Il carnevale degli antichi dei

In una trattoria gestita dal «Pirata» una volta all’anno tutto era all’insegna del mare. Uno dei suoi piatti era sublime. Ogni estate, in un giorno di riposo della sua trattoria, andavamo a pescare una montagna di ricci per ripetere l’esperienza

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Il carnevale degli antichi dei

Che il pesce di mare e i molluschi si sposino con il vino bianco, è cosa nota a tutti. Me lo raccontava sempre, soffermandosi sul tipo di vino, il “Pirata”, ogniqualvolta mi spingevo nell’entroterra ligure, su per le ripe dietro i contrafforti dell’Appennino che scendevano dalle appendici del monte Maggiorasca, verso la piana della Val di Taro. Abitavo a quei tempi in riva al Mar Tirreno e avevo preso l’abitudine di spingermi a valle, all’interno e fuori dalle rotte turistiche, alla ricerca di quelle trattorie genuine che ancora non avevano ceduto le armi all’interesse spregiudicato del far quattrini e basta.

 

Le trattorie di una volta

Il “Pirata” gestiva tra Begonia e Borgo Val di Taro, in una frazione che aveva tre case e l’immancabile chiesetta, una sorta di trattoria che raccoglieva odori, profumi e squisitezze che mi ricordavano l’infanzia. Un’infanzia che mi lasciava curiosare e prendere le prime confidenze con locali che in Liguria avevano nomi come “La Sporcacciona”, “Dal Sucido”, “Dal Balordo” e così via. Locali dove si mangiava da Dio e con pochi soldi: giusto la cifra che noi giovani potevamo permetterci a quell’epoca. Locali diventati poi ristoranti di grido, cambiando il nome e nei quali oggi si mangia certamente non come allora, seppure si viene trattati elegantemente con tovaglioli di lino e posate scintillanti.

Il “Pirata” era oriundo di Lerici. Aveva lavorato nei cantieri di La Spezia durante gli anni della guerra e poi, per motivi che nessuno aveva mai saputo si era ritirato in quella perduta frazione della Val di Taro, aprendo una trattoria che io ricordo sempre con grande emozione. La ricordo soprattutto per il modo di fare genuino, burbero e semplice del “Pirata”. Per la sua capacità di essere cuoco e per la sua grande passione per il calcio.

Il Pirata e il Cortese

Lassù sotto le balze del Maggiorasca e in quella valle che sapeva di ciccioli e di culatello emiliano, la cucina di mare era l’ultima cosa che un avventore ignaro potesse aspettarsi. Al venerdì, al sabato e anche alla domenica, la trattoria del “Pirata” sapeva invece letteralmente di mare. Il figlio del “Pirata”, ogni venerdì all’alba partiva con il suo camioncino per la riviera, a fare il pieno di pesce. Il “Pirata” aveva una mania: quella del vino Cortese. Era veramente una mania, una fissazione, un’idolatria per questo vino bianco. Se lo faceva arrivare, diceva lui, da un “mago” che aveva delle vigne sugli ultimi contrafforti delle colline del Monferrato che guardano l’Appennino ligure. Lui lo imbottigliava in giornate in cui “il vento portava gli effluvi dell’essenza del mare”: una sua frase che ripeteva spesso e che non si poteva confutare, pena la perdita della sua amicizia. Era un po’ speciale indubbiamente, ma era veramente un grande cuoco il “Pirata”.

Una strana scritta sul muro

Lo scoprii a poco a poco, sempre assaggiando nei tre giorni di fine settimana le sue specialità di mare e mi lasciai convincere della necessità di accompagnarle con il suo Cortese. Diventammo amici e l’amicizia lo spinse ad aprirsi sempre di più e a raccontarmi la storia della sua esistenza. Un fatto in particolare mi colpì. Quello che il “Pirata” aveva appreso da un vecchio contadino del posto: l’esistenza di una strana scritta che era vergata su di una parete della sua cantina. Una scritta che, secondo il “Pirata”, si riferiva a un avvenimento risalente al Medioevo. L’entroterra ligure è conosciuto per le storie che raccontano di streghe, di feste sabbatiche, di pratiche spesso in contrasto con la liturgia cristiana del tempo. Sembra che verso la fine del Seicento esistesse in loco una comunità appenninica dedita alla pastorizia e che a causa dell’isolamento in cui era costretta, praticasse una liturgia delle feste alla maniera propria, trasfigurando tradizioni e trasformando immagini con una particolare predilezione per i banchetti e le feste orgiastiche.

Un menù dedicato

Una di queste feste si teneva ogni anno, in corrispondenza dell’equinozio del 21 marzo ed era conosciuta come “il carnevale degli antichi dei”. Nessuno ha saputo dirmi il perché di questo significato, anche se abbastanza intuitivo. Esistono però alcune tracce circa l’usanza del cibo che veniva consumato in quell’occasione. Una traccia è proprio quella cui ho fatto riferimento poco prima. Su una parete della cantina della trattoria del “Pirata”, in un angolo tenuto con ogni accortezza possibile, quasi fosse un prezioso affresco, si leggeva una labile scritta vergata sicuramente in tempi molto remoti: “vina quid turgit Tarus sed echinum fuit… abnormen…”. Non credo che nessuno abbia tentato, neppure minimamente, di interpretare queste parole scritte in un latino pressappochista. Forse possono anche essere state frutto di uno scherzo. Fatto sta che il “Pirata” non le ha mai considerate uno scherzo. Anzi, giurava che si riferissero a una festa tradizionale che aveva le sue ben precise connotazioni inserite addirittura nel menù che in quella festa si usava. Il menù immaginario o vero che fosse, lui lo aveva trasferito in uno dei suoi piatti che forse meglio sottolineavano la sua grande interpretazione per la cucina di mare.

I ricci di mare

Lui, la scritta la interpretava così. Durante quella festa doveva scorrere una grande quantità di vino, paragonabile alla quantità dell’acqua del fiume Taro. Una quantità considerevole non soltanto di vino, ma anche di… E qui stava il tocco magico del “Pirata”. Quell’“echinum” della scritta murale stava, secondo lui, per il nome latino nientemeno dei “ricci di mare”. Infatti, il nome dei prelibati ricci di mare, se guardiamo nei testi scientifici, è proprio “echinus” seguito dalle altre diverse desinenze a seconda della specie. Da questa ricorrenza che il “Pirata” giurava risalisse al Medioevo e di cui non si riusciva a comprendere come facessero quei montanari a procurarsi i frutti di mare, nasceva proprio nei venerdì di grazia il piatto che ancor oggi mi commuove e che non ho mai più potuto assaporare nonostante lo avessi ricercato ogniqualvolta mi ero trovato in località di mare famose per la loro cucina.

La ricetta misteriosa

Sublime metamorfosi di questi echinodermi che il “Pirata” magistralmente trasformava in sugo e serviva con degli spaghetti fatti con le sue mani. Non ha mai voluto dirmi la ricetta e io decine di volte ho tentato inutilmente di carpirgliela. Usava le gonadi dei ricci femmina, nel periodo della loro riproduzione, dopo averle tenute a bagno naturalmente nel suo Cortese. So di certo che mescolati, c’entravano dei pinoli, del basilico, del timo, del mallo di noce, del pomodoro e ovviamente dell’olio vergine di oliva che un suo amico produceva e chissà quali altre diavolerie. Il risultato era come un quadro michelangiolesco, annaffiato da un Cortese fresco al punto giusto e che asciugava la caraffa troppo rapidamente.

Una giornata indimenticabile

Un giorno, trasportato dall’entusiasmo, gli proposi un carico di ricci di mare a patto di portare alcuni amici per far loro assaggiare il famoso piatto. Fu così che un giorno organizzammo una pescata. Con quattro amici con i quali solitamente ero uso fare delle immersioni, ci dedicammo alla raccolta dei ricci lungo la Riviera Ligure di Levante. Riempimmo due gommoni di quei preziosi echinodermi e li caricammo sui nostri due fuoristrada. Nel primo pomeriggio giungemmo dal “Pirata”. Era giorno di riposo, ma noi lo avevamo avvertito del carico che trasportavamo. Fu un giorno indimenticabile. Mangiammo i ricci crudi per antipasto con tartine imburrate. Naturalmente seguirono gli spaghetti conditi con quel sugo indimenticabile e poi ancora ricci annaffiando il tutto con fiumi di Cortese. Rimanemmo a dormire dal “Pirata”. Nessuno di noi se la sentiva di affrontare la strada del ritorno a casa. Quella “zingarata” la chiamammo, anzi fu proprio lui a chiamarla il “carnevale degli antichi dei” e noi fummo tutti d’accordo. Tanto d’accordo, che per alcuni anni a seguire, ogni estate, in un giorno di riposo della sua trattoria, andavamo a pescare una montagna di ricci per ripetere quel giorno di “solo mare”, laggiù tra le pendici del Maggiorasca che scendono brulle verso la Val di Taro, informandoci prima se il carro del Cortese fosse arrivato.

Il “Pirata” un giorno partì. Dissero che un “carro” lo aveva trasportato lontano, lì nella terra dov’era nato e che sapeva del profumo dei “ricci”.

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