nasce il suo approccio verso la realtà esterna presente in tutte le opere da lei meravigliosamente realizzate.

Nel restauro vanta prestigiose collaborazioni decennali che vanno dalla Galleria antiquaria Carlucci-Lafuenti (Roma), al Gruppo Bernardini marmi (Dubai), al Museo di Catanzaro e Santa Severina, solo per citarne alcune, come la partecipazione in qualità di ceramista a numerose esposizioni, tra le quali: “Ombra e Luce”, “Arte e Psiche” per Appiam ‘21, “Tra Terra e Cielo” e l’elenco potrebbe continuare, per giungere alla stampa del libro di immagini e poesie curato da Giovambattista Camia, “Zona di conforto”, nonché alla personale “Studio 110”.

In questi anni, il suo incessante spirito di ricerca le consente di volgere lo sguardo verso nuovi linguaggi introspettivi, coinvolgendola nello studio e nell’approfondimento di tale Arte che, nell’incanto, predispone a infinite riflessioni.

Ma come è avvenuto l’incontro con il Kintsugi?

“Ufficialmente, è stato qualche anno fa, durante la pandemia. In quel momento, ero interessata a esplorare il mondo della pittura Sumi-e (sumi 墨, inchiostro nero; e 絵, pittura). Essendo da molti anni una doratrice e lavorando con l’oro da tempo, avevo già una familiarità con questa tecnica giapponese, che avevo applicato in alcuni lavori, sebbene fossero comunque basati su parametri occidentali. Poi, ho conosciuto il mio ‘maestro’. Mi sono resa conto che nel restaurare portavo con me il desiderio di cura, in quanto non prestavo attenzione solo all’oggetto, ma anche alla sua storia, alle persone esistenti dietro di esso. Se vogliamo, sono sempre stata nell’’atteggiamento Kintsugi’, mi sembra di conoscerlo da sempre”.

Cercare Armonia

Quando ci si immerge nel pensiero creativo di questa tecnica giapponese, cosa accade? Quale è l’atteggiamento interiore che, per esempio, guida “l’artista Ambra”?

“Avere la possibilità di trasformare una sofferenza, non arrendersi mai rispetto a una cosa che si frantuma, ricostruire e trasformare. Non riesco a separare la mia parte artistica da tutto ciò, come dalla restauratrice che è in me. Semmai, cerco l’armonia in tutti questi aspetti della mia vita. Armonia e Poesia”.

In cosa consiste esattamente l’Arte del Kintsugi? Quali sono gli “ingredienti”?

“Si usano materiali presenti in natura. La lacca Urushi è il componente fondamentale. Ne esistono varie tipologie, quasi sempre di colore rosso e di tonalità diverse (dal rosso al nero). È un collante che consente di riunire i singoli pezzi, una resina giapponese, estratta dall’albero Rhus Verniciflua. Questo albero vive soltanto una decina di anni. La sua corteccia viene incisa da mani esperte, per consentire la raccolta della preziosa resina. Allo stato naturale, è una sostanza altamente tossica, ma una volta applicata all’oggetto, in tempi lentissimi, è come se perdesse tali proprietà nocive. Affascinante, no? Mi piace credere che l’albero dell’Urushi sappia del suo ruolo così importante e che si sacrifichi per consentirci di sperimentare il Kintsugi. Per tornare alla tecnica da me adottata, alla lacca aggiungo la farina di riso, ricca di amido, poiché quella di grano prevede un’asciugatura più lunga, che unita alla polveri Tonoko (di argilla) e/o Jinoko (farina fossile), viene impastata per procedere nella stuccatura. Ci si aiuta con delle spatole (Hera) di legno e di misure variegate, per esempio: più grande in cipresso giapponese, per mescolare le lacche e gli stucchi oppure più piccola, per stendere la colla e lo stucco. Si lascia riposare il tutto per tre o quattro giorni, ma a una determinata temperatura e grado di umidità. Si riprosegue con vari passaggi di stuccatura e levigatura fino alla ‘perfezione’. Ogni intervento è framezzato da una pausa di tre-quattro giorni, dipende ovviamente dall’estensione della superficie interessata. Poi, l’oggetto viene custodito in una sorta di contenitore in legno o cartone, cosiddetto ‘muro’ (室), dove temperatura e umidità devono essere controllate quotidianamente, per facilitare la polimerizzazione delle diverse fasi di lavorazione con la lacca Urushi. Stabilire un equilibrio tra acqua (umidità) e calore (temperatura) è un fatto prioritario. Si entra in relazione con l’oggetto, sempre! Ci si prende cura di esso anche quando non lo si lavora materialmente. Stendere l’oro è solo l’atto finale. Osservazione ed esperienza sono una bussola essenziale”.

Strade alternative

È previsto l’impiego di altri metalli?

“Sì. A parte l’oro puro, per esempio l’argento o l’ottone. Personalmente, sto cimentandomi nell’applicazione di alcune polveri colorate. Esistono lacche Urushi già colorate all’origine, ma vorrei creare delle alternative, con vari tipi di materiale e di polveri. È interessante osservare un filo di arancio, di viola o verde emergere dalla superficie di un oggetto restaurato con il Kintsugi! Seguo altri binari, ma fedele al procedimento tradizionale. Mi diverto a definirla una rifinitura più ‘rock’”.

L’oro rimanda a qualcosa di prezioso e, quindi, anche la ferita inevitabilmente lo è.

“La polvere d’oro conferisce una valenza ben diversa alla cicatrice. Assume i contorni di un gioiello da esporre e non di un mostro da cui fuggire”.

Quale è l’approccio verso la “materia”, dal punto di vista del restauro occidentale e del Kintsugi? Nel primo caso, forse, si tende a preservare ciò che l’oggetto/opera era in passato e quindi a restituire la copia di sé stesso, mentre nel secondo si dà una nuova forma al “difetto” o alla rottura? Sembrerebbero due premesse agli antipodi.

“Esatto. Mi sono occupata del restauro di molte opere nelle quali ora non vi è più traccia della sua spaccatura o dell’assenza di un pezzo mancante. Il restauro tradizionale, in Occidente, porta a non evidenziare un dato problema, anzi si deve fare di tutto affinché l’imperfezione non si noti. Il Kintsugi invece la evidenzia. Sono due principi totalmente contrapposti. Aggiungerei che nel restauro tradizionale giapponese, il pezzo mancante può essere addirittura sostituito con un’altra cosa o materiale. C’è una libertà assoluta che quello occidentale non consente, poiché deve attenersi a dei canoni specifici”.

Continuare un viaggio

Usare un pezzettino di un altro “corpo”, prendere un qualcosa di estraneo e unirlo all’oggetto da restaurare. Questo passaggio merita un approfondimento.

“Concordo. È come ritrovare una nuova immagine. Mi chiedo spesso cosa fare con il vuoto, con la parte mancante. Per me, è anche un relazionarsi con l’invisibile. Possiede un immenso potenziale, può essere e diventare tutto. Si crea un dialogo con l’oggetto e con il suo essere invisibile. Il concetto di ‘mancanza’ nel Kintsugi, come nel Wabi-sabi, fa parte del processo artistico creativo. Il vuoto può essere considerato un desiderio. Possiamo decidere di lasciarlo lì, così come è, colorarlo nei contorni o inserire qualcosa di nuovo. Si continua un viaggio. Per esempio, tempo fa mi è capitato di restaurare una tazza proveniente dal Giappone (cfr. foto) che apparteneva alla madre, venuta a mancare, di una mia cliente. Si era rotta ed era priva di un frammento. Dopo lunghe riflessioni, ho deciso di intervenire in quel vuoto aggiungendo un pezzo appartenente a una diversa porcellana su cui era disegnato un uccellino e così l’ho incastonato. Ho riempito quella parte invisibile con un’altra storia, per cui ora procederà in un viaggio rinnovato. La mamma che diventa un uccellino… che si trasforma. La mancanza diviene una preziosa possibilità”.

Incuriosisce il fatto che lei sia nata come doratrice e che quindi l’elemento oro lo abbia ritrovato nel Kintsugi.

“È una riflessione che mi commuove. Mi tocca ancora oggi, profondamente. Nonostante apprezzi il ‘mio oro’, non riesco ancora a conferirgli il valore giusto. Amo dedicarmi scrupolosamente a tutto ciò che precede l’attimo della ‘pioggia dorata’, sono molto attenta alle varie fasi di lavorazione, estremamente meticolosa. Prima di iniziare, pulisco gli oggetti in modo accurato: li scartavetro, li lucido, li sistemo. Preparo il campo per la polvere d’oro e spesso impiego molto tempo prima di applicarla, perché è un lavoro che richiede una lentezza ponderata. La preparazione è cruciale più dell’applicazione. Per vedere la bellezza intera, finale, ho bisogno di prepararmi a essa”.

Svelare la propria natura

Esiste l’ispirazione nel Kintsugi? O si tratta di percepire ciò che l’oggetto è stato, di riuscire a entrare in contatto con la storia che lo accompagna?

“Quando mi consegnano un oggetto, ne chiedo sempre i trascorsi e, una volta terminato il restauro, mi piace scrivere qualcosa che ne incornici la restituzione. Per me, conoscere il suo vissuto, un ricordo, il come e con chi è stato usato, equivale alla scoperta di sentieri inediti da perlustrare. Alcune volte, parto da una visione chiara, ovvero l’oggetto mi suggerisce come realizzare il Kintsugi, poiché in realtà esistono molti modi. Tuttavia, il rispetto nei riguardi della persona che me lo ha consegnato è qualcosa da cui non prescindo mai. Stabilisco una comunicazione con l’oggetto per lunghissimo tempo. Si tratta di passaggi che necessitano anche di mesi. Nel tenerlo tra le mani, prima o poi svelerà la sua natura. Inoltre, si devono considerare vari aspetti iniziali, per esempio: la forma, il colore, il volume, le sfumature…”.

Quindi la bellezza che l’oggetto acquisisce dopo il restauro Kintsugi, può essere considerata una sorta di dignità riconquistata?

“Assolutamente sì, ancora più di prima, non toglie bensì aggiunge. È una bellezza che sa, appunto, di dignità e di redenzione. Tra l’altro, permette di recuperare oggetti che, altrimenti, in passato sarebbero stati eliminati con superficialità. Oserei dire che è un vero atto di fiducia, perché è come se ci si rivolgesse a un medico di cui si ha stima e su cui poter contare”.

Qualcosa di incredibile e rivoluzionario

Con il Kintsugi si onora l’esistenza della ferita e quindi non potremmo non menzionare Artemisia Gentileschi, della quale ha creato una particolare scultura in ceramica, pigmenti e oro zecchino, unica nel suo genere. Può raccontare la storia che ha preceduto la realizzazione di questa opera?

“Artemisia Gentileschi era una pittrice italiana del ‘600, di Scuola Caravaggesca. Lavorava su toni intensi, forti. Nulla da invidiare al grande Maestro! Frequentava gli studi d’Arte, qualcosa di rivoluzionario per una donna dell’epoca, in quanto era esclusiva del mondo maschile. Un giorno accade che subisce una violenza per opera di un artista che il padre, anch’egli pittore, le aveva messo a disposizione per approfondire gli studi. Ovviamente, Artemisia Gentileschi si trova a vivere un terribile trauma in duplice veste, da artista e da donna. Ma invece di tacere, decide di denunciare l’accaduto. Fatto anche questo incredibile per quel periodo storico. È già difficile per una donna dei nostri tempi agire in propria difesa, figuriamoci all’epoca! Alla fine, riesce a condurre questo uomo davanti al giudice e, sebbene non venga condannato, la giovane Artemisia risulterà vincitrice comunque, solo per il fatto di essere riuscita a denunciarlo e ad aver affrontato il processo a testa alta.

Un giorno mi capitò di vedere un suo quadro ‘Giuditta decapita Oloferne’ e ne rimasi completamente ammaliata. Possedeva tutte le componenti che per anni avevo ammirato e restaurato nella plasticità delle ‘forme’ e nello ‘stile poetico’ propri delle sculture barocche. Ne ho scoperto la bellezza, la poesia e la rabbia”.

E il Kintsugi come si relaziona a questa scultura?

“Un ceramista quando cuoce la sua opera è terrorizzato dal fatto che, ad alta temperatura, possa frantumarsi. In questo caso, io speravo che si rompesse in alcuni punti, ma non troppo. La cosa strana, per non dire mistica, è che la rottura sia avvenuta proprio in aree emblematiche: sulla bocca, la gola e il naso. Delle crepe dimostrative fedeli alla storia di Artemisia Gentileschi, in quanto, la bocca è stata il tramite con cui ha denunciato, ossia la voce; la gola dove generalmente si fermano le emozioni serrate come la rabbia che però, nel suo caso, si è evoluta in forza e poi il naso, organo deputato alla respirazione, dunque alla vita”.

Da un’angolatura inconsueta

Quando parla del Kintsugi, lo definisce un’Arte incoraggiante, che aiuta a trasformare qualsiasi cosa.

“Sì, trasformi per te stesso e per gli altri. Esiste la ferita, ma anche la cura”.

Parole queste ultime che invitano a guardare al dolore da un’angolatura inconsueta e trasformativa. E allora viene spontaneo porre un ultimo quesito.

Da cosa si parte per approcciare il Kintsugi?

“Senza alcun dubbio, dalla lettura. Dovendo scegliere un libro, consiglierei ‘Kintsugi. Ripara le ferite dell’anima e rendi prezioso ogni istante della tua vita’ di Selene Calloni Williams, in quanto propone una visione non prettamente tecnica. Racconta della sua esperienza umana all’interno del Kintsugi. Vi è molta ricerca interiore. Credo sia un manuale da tenere con noi e, possibilmente, da metterein pratica. È ricco di spunti interessanti e con ‘angoli’ di meditazione. Offre nove tappe e fornisce un quadro completo rispetto al Kintsugi inteso come dialogo con l’anima”.

E in sintonia con le parole dell’autrice menzionata da Ambra Graziani, un breve quanto intenso estratto da cui poter aprire ulteriori spiragli di osservazione, preziosi come la polvere d’oro che riscatta le ferite: “(…) Apprendere sulla via del Kintsugi significa scoprire la funzione positiva del dolore. Ogni tipo di sofferenza, sia essa fisica o psicologica, non è destinata a farci del male, ma piuttosto a risvegliare l’anima dal suo torpore e a invitarci a intraprendere un viaggio iniziatico”.

*Referente Senior
per Progetti Commerciali
e Culturali Sino-Europei

Ambra Graziani. Foto gentilmente concessa da Giò Camia
Foto gentilmente concessa da Ambra Graziani

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display