Dall’ombra alla luce

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Dall’ombra alla luce

A Maurizio Bait
Alla periferia nord di Budapest, lungo il Danubio che scorre ossessivo verso la pianura pannonica, sorge un edificio dall’architettura azzardata, squadrato, di forma irregolare, con un vestibolo in vetro che a sera si illumina a tal punto da richiamare l’attenzione dei passeggeri appena partiti dalla stazione ferroviaria di Ferencvaros, ex quartiere industriale della capitale magiara. I treni diretti a Kelebia e a Novi Sad, superati gli scambi del sezionamento, virano all’improvviso verso sud e, come bastimenti, navigano a fil di terra il mare Pannonico, immenso, monotono, fino al primo approdo, vale a dire fino alle colline della Fruška Gora, a 300 km da qui e già in territorio serbo. L’edificio squadrato, più noto come Müpa, ospita la più grande sala concertistica dell’intera Ungheria; è l’ultimo appiglio, l’ultima isola di luce per chi decida di lasciare Budapest e di dirigersi verso sud. Müpa occhieggia dai finestrini dei treni di passaggio per scomparire all’improvviso, inghiottita dal buio o, di giorno, dalla luce solare che acceca la pianura e che all’orizzonte confonde il cielo con la terra.

Frontiera interiore

Stasera l’umidità del Danubio ha allentato la presa; stasera è possibile camminare dal centro della città fino a Müpa senza che le cartilagini delle ginocchia si congelino e inizino a dolere. Per quanto gli inverni dell’Europa Centrale non siano più rigidi come trent’anni fa, le temperature in inverno scendono ancora sotto lo zero. Le pareti esterne della sala da concerto si colorano di viola, blu e giallo. I led di giorno invisibili si illuminano dal tramonto fino all’alba e conferiscono dinamicità all’intero edificio, che sembra muoversi nella notte pannonica lungo il fiume; le luci di Buda, la parte della città a destra del Danubio, sono invece statiche e vibrano solo in intensità a causa della lieve instabilità tipica dell’atmosfera terrestre, in un tremolio simile a quello delle stelle. Sul palcoscenico, i musicisti della Gürzenich Orchestra Sinfonica di Cologna prendono rapidamente il proprio posto. Diretti dal maestro François-Xavier Roth, eseguiranno la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Fu proprio questa orchestra a eseguire per la prima volta la Quinta a Cologna nell’ottobre del 1904. Mahler aveva composto quello che viene considerato il suo capolavoro circa 3 anni prima, nel suo cottage a Maiernigg, località non lontana da Klagenfurt che all’epoca, proprio come Budapest, faceva parte dell’impero austro-ungarico. Maiernigg si trova sul Wörthersee, il lago che, come ben annota il giornalista italo-sloveno-austriaco Maurizio Bait, “è la frontiera interiore ed effettiva fra il rigoroso mondo tedesco e il mutevole vento slavo che sale dal sud”. Esattamente qui finisce l’Europa Centrale e cominciano i Balcani. Mahler era un uomo che di frontiera aveva l’animo. Era infatti nato in Boemia, a Kalište, in un paese che attualmente si trova in Repubblica Ceca.

Coragggiosa ribellione

Di famiglia ebrea, aveva lasciato la provincialissima città natale dopo aver perso tragicamente alcuni fratelli e in un disperato atto di coraggiosa ribellione: non tollerava più il padre violento che troppo spesso batteva la madre, la quale, come spesso accade in queste circostanze, non osava protestare, vittima probabilmente di un senso di colpa a spirale che la teneva indissolubilmente legata al proprio aguzzino. Il giovane Mahler trovò lavoro come direttore d’orchestra ad Hall, una località termale dove i legami sessuali promiscui erano più apprezzati degli accordi musicali. Il maestro di Mahler, il celeberrimo compositore Anton Bruckner, non si dimenticò mai dell’allievo e spedì ad Hall una cartolina con il motto di un famoso proverbio austriaco: “Durch Nacht vorwärts zum Licht”, ovvero“Attraverso la notte verso la luce”. Aggiunse le note del trio della marcia di un’operetta di Suppé, le cui parole suonano più o meno così: “Tu sei matto figlio mio, tu devi andare a Berlino”. Mahler, che ad Hall era caduto in una profonda depressione, era ancora troppo giovane per sapere che il momento più buio è sempre quello antecedente all’alba. Di lì a poco fu trasferito a Lubiana, all’epoca Laibach, dove lavorò come Kappelmeister, per poi andare a dirigere, fra gli odi invidiosi dei suoi rivali, l’Opera di Vienna. “Dall’ombra alla luce” è anche la trama tematica della Quinta Sinfonia, un’opera che può essere definita di frontiera perché segna il passaggio da un metodo compositivo classico, melodico, a un approccio esclusivamente sonoro: dalla Quinta in poi, infatti, la musica di Mahler darà importanza ai timbri e ai toni degli strumenti e sarà caratterizzato da vere e proprie macchie di suoni in movimento, senza contorni ben definiti, a creare forti suggestioni, come le nuvole basse nelle giornate di passaggio fra la bassa e l’alta pressione, che cambiano continuamente fattezze e percorrono velocemente la volta celeste. Sono, come la musica di Mahler, l’emblema del divenire. Nelle quattro sinfonie successive alla Quinta, il musicista raffinerà a tal punto questa sua caratteristica compositiva da arrivare a inserire – involontariamente – degli elementi atonali, rintracciabili soprattutto nella Nachtmusik della Settima Sinfonia. La musica di Mahler si colloca alla frontiera fra il mondo classico e il ‘900. Mahler utilizza gli elementi della tradizione musicale, da quella antica a quella classica (nelle sue mattinate a Maiernigg, prima di cominciare a comporre, ricopiava come uno scolaretto diligente le partiture di Bach per poterle comprendere meglio), li fa cozzare ed esplodere: le sinfonie di Mahler sono una lapide sulla tomba del passato musicale europeo e un primo passo verso quello che il compositore Franco Evangelisti definisce “un nuovo mondo sonoro”: la dodecafonia e tutta la musica colta contemporanea.

Rompere gli schemi

Già la sola disposizione dei musicisti sul palcoscenico fa capire che siamo di fronte a una rottura con la consuetudine concertistica occidentale: i violini sono a destra e al centro rispetto agli ascoltatori, i violoncelli a sinistra, i fiati sembrano disposti a caso. Ciò comporta un cambiamento dell’acustica e della diffusione del suono in sala. Il concerto si apre con un gesto deciso del maestro François -Xavier Roth che dà il via alle note lugubri accennate dalla tromba: è il Primo Movimento, una marcia funebre (sulla partitura è riportata la dicitura: “A passo misurato, come un corteo”): finisce un’epoca, finisce l’Impero austro-ungarico, si va verso la Guerra. Del mondo moderno e della Belle Époque ormai al tramonto Mahler celebra il funerale. Il Secondo Movimento, Tempestoso mosso, fa gelare i polsi agli ascoltatori: è il naturale prosieguo della Marcia Funebre, i toni sono cupi, i temi sono affidati principalmente ai contrabbassi e ai violoncelli e vengono scanditi dalla grancassa e dai timpani. Il secondo movimento è un oscuro presagio, attraverso le cui tinte terrificanti è possibile intravvedere i drammi che attendevano il ‘900: il colonialismo, le due guerre mondiali, il nazionalismo, l’odio razziale, che oggi torna a serpeggiare lungo le strade dell’Europa Centrale e non solo; coperto dalla melassa buonista e appiccicosa dell’ideologia neoliberista, subdolamente nascosta all’interno dei profili facebook e instagram dove il senso della vita sembra ridursi a un infinito e animalesco godimento sensuale, l’odio ricompare sotto forma di insofferenza nei confronti del diverso.

Laboratori consumistici

I paesi dell’Altra Europa come l’Ungheria sono diventati nuovi laboratori consumistici per le multinazionali occidentali, che hanno volontariamente fatto coincidere l’ordinamento democratico con l’ideologia del comprar roba. Chi vuol arricchirsi si arricchisca, con ogni mezzo; per gli altri, vale a dire per il 90% della popolazione, ci sono solo frustrazione, insoddisfazione e, nei casi migliori, qualche lavoro malpagato nelle aziende occidentali delocalizzate a est della vecchia cortina di ferro. L’ignoranza, poi, ha contribuito a trasformare lo scontento sacrosanto degli sfruttati in odio, ancora una volta indirizzato verso il diverso: l’Ungheria del premier Viktor Orbán ha costruito un muro alla frontiera con la Serbia per impedire l’ingresso dell’Altro in fuga dalla guerra e dalla miseria (un muro prima condannato dall’UE e poi benedetto dai suoi governi, anche da quelli liberali, anche da quelli benpensanti di sinistra: perché Orbán è stato criticato ma Croazia e Slovenia che hanno seguito l’esempio dell’Ungheria chiudendo le proprie frontiere con il fil di ferro non hanno ricevuto alcun rimprovero, né formale né informale?).
Orbán, al fine di rafforzare il proprio potere, ha approfittato della situazione per creare un clima di odio interno verso tutto ciò che è differente: non solo lo straniero, anche il povero è diventato un bersaglio privilegiato. Una legge dello Stato, infatti, impedisce ai barboni di dormire in strada, ma la miseria non si può eliminare con un semplice provvedimento governativo: i sottopassi della metropolitana di Budapest sono ancora pieni di senzatetto, che però sembrano non disturbare troppo le migliaia di turisti che vengono da queste parti vomitati dagli aerei a basso costo che collegano l’Ungheria con le principali città dell’Europa occidentale. Budapest offre divertimenti economici, prostitute poco care (sono per lo più studentesse di provincia che si mantengono agli studi) e il mito di un impero inghiottito nel giro di pochi giorni dal nonsenso della Storia.

Una città rifatta

Negli ultimi dieci anni, la città è stata completamente ristrutturata a misura di turista, con piani regolatori davvero efficaci e con il rafforzamento della rete dei mezzi di trasporto pubblico, che è una delle migliori in Europa. A pagarne le spese, però, è stato il resto dell’Ungheria: le regioni occidentali si salvano grazie al turismo dentale e alla vicinanza con l’Austria, dove molti pendolari vanno ogni mattina a lavorare, ma le province meridionali e quelle orientali sprofondano nella disoccupazione e nella miseria, come ben mostra il film “A Woman Captured”, girato nel 2017 dalla regista Bernadett Tuza-Ritter. In Ungheria è rimasto un solo quotidiano libero, gli altri mezzi di comunicazione sono tutti controllati dal governo. Lo ricorda indirettamente anche il maestro François-Xavier Roth, che alla fine del concerto asserisce di essere stato davvero contento di aver potuto suonare una sinfonia di Mahler a Budapest: “Fino a 80 anni fa, in Ungheria e in Germania autori come lui e Felix Mendelssohn erano praticamente dimenticati a causa della loro origine ebraica”, asserisce il maestro fra gli applausi del pubblico. Il Secondo Movimento della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler parla di tutto ciò, trasforma in suoni le angosce di un tempo che tanto somigliano a quelle contemporanee: anche il nostro mondo sta rapidamente cambiando come quello europeo di inizi ‘900 e i segnali premonitori non promettono certo pace e tranquillità per il futuro. Eppure, Mahler era un artista che credeva profondamente in Dio e nel Bene. “Durch Nacht vorvwärts zum Licht”: La luce arriva con il Terzo Movimento che è uno scherzo giocoso, piacevole, neutro, che si conclude con sonorità squillanti (Non più i violoncelli ma i flauti e gli oboi) e lascia spazio al celeberrimo Andantino, reso popolare perché scelto da Luchino Visconti come colonna sonora per il suo film “La morte a Venezia”. In realtà, quello che è da sempre considerato il manifesto musicale del decadentismo, è un canto d’amore per Alma Schindler, la futura moglie di Mahler e poi, dopo la morte del compositore, donna di molti altri. Il manifesto del tramonto dell’Europa è in realtà contenuto nella Sesta e nella Settima Sinfonia, scritte a cavallo del tragico 1907, l’anno in cui Mahler perse la figlia Putzi, di soli 5 anni – a cui lui e Alma erano molto affezionati – e gli fu diagnosticata un’insufficienza cardiaca che lo avrebbe portato, da lì a pochi anni, alla morte, avvenuta nel 1911.

Luce che acceca

L’ultimo movimento della Quinta è un allegro a tratti furioso, a tratti dolce e sensuale: è l’arrivo pieno alla luce, quella che acceca fino a far male. L’ascoltatore attento nota però delle dissonanze nevrotiche a rovinare la gioia, degli accordi che un profano potrebbe definire stonati. Era la fede in Dio di Mahler che vacillava, dopo tante tenebre? O forse Mahler sapeva che anche la luce, soprattutto dopo le scoperte di metà e di fine Ottocento, non è quella che per secoli abbiamo pensato che fosse? Quelle stonature sono forse un semplice fenomeno di rifrazione oppure sono la trasposizione musicale dell’effetto Faraday, ovvero di quel particolare gioco magnetico-ottico che avviene quando la luce interagisce con un campo magnetico. Mahler ha chiuso un’epoca e ne ha aperta un’altra, piena di dubbi, paure e incertezze. A Budapest, la sua musica vecchia di cent’anni ha miracolosamente tratteggiato le ansie e le insicurezze del nostro tempo.
A circa 5000 km dall’Ungheria, e a 50 anni dalla morte di Mahler, un reporter mitteleuropeo – nato come Mahler in un paese di frontiera, la Polonia orientale, in un’area che come la Boemia cambierà presto appartenza per diventare Bielorussia – percorreva in lungo e in largo l’Africa. Voleva descrivere la situazione relativa al processo di decolonizzazione in atto in quel continente a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Il nome di quel giovane giornalista era Ryszard Kapuściński. Una coscienza critica, la sua, che ha impedito all’Europa di rimuovere, in senso psicanalitico, la vergogna e la violenza del colonialismo; nei reportage e nei libri dell’autore polacco, l’Occidente vede sé stesso nel ruolo del carnefice e deve fare i conti con questa scomoda realtà. Da un punto di vista materiale ed etico, il colonialismo non fu un crimine di dimensioni inferiori al Nazismo e all’olocausto. Hitler non ha fatto altro che applicare sul territorio europeo (e non fuori di esso, come era avvenuto fino agli anni ’30 del secolo scorso) quello che gli stessi europei facevano da secoli lontano da casa loro: deportazioni, segregazioni in base alla religione e al colore della pelle, dominazione militare ed economica.
In Africa, la notte arriva all’improvviso ed è estremamente buia. Kapuściński ne aveva paura, ma amava aspettare l’ora tarda in cui, all’improvviso, tutto il paesaggio circostante scompare nelle tenebre e il buio inghiotte anche il minimo barlume di luce, persino il flebile luccichio delle stelle. Sapeva che a quell’istante avrebbe fatto seguito il momento più abbagliante dell’Africa: l’alba.

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