Da Tadini al Camerun via Parigi. Ma è l’Istria il mio mondo

Chiacchierata con il connazionale Antonio Simonetti. Una vecchia pietra ritrovata nell’orto racconta la storia e gli usi

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Da Tadini al Camerun via Parigi. Ma è l’Istria il mio mondo

L’Istria a volte nasconde patrimoni e persone che svelano un ricco passato ed esperienze uniche. Siamo stati a Tadini per incontrare Antonio Simonetti e svelare la storia di un ritrovamento più unico che raro: un vecchio gabinetto. La chiacchierata è stata un punto di partenza che ci ha riportati nel passato della penisola, alle migrazioni dei mestieranti friulano-carnici, ad aspetti demografici che, per molti versi, riflettono la contemporaneità e i corsi della storia. Ma è stato anche un incontro che ci ha portati ad altri Paesi e a conoscere altre civiltà.

Antonio Simonetti è molto attento alla storia, alla cultura e alla civiltà del nostro territorio. Alcuni, nel rinvenire questo masso di pietra strano, forato nel mezzo, avrebbero fatto una scelta diversa e magari il reperto sarebbe andato perso per sempre. Evidentemente quella pietra ha risvegliato qualche cosa nella sua mente, per cui ha deciso di conservarla, sorprendendosi nell’apprenderne la funzione. L’abbiamo incontrato nella sua casa di Tadini.

“Mentre si lavorava con la scavatrice nell’orto – ha esordito il nostro interlocutore – emerse casualmente dal suolo questo strano corpo litico, bucato nel mezzo, lavorato in pietra bianca di Castellier. Sul momento non ne avevo colto l’uso, che ho capito soltanto qualche tempo dopo, visitando il Castello di Pietrapelosa. Lì, infatti, ce n’era uno uguale, era un gabinetto. È stato così che compresi l’uso del reperto da me rinvenuto. Questo gabinetto ha una lunga storia, certamente lunga più di 200 anni e precedente all’arrivo dei Simonetti a Tadini. Originariamente si trovava in una casa a fianco della nostra”.

Antonio Simonetti.
Foto: DENIS VISINTIN

Che cosa ne ha fatto del reperto?

“L’ho sistemato nell’orto, impiantando nella foratura una lavanda: fungerà d’attrazione alla casa, che diventerà una villa turistica”.

Lei l’ha recuperato; qualcun altro magari l’avrebbe accantonato.

“Per fortuna, ho visto quello di Pietrapelosa, altrimenti forse anch’io, pensando trattarsi d’una pietra comune, l’avrei usato per altre cose”.

Un servizio… pubblico

Questi gabinetti, talvolta anche lignei, rimasero in uso fino al secondo dopoguerra, in alcune aree dell’entroterra istriano addirittura fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Talvolta erano in funzione dell’intero villaggio. L’introduzione dei servizi igienici nelle case ha rappresentato un progresso sociale, dovuto a una maggiore circolazione di denaro nelle campagne e allo sviluppo della rete idrica, fino ad allora limitata alle fontane pubbliche che si trovavano nelle piazze e lungo le strade delle località. Negli abitati maggiori i servizi igienici entrarono nelle case negli anni Cinquanta – Sessanta.

“Le cose cambiarono con la costruzione dell’acquedotto nei villaggi. Tadini era molto ricca e la terra era fertile. E così pure tutta la zona di Castellier. Per questo, quando nel 1955 giunse l’acqua in paese, si diffusero subito, tra chi non li aveva, i gabinetti e le fosse biologiche. Queste testimonianze vanno conservate, perché rappresentano importanti segni del progresso e dell’emancipazione sociale della nostra civiltà passata”, conferma Simonetti.

La via Flavia romana

“Per Castellier e per Tadini c’è un’altra cosa importante da comprendere e da valorizzare – prosegue Simonetti –. Nelle vicinanze passava la via Flavia romana, lungo la strada che oggi collega le due località a Verbanovizza, sulla sponda sinistra del Quieto. Grazie a questa strada che in epoca romana collegava Trieste e Pola, si sviluppò anche l’area di Castellier. In passato il fiume era navigabile fino a Gradole; dopo c’erano le secche. Sotto l’area di Gradina, c’è una baia chiamata tuttora Porto, o Porat. Il che significa che fino lì, anche in epoca veneziana, giungevano le imbarcazioni. Il porto era un punto commerciale importante per la gente di Castellier, di Visinada e di Pinguente che, anche durante il Regno d’Italia, giungeva lì con gli asini. In questo punto passava la via Flavia, che poi proseguiva verso Buie. La via Flavia fa parte della nostra cultura e il suo percorso andrebbe indicato in modo adeguato. Così pure il tratto di Parenzo, visibile sott’acqua nella baia di Peschiera. Ho invitato le autorità di Castellier a farlo per il tratto che intessa il loro territorio. Quando invito i turisti provenienti dal settentrione europeo, privo di una cultura millenaria come quella istriana, a percorrere la via Flavia romana, s’entusiasmano molto”.

Le origini carniche

Abbiamo parlato di storia. Anche la sua famiglia ne ha una alle spalle. Il cognome Simonetti esiste tuttora in Friuli. Ci svela qualcosa della sua storia familiare?

“Il primo Simonetti giunto a Castellier fu mio bisnonno Pietro, giunto nel 1831. Di mestiere faceva il muratore. Inizialmente giunse da solo, ma una volta sistematosi, fu raggiunto dalla moglie e dai due figli. Uno di questi era mio nonno. Abitava a Castellier nella casa che oggi si chiama “Petrov dvor” (Corte di Pietro), dal nome del bisnonno. La casa inglobava allora la stalla degli animali, cosa per l’epoca del tutto normale. Mio nonno prese in moglie una vedova di Tadini. Anche lui era muratore, così come mio padre. A Tadini, come pure a Castellier, la terra è fertile, non è sassosa, per cui mio nonno si dedicò pure all’agricoltura. Anche suo fratello faceva il muratore”.

Indagando sulla storia familiare, ha visitato i luoghi d’origine dei Simonetti?

“Sono stato in Carnia, a Moggio, vicino a Udine, ma anche a Moggiasca, nella montagna carnica, dove ho incontrato dei Simonetti. Come mi disse l’allora parroco di Moggio, i Simonetti giunsero lì dalla Toscana, da dove erano fuggiti all’epoca della peste. Le terre di pianura in Friuli erano occupate e allora se ne andarono in montagna, in Carnia. Lì non era possibile occuparsi d’agricoltura: la Carnia era una regione povera, al massimo si coltivava un piccolo orto e ci si occupava dell’allevamento di pecore. La Carnia allora era isolata, priva di strade. Per cui molti abitanti si dedicarono all’edilizia. Durante la stagione andavano a lavorare fuori dalla Carnia, cosa questa comune a tutti i mestieranti di quell’area. In Istria giunsero molti lavoratori stagionali carnici, poi fermatisi qui definitivamente, tanti erano muratori. Fu così che mio bisnonno giunse a Castellier, portando più tardi qui la sua famiglia. Mio nonno rimase qui, sposandosi, come si suol dire ‘sulla roba’, a Tadini, nel 1870. Io praticamente rappresento la quarta generazione dei Simonetti arrivati a Castellier, la seconda nata a Tadini”.

I suoi erano muratori e agricoltori. Lei ha intrapreso un percorso professionale diverso?

“Io sono ingegnere in elettrotecnica. Ho studiato alla Scuola media di Spalato. Mio cugino Pietro Simonetti, giurista, più vecchio di me, ha studiato a Zagabria e mi propose d’andare a Spalato, dove aveva un amico, a studiare elettrotecnica. Erano gli anni Sessanta e questo studio era considerato un buon investimento nel futuro, garantiva un lavoro sicuro. Dopo la media lavorai per quattro anni al cantiere Scoglio Olivi di Pola, dove feci un’esperienza unica e indimenticabile. Installare l’impianto elettrico su una nave è una cosa incredibile. Imparai molto lavorando nel cantiere”.

La vita l’ha poi portato a Maribor, a Parigi, in Camerun…

“Proseguii gli studi universitari a Maribor, dopo di che mi trasferii a Parigi da mia sorella, fermandomi a lavorare lì per 6 anni. Mi impiegai all’Ericsson, all’epoca la prima al mondo nel settore. Lavoravo alla diffusione delle centrali telefoniche in Francia e in Africa, in Camerun. Un’esperienza anche questa incredibile, che mi ha permesso di vedere e conoscere l’Africa. Alla fine, sono rientrato a Castellier, perché per me l’Istria era il mio mondo”.

L’esperienza all’Ericsson e in Camerun l’ha segnata molto?

“Certamente. Come ho detto, è stata un’esperienza indimenticabile, che d’altra parte m’ha permesso di conoscere altri mondi e di acquisire altro sapere. Ero giunto lì forte dell’esperienza maturata a Scoglio Olivi. Lavorare ai circuiti elettrici sulla nave è molto più difficile che non farlo in una città sulla terraferma. Quella volta le navi avevano radar, radio, sistemi e attrezzature diverse da quelle odierne. Al cantiere lavoravo con persone che avevano iniziato la carriera ancora in epoca austriaca. Sulla nave si lavorava in situazioni climatiche diverse: d’inverno faceva freddo, per cui mentre uno lavorava per cinque minuti al massimo, l’altro si scaldava le mani alla lampada e viceversa. D’estate, poi, in coperta faceva molto caldo ed era impossibile resistere alle calure. L’esperienza fatta al cantiere navale Olivi m’ha aiutato molto all’Ericsson. Dopo un mese d’impiego erano sorpresi delle mie capacità e del sapere che avevo. Trattandosi d’una società internazionale, lavoravo con gente di diversi Paesi, non solo francesi. Avevo una sicurezza operativa di cui tutti si stupivano, acquisita allo Scoglio Olivi. Eppoi le scuole jugoslave allora erano all’avanguardia. In Camerun ho lavorato all’introduzione della prima rete telefonica in quello Stato, a fianco d’ingegneri italiani, statunitensi, inglesi, francesi, canadesi. E quando iniziavo a discutere in merito alla soluzione dei problemi tecnici, tutti mi ascoltavano”.

A un certo punto decise di tornare a casa, dove pure l’elettronica stava prendendo piede.

“Rientrato dalla Francia, andai a cercare lavoro alla Digitron di Buie, appena inaugurata, che produsse la prima calcolatrice tascabile in Europa, alla neonata TV di Capodistria e alla Plava Laguna di Parenzo, che stava affermandosi nel settore turistico. Il lavoro non mancava e tutte accolsero la mia domanda. Infine accettai l’impiego alla Plava Laguna. Allora la Plava Laguna aveva importato dall’Italia delle pompe grandi per collocarle a Gradole. Le prime tre erano state collocate da altri. Io mi occupai della quarta. Forte anche qui dell’esperienza maturata, mi occupai dei lavori e della loro organizzazione, del montaggio, del collegamento, e dell’automazione. Al momento in cui l’azionai per provarne il funzionamento, tutti cercarono un riparo: quand’erano erano state installate le precedenti tre, successe il finimondo. Io invece la montai e l’azionai senza problemi. A Scoglio olivi, a 23 anni, ero l’addetto principale ai test delle grandi navi di 20-30mila tonnellate. Quella volta mancavano ingegneri e io, come tecnico, lavoravo con vari registri navali. Per me montare quella pompa era stato un gioco da ragazzi”.

Praticamente, l’esperienza maturata al cantiere le è stata utile per tutta la vita?

“Il lavoro al cantiere, lo ripeto, era fisicamente molto difficile, anche se facevo parte del gruppo degli operai specializzati. Per i lavori fisici c’era anche altra manodopera non specializzata, proveniente dalla Bosnia ed Erzegovina e da altre parti dell’ex Jugoslavia, all’epoca mancante. Una situazione che si riflette anche adesso per esempio nel turismo, dove mancano camerieri; figuriamoci allora nella cantieristica navale”.

Oggi, come ha detto lei, succede la stessa cosa, per quanto riguarda la manodopera. Se osserviamo da vicino la situazione istriana, qui sta giungendo gente da tutte le parti. La storia, quindi, si ripete?

“L’Istria è una Regione incredibile. Da sempre qui s’incontrano tre tra le più importanti culture mondiali: la romana, la slava e la germanica. Soltanto su questo piccolo fazzoletto di terra, in tutto il mondo, s’incontrano queste tre grandi culture, da nessun’altra parte. Perciò rappresentiamo il centro dell’Europa”.

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