
C’è da chiederci in queste prime settimane del nuovo anno, in concomitanza con l’avvio del secondo semestre scolastico, cosa rischiano i nostri figli lungo il tragitto che li porta a scuola o ancor meglio quali sono le insidie che si possono verificare dentro le mura dell’istituto che dovrebbe assicurare loro serenità oltre che un’istruzione di qualità e la possibilità di sviluppare rapporti sociali e amicali equilibrati, presupposto fondamentale per la loro crescita. Purtroppo, non è così. O per essere più precisi non ovunque. Le notizie relative a violenze perpetuate su allievi, insegnanti, personale ausiliario, che arrivano dal mondo della scuola, sia in Croazia che altrove, sono sempre più spesso inquietanti e riflettono un po’ tutto il disagio della società che poi si riversa sulla scuola, sui più piccoli e i più deboli. Per affrontare l’argomento partiamo da un caso concreto che ha riempito le prime pagine dei quotidiani croati nell’ultima decade di dicembre.
La fine del 2024 è stata infatti contrassegnata da una tragedia consumata all’interno di una scuola elementare, quella di Prečko a Zagabria. Il 20 dicembre, praticamente alla conclusione del primo semestre, poco prima delle 10 un diciannovenne, già in cura per disturbi psichici ed ex allievo dell’istituto, ha aggredito una maestra e 5 persone. Nel tragico evento un bambino di sette anni ha perso la vita, mentre tre ragazzini e la maestra, la quale ha cercato di difendere un allievo, nonché lo stesso aggressore, sono rimasti feriti. Un attacco vero e proprio a cui i ragazzi e il personale docente non erano assolutamente preparati. Dopo l’attacco, il giovane è fuggito in un vicino centro per la salute mentale, dove si è autoinflitto ferite con un coltello. La polizia lo ha rapidamente rintracciato e arrestato ed è stato prontamente ricoverato presso l’ospedale “Sveti Duh” sotto sorveglianza. Il 21 dicembre è stato proclamato il lutto nazionale.
La prima reazione è stata la paura, poi lo sgomento, poi la rabbia. Si poteva evitare? La risposta è certamente sì, a condizione che in quella scuola fosse stato applicato un preciso e generale protocollo di sicurezza. Quest’episodio di cronaca apre una serie di importanti questioni sulla sicurezza delle nostre scuole e sugli strumenti di cui queste dispongono per far fronte a possibili atti di violenza che mettono a repentaglio sia la vita degli allievi nelle scuole, che quella degli insegnanti e del personale ausiliario. Il Ministero croato dell’Istruzione e le istituzioni preposte alla salute mentale dei giovani si rendono conto che questa è solo la punta di un iceberg e che il problema della violenza giovanile permea in profondità tutto il tessuto sociale. Per uscirne si dovrà lavorare parecchio, soprattutto sulla prevenzione.

Protocolli, norme e la loro applicazione
Ci sono documenti importanti che sono stati prodotti per offrire agli operatori scolastici un supporto nel caso si verificassero casi del genere, ma scritto sulla carta il documento ha un significato, vivere la tragedia in prima persona è tutt’altra cosa. Non si può dire che il Ministero dell’Istruzione non si sia impegnato e non abbia cercato di offrire degli strumenti in favore della sicurezza, lo ha fatto in passato lo ha fatto pure ora.
Infatti il giorno 2 gennaio è stato approvato e pubblicato il “Protocollo sul controllo di ingresso e uscita dalle istituzioni scolastiche”. Questo prevede che gli istituti debbano essere chiusi a chiave e aperti solo per permettere l’ingresso e l’uscita degli allievi: il tutto sotto la supervisione di personale tecnico già impiegato a scuola. Il problema è che il compito di controllare ricadrà, in attesa di soluzioni alternative, sulle spalle di bidelli, segretarie e solo in alcuni casi degli addetti alla security mobilitati ad hoc.
Tra i vari compiti loro assegnati dal Protocollo c’è pure quello di controllare, qualora si verificasse la necessità, borse, zainetti e abiti indossati, in modo da evitare che venissero introdotti oggetti e strumenti atti ad offendere, ferire, insomma oggetti illegali. Ma un bidello o la donna delle pulizie possiedono le qualifiche necessarie per portare a termine un compito così importante e delicato, di grande responsabilità senza avere una previa abilitazione? E qui la polemica, manco a dirlo, rischia di portarci a diatribe da cui non si esce.
Sempre il succitato protocollo prevede l’istituzione di un team per la sicurezza di cui faranno parte il dirigente scolastico, il pedagogo/psicologo, l’insegnante, altri dipendenti e un rappresentante dei genitori. Il nostro commento a questa trovata potrebbe essere: facile… troppo facile scaricare il problema all’istituzione che vive già grosse difficoltà. In ogni caso, dopo il grave episodio nella scuola in cui si è verificata l’aggressione, si sono mobilitate équipe di psicologi e pedagogisti dando origine ad una task force che ha il compito di accompagnare i ragazzi, sia quelli coinvolti direttamente nell’attacco che altri, preoccupati per la propria sicurezza, in un percorso di superamento del trauma e delle paure. Anche qui per vedere i primi risultati ci vorrà del tempo. Ma di tempo, con l’aria che tira non ce n’è.
Fino alla fine del 2024, in alcuni istituti scolastici l’accesso in alcune scuole (ma non in tutte) era del tutto libero. Da gennaio l’ingresso delle scuole elementari, come già rilevato, medie superiori e case per lo studenti sono chiuse, come previsto dal Protocollo approvato dal Ministero per l’istruzione. Inoltre, le portinerie che non dispongono di un sistema interfonico ne verranno dotate in modo da poter comunicare e vedere la persona che suona al campanello. L’ingresso per i genitori sarà su appuntamento e durante i riposi a vigilare sulla sicurezza dei ragazzi saranno sia gli insegnanti che il personale tecnico, affiancati in alcune scuole da addetti alla security che però non saranno armati.
Le misure adottate dagli istituti
L’amministrazione della città di Zagabria ha già predisposto e impiegato aziende addette alla sicurezza che forniranno un servizio di vigilanza continuativo davanti a tutti gli istituti scolastici della capitale, complessivamente 116, nonché in altre 146 sedi dove vengono svolte attività legate al processo educativo istruttivo e competenti istituzioni. Ma parliamo, nel caso della capitale, solo di scuole elementari, le Medie Superiori ovvero i Ginnasi, gli Istituti professionali e gli asili per carenza di personale rimangono, nel momento in cui scriviamo, scoperte. Nel frattempo a Zagabria verrà bandito un concorso per l’assunzione di personale addetto alla sicurezza. Probabilmente anche altre città seguiranno questa strategia, inclusa la videosorveglianza, tesserini per l’ingresso a disposizione di studenti e insegnanti.
Una mano è stata fornita anche dalla polizia che, in accordo con le unità dell’amministrazione locale, pattuglia alcune scuole, ma si tratta, in questo caso, di una misura di emergenza che non potrà perdurare nel tempo. Ad ingaggiare le aziende preposte alla security in prima battuta sono state oltre a Zagabria, la città di Dubrovnik (Ragusa) e Pola. I dirigenti scolastici che hanno provveduto ad applicare quanto richiesto dal Ministero in materia di sicurezza si pongono una domanda, fondamentale: i nostri ragazzi saranno costretti a vivere in una situazione di “ingabbiamento”, sorvegliati a vista, controllati all’ingresso? Potranno muoversi liberamente nei giardini delle scuole e nei cortili? Quante persone li dovranno sorvegliare durante i riposi? E anche qui non c’è una risposta precisa.

Pitacco: «Le nostre sicurezze si sono frantumate»
“Abbiamo vissuto in passato con la consapevolezza, errata, convinti che tutto ciò riguardasse ‘gli altri’ e contesti a noi molto lontani. Abbiamo continuato a pensare che da noi una cosa del genere, nel nostro Paese, non sarebbe potuta accadere perché qui viviamo tranquilli e da noi non c’è criminalità. Invece, proprio poco prima di Natale, la nostra certezza del ‘non può succedere’ ci è crollata addosso frantumandosi in mille pezzi… e ora stiamo raccogliendo i cocci! Purtroppo è successo anche a noi!” – rileva la prof.ssa Patrizia Pitacco, titolare del Settore istituzioni prescolari, scolastiche e università in seno alla Giunta Esecutiva di Unione Italiana, riflessione che in un certo senso raccoglie il pensiero di tutti coloro che operano nelle nostre scuole. “Quanto successo, purtroppo, è il risultato di un forte disagio (per il momento non ancora collettivo) del singolo individuo. Non oso pensare ai genitori della giovane vittima in quanto qualsiasi cosa direi avrei timore di mancare di rispetto per il loro dolore. Tutti i provvedimenti di questo mondo non potranno far tornare indietro il tempo né la vita che è stata tolta!
Come sempre in casi e situazioni del genere si portano provvedimenti, ed è estremamente importante agire con saggezza e buon senso. In alcuni commenti relativi al Protocollo è stato espresso il dubbio che le scuole sarebbero diventate delle prigioni. Nulla di più falso! Anche se non posso negare che analizzando il documento e la sua applicazione alla lettera, gli alunni, in particolare gli adolescenti, potrebbero sentirsi come dire… ‘ingabbiati’, in cui i loro movimenti e spostamenti sarebbero comunque, anzi lo sono, sorvegliati.
Non possiamo non considerare che ogni scuola ha più entrate, che è un ente pubblico e in quanto tale è aperta al pubblico ed è difficile mantenere il controllo e il monitoraggio di tutti i punti di accesso agli spazi esterni e a quelli interni, sempre entro il perimetro scolastico. Non dobbiamo dimenticare che ogni classe lavora con il proprio orario e ci sono molte attività integrative svolte anche da soggetti esterni. Chi pensa che il Protocollo voglia limitare la circolazione a scuola, sbaglia. Non si vuole limitare il movimento, ma semplicemente avere un maggiore controllo” – rileva la prof.ssa Pitacco
La ricerca della serenità tra i banchi
Le scuole della Comunità nazionale italiana in Croazia (14 istituzioni prescolari, 11 scuole elementari e 4 medie superiori) si sono adeguate ed hanno applicato le norme, mettendosi in linea con quanto indicato dal Protocollo. “Va precisato però che, rispetto alla media nazionale, le scuole CNI sono istituti con un numero minore di alunni, situate in edifici di media grandezza e lavorano in unico turno; a parte Fiume e Pola, si trovano in centri più piccoli dove la vita sembra scorrere con maggiore tranquillità e serenità. Nelle nostre scuole ci si conosce bene e di persona e dunque soggetti sconosciuti vengono individuati prima rispetto a realtà più grandi e con maggiore circolazione di persone. Qui il Protocollo è stato applicato senza troppe difficoltà e le scuole sono riuscite a mantenere il clima di famigliarità che ne contraddistingue l’operato come pure accoglienza che si respira in ogni scuola. Un simile contesto dà sicurezza e serenità e questo è uno dei presupposti per ovviare alla sensazione di disagio permanente che regna in alcuni contesti e in alcuni giovani”, rileva la prof.ssa Pitacco.
“Se si pensa che con il Protocollo il problema sia stato risolto, allora non ci si rende conto di quello che sta accadendo e di quello che è il mondo dell’infanzia e dei giovani, il mondo della crescita e dell’età evolutiva. Siamo tutti consapevoli che quello che è successo è il risultato di una situazione che ha le proprie radici in un periodo molto precedente all’accaduto. Il comportamento del giovane che ha commesso l’atto efferato non ha giustificazioni, ma è il risultato di un disagio, di un malessere che non è isolato a singoli individui, ma si sta diffondendo. Parliamo di fragilità giovanile e di che cosa possiamo intraprendere per aiutare i nostri giovani.
Le scuole devono continuare ad essere ambienti accoglienti per tutti, per i discenti in primis, per le loro famiglie e anche per chi ci lavora. L’accoglienza dà sicurezza e benessere nel senso di stare bene, non un benessere materiale, ma uno emotivo e funzionale a livello esistenziale. Inoltre, prima di imparare a parlare, dobbiamo imparare ad ascoltare e a sentire quello che l’altro ci dice. In questa società dove tutto scorre veloce intorno a noi, dove siamo letteralmente bombardati, spesso addirittura aggrediti dalle informazioni di ogni genere, abbiamo perso la capacità di ascoltare e di sentire quello che l’altro ci sta dicendo. In particolare noi maestri dobbiamo essere più attenti nell’ascolto”, conclude la prof.ssa Pitacco.
La tragedia a Belgrado
Il triste episodio di Zagabria ci fa ricordare un’altra tragedia consumatasi nel maggio del 2023 a Belgrado, nella vicina Serbia. Uno studente 14enne ha sparato la mattina del 3 maggio con una pistola, sottratta al padre, contro i suoi compagni di classe e i professori. Tra le le vittime 8 compagni di scuola e un addetto alla security, mentre diversi sono stati i feriti. L’eccidio si è consumato nell’istituto scolastico “Vladislav Ribnikar”, nel quartiere centrale Vračar della capitale serba. Il ragazzo, allievo al settimo anno della scuola primaria, ha aperto il fuoco con una pistola che l’inchiesta ha poi confermato si trovasse in casa. Il giovane è stato fermato dalla polizia intervenuta a scuola.
Il processo è stato abbastanza lungo e appena il 30 dicembre dell’anno scorso l’Alta Corte di Belgrado ha emesso il verdetto di primo grado nei confronti dei genitori del ragazzo che ha commesso l’omicidio di massa giudicandoli colpevoli e condannandoli a pene detentive da 3 a 14,5 anni. Il padre Vladimir Kecmanović è stato condannato a 14,5 anni di carcere per negligenza infantile oltre che per aver messo a repentaglio la sicurezza generale, mentre sua moglie Miljana a tre anni per un reato grave contro l’incolumità generale, l’incuria e abbandono nei confronti del minore, per possesso illegale di armi e munizioni.
Il minorenne K.K., che al momento del delitto aveva meno di 14 anni, non è responsabile davanti alla legge ed è sotto sorveglianza speciale in un istituto psichiatrico. Il processo è stato chiuso al pubblico per tutelare gli interessi delle vittime minorenni. Nemanja Marinković, istruttore del poligono di tiro dove il padre portava il figlio per insegnarli a sparare, è stato condannato a 15 mesi di carcere per aver rilasciato false dichiarazioni. Il proprietario del poligono Ratko Ivanović, che ha patteggiato con la procura, la Corte lo ha ritenuto colpevole di falsa dichiarazione e lo ha condannato agli arresti domiciliari per una durata di sei mesi.
I Balcani occidentali sono stati inondati da centinaia di migliaia di armi illegali a seguito delle guerre e dei disordini degli anni ‘90. Nel 2019, è stato stimato che ci fossero 39,1 armi da fuoco ogni 100 persone in Serbia: un dato che pone il Paese dietro solo a Stati Uniti e Montenegro in questa pericolosissima graduatoria.
Se le autorità preposte alla sicurezza non si muoveranno e non lavoreranno sulla prevenzione, episodi come quelli descritti potrebbero perpetuarsi nuovamente. E a pagarne l’alto scotto non sarebbero solo le vittime ma la società intera.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.
L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.