
Scesa dalle nuvole, rimaste all’altezza di 22.000 piedi, sto osservando come “stanno le cose” a fior di terra. Sì, a fior di madre terra, di colei che ci nutre con le sue eterne bellezze e i suoi benedetti frutti, in ogni stagione dell’anno, nonostante l’uomo fatichi a capire come seguire i suoi ritmi: accompagnarla, abbracciarla quando si sente debole, asciugarle le lacrime quando piange, accarezzare la sua fronte durante le sue continue doglie, difenderla quando sta per arrendersi, prenderla in braccio per dimostrarle la sua forza e la sua tenacia, rispettarla come madre, sorella, figlia, amica e donna. L’uomo si vanta di tutto questo, perfetto nelle sue parole, nella sua demagogia, esprimendo il significato di “quello che è stato detto sembra già fatto”, ma continua a nascondersi dietro le quinte (perché nessuno se ne accorga), a forzare i propri ritmi, a promuovere i propri interessi, a costruire valori temporanei e transitori, sulle rovine delle certezze naturali, diventando una minaccia per il futuro della terra e della sua stessa esistenza. Invece di tutelare il mondo che lo circonda, accecato e ingordo, l’uomo si impone con forza e potere e sprofonda nelle sue interne oscurità, privando il mondo della ricchezza dei suoi colori, facendolo diventare grigio, monotono, destinato a un solo fine: il profitto a tutti i costi. Sembra che niente possa fermarlo. È preoccupante.
Offesa alla libertà
Se leggo i giornali, mi colpiscono all’istante “le notizie dal fronte”; anzi, dai fronti. Di guerre carnefici di sé stesse, dove le vite umane diventano numeri e dove la vita perde ogni senso. Ma non tutti sono in perdita. Esistono esseri tra noi che ci guadagnano sopra: incredibilmente scorretti, schifosi e maligni, sotto gli occhi dell’intera umanità. Ci sono, poi, guerre e guerre. Non tutte sono uguali e non tutte colpiscono. Non so se colpisca ancora l’articolo 11 della Costituzione italiana (una tra le più belle del mondo) che dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Ce ne siamo dimenticati? Dell’offesa alla libertà.
Se navigo sulle reti sociali (mi capita spesso, per ragioni di lavoro), mi domando ogni volta che cosa ci faccio ancora lì. Oltre ad alcuni profili e pagine interessanti, di amici del resto; la maggior parte di quel mastodontico corpo interattivo è saturo di facilonerie, spesso ingannevoli, favorendo la vanità dell’uomo a scapito dell’arcana saggezza.
Se finisco davanti al piccolo schermo, non riesco più a digerire i suoi programmi. Perdonatemi. Oltre a quei pochi documentari che parlano della vita sul nostro Pianeta, creati, più o meno, per condividere o distribuire conoscenze, il resto serve a divertire ad ogni costo e mi fermo sul “de gustibus”.
Se parlo con le persone, la maggioranza mormora, brontola, si lamenta di tutto e di tutti. Mi sembra di essere circondata da tanti visi storditi, inespressivi, con gli occhi spenti dal malessere, dall’avvilimento, dal carico dei problemi, dall’indifferenza, dall’egoismo o dall’impotenza di reagire, rinunciando alla vita. Sembra che questo nostro tempo abbia dei gravissimi problemi, irrisolvibili, i peggiori della storia umana.

Foto: MIRTA TOMAS
«Ti esti?» ovvero «Che cos’è?»
Ma è davvero così? Siamo arrivati a un punto di non ritorno oppure…?
Ci vuole un pensiero forte a cui appoggiare la risposta. Questa volta sono ricorsa agli antichi, più precisamente alla scuola di Atene dove ho incrociato la domanda TI ESTI? Che significa “Che cos’è?”. Appartiene a quello scomodo “rompiscatole” di Socrate, il quale cercava con essa di far ragionare i suoi interlocutori. La domanda è diventata nel tempo un vero e proprio algoritmo. Permettetemi una digressione: un algoritmo, parola che sembra al 100% greca, ma non lo è. Non vi sembra un po’ araba? A causa di quell’“al” iniziale. Ma no, dovrebbe essere di origine greca anch’essa, come il pensiero filosofico, del resto. E invece, araba lo è; di arabo possiede la metà della struttura: il cognome del matematico Al-Khuwārizmī, mentre l’altra metà spetta al greco arithmós. Insieme hanno dato alla luce una nuova parola, un nuovo termine – algoritmo. Bei tempi, quando ci si incontrava senza scontrarci. E nascevano cose belle e buone. Succede anche oggi, ma non se ne parla. Come non si parla tanto più dei classici. Anzi, si evita di parlarne perché si tratta di anticaglie, di roba vecchia. Da gettare e dimenticare. Da dimenticare, appunto, e così ce ne siamo dimenticati. Ecco perché le cose stanno come stanno. Abbiamo dimenticato che le saggezze degli antichi, provenienti da diverse culture, possono fondersi perfettamente quando si incontrano. Oltre agli scontri, ai conflitti, alle guerre, la storia narra anche questi episodi, o meglio, processi di condivisioni, scambi e unioni. Non c’è bisogno di argomentarli: la storia ce li rivela e noi, se vogliamo vederli, li vediamo; se vogliamo comprenderli, li comprendiamo; se vogliamo testimoniarli, li testimoniamo. Se vogliamo.
Fusione di culture
Continuo con un pensiero audace: diciamo che la scuola di Atene può arrivare a delle interessanti rivelazioni protraendosi verso le savane dell’Africa occidentale. Non sarebbe la prima volta: diverse culture trovatesi in contatto creano amalgami delle loro sapienze, come del resto, nel caso della parola stessa di algoritmo. Al primo algoritmo socratico, di natura interrogativa, mi faccio avanti e gli affianco un altro algoritmo come risposta: IRIONOR, ovvero “È così com’è”; a Benin City direbbero “Na so e be” oppure nella “lingua franca moderna” “That’s the way it is”.
Irionor, una parola strana e straniera. Forse. Il significato, invece, ci è noto. Da dove arriva codesto? Rispondo subito: da un luogo vicinissimo al mio cuore, dalla codesta terra africana. Dalla terra africana e dalla cultura del popolo Esan, che abita anche nell’antica città di Benin City. Ebbene, avete notato da tempo che non esiste articolo in cui non la menziono – la terra africana. La terra di inumerevoli culture e altrettante saggezze. E poi, non ce la faccio proprio: fa parte oramai del mio essere quotidiano, visto l’impatto ricevuto dalla forza resiliente della gente e della terra “concupita, incompresa e sorprendente”, come la definisce nel suo libro Federico Rampini. La terra e il continente – “oggetto di manovre altrui”. La terra che sta diventando il futuro del mondo per la sua forza vitale, la più importante tra le risorse dell’umanità.
Parlando di altrui e altri, mi sovviene il pensiero di don Lorenzo Milani, nell’apertura di una delle sue lettere: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Sono pensieri espressi circa sessant’anni fa, eppure mai così attuali.
Don Milani non si è mai fatto indietro nella lotta per i diritti dei diseredati e ha espresso i suoi pensieri, con due parole: “I care!”, in una lingua che non è la sua. Parole semplici, ma di un significato profondo, che in italiano potrebbero essere espresse con un “mi importa” o “mi preoccupa”, o meglio, “io ci tengo”. Lui si riferiva ai suoi ragazzi emarginati, senza scuola e senza diritti a costruirsi un futuro. Anche oggi possiamo trovare casi simili, ma sono casi. In Africa non esistono casi. Si tratta di veri e propri eserciti di bambini e giovani, frutti depravati di una società che non si prende cura dell’abbandono scolastico, traditi dalle istituzioni della stessa società. Ma la società non è solo quella locale, che da sola fatica a organizzarsi. È molto più grave: la società è quella globale e siamo coinvolti anche noi.

Foto: MIRTA TOMAS
La diversità come ricchezza
Ecco perché ci tengo: se aiuto un bambino a completare la propria educazione: per primo, non ho tolto niente a nessuno, a un altro bambino. Al contrario, aiutando il primo, aiuto anche l’altro, perché gli faccio sapere e gli faccio capire quanto è fortunato a vivere in una società che ancora gli può garantire un’educazione di qualità, in condizioni ottimali e con opportunità che gli spalancano le porte del progresso. Eppure, li diamo per scontati questi privilegi che stiamo vivendo; non ce ne accorgiamo e vogliamo di più, sempre di più, ma lo vogliamo solo per noi. Degli altri ci importa poco o niente. Spero di avere torto. Vorrei capire il perché di tanta indifferenza e insofferenza al giorno d’oggi, verso gli altri o verso popoli altrui. Vorrei capire quelle menti chiuse e quei cuori ostinati e la loro arroganza quando denigrano, condannano e ripudiano l’altro soltanto perché è diverso. La diversità dovrebbe portare all’apertura e non alla chiusura. Ci insegnano, nelle nostre scuole che la diversità oggi dovrebbe essere vista e trattata come una ricchezza nel mondo e qui vorrei sottolineare l’importanza della biodiversità, del plurilinguismo, del multiculturalismo. Sono valori promossi anche nella vita pubblica, politica, accademica. Sono all’ordine del giorno: la diversità e l’inclusione. Ce ne dovrebbe importare.
Sono dei valori che esprimono la bellezza del vivere insieme in questo mondo. Il grande Dostojevski scrisse nel suo “Idiota” la celebre frase “La bellezza salverà il mondo”. Simbolico rimane il titolo del romanzo, come anche la frase che nella sua completezza esalta la bellezza della vita, dell’amore che è la sostanza della vita e ci spinge fino all’estremo del sacrificio redentivo. La bellezza va scoperta, va custodita e va diffusa. Se ci teniamo davvero, dopo averla individuata, il nostro compito è quello di liberarla, di mostrarla al mondo. Questo significa portare la LUCE della bellezza, illuminare luoghi bui e cupi dove la luce non c’è. Il mondo ha bisogno di luce che illumini gli animi, che accenda gli sguardi, che porti sorrisi sui visi delle persone e che apra i cuori alla verità. È ancora possibile? Se non ci proviamo, non lo sapremo mai.
In tal modo, all’algoritmo Irionor aggiungiamo l’algoritmo Luce: della bellezza interiore, della sapienza e dell’amore verso l’altro.

Foto: MIRTA TOMAS
Lezioni africane
Una triennale esperienza di intervalli africani, vissuti durante le ferie estive, in una scuola dal nome Accademia della Luce Vivente, gradualmente rivela che la luce della bellezza interiore risiede non solo in quei meravigliosi sorrisi innocenti dei bambini. La luce la portiamo anche noi e proprio noi, originari dal continente che è parzialmente responsabile di quell’“irionor”. Le due luci si fondono in un legame continuo di “causa ed effetto” reciproco, che si instaura al primo incontro di sguardi, sorrisi e abbracci, senza aver pronunciato una parola. Si è venuto a creare un rapporto di fiducia profonda, una reciprocità di affetti tra persone che si incontrano o forse non si incontreranno mai in realtà, ma sanno che le loro esistenze rimarranno per sempre intrecciate.
Così una bambina, abbandonata alla nonna, può continuare a frequentare la scuola, quella della Luce Vivente. Un ragazzino della terza media, ha un grande cuore che batte per lui in Croazia e lo stesso vale per la sua compagna di classe. Le gemelle nella seconda elementare continuano a essere supportate e seguite dai loro sponsor. Rachael, la studentessa modello, l’unica di cui dico il nome, può contare sempre su ogni tipo di sostegno, dalla Croazia. Ad altri due bambini ci pensano anche due care persone di Zara. La lista dei bambini indigenti è lunga, sempre in crescita. Le condizioni globali sono mutevoli, la crisi economica ha raggiunto tutti gli angoli del mondo e si ripercuote in modo estremo negli ambienti definiti quelli del terzo mondo. Chi ne soffre di più, sono i più fragili, i bambini. Oltre il fatto acclamato e citato negli ultimi anni dall’Unicef, in Nigeria più di 20 milioni di bambini sono fuori dal sistema scolastico (il 40% circa). Alle sofferenze già presenti, che riguardano la denutrizione e malnutrizione cronica, si aggiungono nuove, sempre più gravi e assolutamente non paragonabili a nessuna che affrontiamo noi nel Vecchio continente.
Alla fine, ricordiamoci che all’eterna domanda TI ESTI? Si può rispondere con IRIONOR, ma non ci si arrende perché siamo tutti portatori di LUCE e senza luce non c’è vita. Per nessuno.
*docente del Dipartimento di Studi Italiani dell’Università di Zara
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