Mauro Stipanov, pennellate d’infinito

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Mauro Stipanov, pennellate d’infinito

Come ha scritto Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961), fra gli iniziatori del movimento artistico del Novecento, “L’arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza”. Sono parole che si attagliano anche a lui, pittore di periferie inospitali eppure imponenti come cattedrali moderne, di una loro valenza metafisica, pura astrazione, emblema del dramma dell’uomo contemporaneo. Composizioni robuste, molto vicine a Romolo Venucci, suo estimatore. E all’allievo più famoso di quest’ultimo, Mauro Stipanov. Classe 1952 a Fiume, nato in una famiglia di pittori, la sua formazione artistica inizia proprio nell’ambito dei corsi di disegno e pittura di Venucci; poi un soggiorno di studio alla “Pietro Vannucci” di Perugia nei primissimi Anni Settanta; nel 1980 la laurea all’Accademia di Belle Arti di Venezia, sotto la guida del prof. Carmelo Zotti. In seguito, si perfezionerà all’Accademia di Belle Arti di Brera e a Parigi, alla Cité Internationale des Artes. Nel corso della sua carriera ha allestito più di settanta mostre personali, ha partecipato a oltre duecento collettive sia in Croazia che all’estero, ricevendo premi sia a livello nazionale che internazionale, tra cui il premio di pittura alla XVI Biennale dei giovani artisti della Jugoslavia del 1987 e il Premio Città di Fiume del 2000. Si dedica all’arte e all’insegnamento (è docente dell’Accademia di Arti Applicate di Fiume). Dall’esordio espositivo nel 1972, presso l’allora Circolo Italiano di Cultura di Fiume, ne è passata di acqua sotto i ponti. O, in questo caso, sarebbe più opportuno parlare di fiumi di colore, che hanno invaso centinaia e centinaia di tele e tavole. Considerata uno dei maggiori conoscitori di Venucci, la professoressa Erna Toncinich – critico d’arti figurative, pittrice e ceramista, collaboratrice della nostra rivista, scomparsa nell’ottobre 2015 –, non ha mai nascosto la sua stima (potremmo anche parlare di predilezione) per Stipanov, da lui ritenuto uno dei migliori “pennelli” nel panorama artistico della Comunità nazionale italiana, e non solo. 
Tornare nello studio di Mauro Stipanov, in una palazzina fin de siècle in Riva Bodoli, è un’esperienza singolare, un viaggio in un labirinto tappezzato di quadri e citazioni disseminate in ogni angolo. Questa volta, in primo piano, la “Giungla della vita”: 280 tasselli ispirati a Charles Darwin, tra volti di pensatori, scienziati, artisti, scrittori, personaggi noti e sconosciuti, amici, teste di scimmie, mani, occhi, atomi e altri elementi. Un campionario impressionante, che compone un discorso poetico e filosofico singolare, affascinante e imponente – ancora da completare –, che segue il “ciclo della morte”, raffigurato dai teschi-mummie e dal dialogo con i “Canti” di Giacomo Leopardi.

Lavoro intimistico

Era il dicembre 2014 quando Stipanov presentava questi paesaggi riflessivi. Quattro anni dopo, altri paesaggi si materializzano davanti ai nostri occhi, tra forme architettoniche, scorci e panoramiche della città, nature urbane, il cielo sopra Fiume, il Monte Maggiore e l’isola di Cherso, i cirri, strati e cumulonembi sotto l’effetto dalla bora, della pioggia, del sole, del tramonto… Stipanov vive intensamente l’ambiente – che l’arte contribuisce a rendere più bello –, osserva criticamente l’assenza del verde nel centro, si dispiace per il fatto che un’area come quella di Scoglietto e di via dell’Acquedotto non sia stata valorizzata come naturale proseguimento del Corso. 
La “passeggiata” – come titola la retrospettiva di Mauro Stipanov al Museo Civico di Fiume (visitabile fino al 28 febbraio) – si arricchisce di giochi coloristici e luministici d’effetto, mentre il colloquio con l’artista diventa conversazione a tutto campo sulla sua produzione, sull’arte, su una città. Lo spunto è la mostra al Museo Civico – curata da Ema Makarun –, nuova tappa della collaborazione tra l’ente e la Comunità degli Italiani di palazzo Modello e il Civico. Sulle pareti, 45 anni di attività che riassumono sia l’evoluzione dell’artista che quella della città. Un centinaio di opere inedite, che Stipanov teneva chiuse nel suo atelier – quelle più significative non ha mai volute venderle e le ha custodite in ogni dove, persino nel bagno –, realizzate tra il 1973 e il 2018, prevalentemente per soddisfazione personale – un lavoro intimistico, libero da speculazioni artistiche –, spinto soprattutto dalla necessità di rilassarsi da quella parallela e intensa produzione artistica che lui definisce come “seria” e “impegnativa”, prevalentemente astratta. Un tema però che non ha mai abbandonato, fin dagli anni ’67-’68, quando muoveva i primi passi. Il talento non tarderà a emergere e a essere riconosciuto: una sua veduta di Fiume dal balcone della casa di un amico a Cosala, vince al Concorso d’Arte e di Cultura “Istria Nobilissima” del 1971 e viene regalata dal presidente dell’allora Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, Luigi Ferri, al presidente della Regione Friuli Venezia Giulia.

Mauro Stipanov per certi versi ritorna al paesaggio e lo fa con una produzione anche forte, una vena creativa molto intensa e molto diversa dai precedenti due cicli. Che cosa la spinge a ritrarre queste vedute di Fiume?

“A dire il vero, un interesse per il paesaggio l’ho avuto da sempre sin dagli inizi, seguendo i corsi di pittura e disegno guidati da Romolo Venucci. Oltre la natura morta e il ritratto che amavo tanto, il paesaggio era il soggetto che mi affascinava di più perché la costruzione architettonica della superficie del quadro mi dava più opportunità espressive in pittura. Ricordo che dalla fine degli Anni ‘60-inizio ‘70 giravo spesso per la città alla ricerca di motivi. Allora la pittura in plain-air era importante e Venucci ci invitava a lavorare sempre dal vero.
Nel tempo, a intervalli più o meno lunghi, ho coltivato sempre questa passione e, la scorsa estate, quando invitai il direttore del Museo Civico in studio, gli feci un allestimento delle opere, proponendogli una mostra. L’idea gli piacque l’idea e così partimmo. Mi ero proposto di allargare i lavori con le vedute più attuali, come i grattacieli e le zone più periferiche della città. Più tardi, verso la fine dell’estate, si sono aggiunte le cosiddette vedute aeree. Probabilmente alla base della scelta del paesaggio sarà anche in quell’aspetto nostalgico e non speculativo che giace in ognuno di noi, scevro da ogni calcolo di carriera artistica e rigore intellettuale, a favore di una certa poetica libera…”

Molto trascurata

Come vede la città oggi, la sua architettura, in particolare quella contemporanea, dagli anni Cinquanta in poi?

“Fiume a mio avviso, anche per la posizione geofisica che ha, poteva essere una delle città più belle. Purtroppo, e specialmente dagli inizi degli anni ‘70, c’è stata una devastazione sia urbanistica che architettonica. Pochissimi sono gli esempi positivi. Non esiste una critica propositiva, intelligente, per cui gli spropositati e le inadeguate soluzioni urbanistico-architettoniche si susseguono una dopo l’altra. Intanto la città sta diventando sempre più brutta. Alcuni anni fa venne a trovarmi un amico dall’Università di Udine e gli chiesi come trovava la città. Rispose: ‘molto trascurata’.”

Le rocce, i platani, Fiume… Inevitabile il riferimento a Romolo Venucci e alle sue vedute. Quanto Venucci c’è in queste opere? Si può leggere un segno di amore nei confronti della città, e dunque potremmo parlare di un percorso affettivo? Oppure è un discorso meramente artistico, di indagine pittorica ed esercizio creativo?

“È chiaro il riferimento per quel che riguarda la tematica a Romolo Venucci, per il resto ho cercato di farlo alla mia maniera, anche allargando il concetto di paesaggio. Per quel che mi riguarda, non è il grande amore verso la città che mi muove, ma verso la pittura. Credo che Venucci pensasse la stessa cosa. La Cittavecchia per lui era un pretesto. Se mi riusciva di stabilirmi a Bologna o Milano, come volevo, dopo gli studi a Venezia, avrei probabilmente dipinto quelle città o probabilmente fatto altro. Il destino ha voluto che andasse diversamente”.

Segno, colore, materia

Le opere esposte sono riconducibili perlopiù all’espressionismo. La sua ricerca stilistica in quale direzione si sta muovendo?

“Ormai di stili e tendenze è impossibile parlare. Il mio lavoro ha da sempre spaziato entro quel cerchio chiamato espressionismo, sia astratto che figurativo. In pittura ho dato sempre il predominio inconsciamente al segno, all’impasto del colore, della materia e soprattutto al tocco quale caratteristica. La Grande pittura in senso evolutivo, secondo il mio punto di vista, è terminata con l’espressionismo astratto di Rothko alla fine degli Anni ’50. Gli artisti, anche grandi, hanno continuato a lavorare, ed è giusto così. Oggi l’arte è diventata mero spettacolo e limitata in quel che Pascal chiamava ‘divertissement’. Ormai è la tecnica che indica, guida e predomina il nostro fare, il nostro poetare”.

Arte e filosofia

Come pensiero filosofico cita spesso Emanuele Severino, un pensatore molto tenace, e, come artista, Mario Sironi, entrambi alla ricerca della verità della storia dell’uomo e della fatica del vivere. Che cosa in particolare la colpisce dell’uno e dell’altro?

“Una quindicina di anni fa, quando iniziai a insegnare all’Accademia di Fiume, anche per poter fare di più con gli studenti, come pure per un’ inclinazione personale, mi sono rimesso a leggere testi di filosofia e filosofia dell’arte. Dopo un po’ scoprii Emanuele Severino e notai come lui più di qualsiasi altro tramite i suoi scritti e lezioni riusciva a portarmi con il pensiero all’essenza e la radice delle cose, elaborando un pensiero finora sconosciuto. È stato lui che mi ha condotto a fino a Leopardi e alla mostra che feci nel 2016. Quindi decisi di scrivergli, dopo di che ebbi con lui dei brevi ma per me significativi contatti. È un filosofo impegnativo, difficile da seguire anche per i conoscitori della materia. Invece Mario Sironi è il mio preferito tra i pittori del ‘900 italiano. L’ho sentito da sempre molto vicino, anche per come usava il disegno e la pittura. Un grandissimo, penso che influenzò anche Venucci”.

Si sta dedicando alle nuvole e al cielo di Fiume… che cosa l’attira di questo soggetto?

“Il cielo, con tutte le sue variabilità impensabili e irraggiungibili in un certo senso anche metafisiche, simboleggia l’assoluto, l’assoluta libertà espressiva e soprattutto l’infinito”.

La morte, inizio e fine

Sin dai tempi di Hegel, pensatori e artisti hanno annunciato l’arrivo della “morte dell’arte”. Siamo giunti al giorno in cui l’arte è diventata obsoleta e ormai superata? E, se è davvero così, come si è arrivati a questo punto? A suo avviso è poi un punto di non ritorno?

“È una domanda difficile alla quale bisogna rispondere a più livelli. A parte Hegel, che spiega molto bene, quasi in una maniera incontrovertibile, la sua morte collegandola con la morte della rappresentazione dell’idea nella forma del Dio e suddividendola nelle famose fasi del periodo Simbolico-Classico-Romantico, c’è Benedetto Croce, che da qualche parte disse che sarebbe venuto il tempo in cui tutti sarebbero stati degli artisti (prova a dire a qualcuno col telefonino che scatta una foto che non lo è?), e c’è la cosiddetta scuola di Francoforte, che già ottant’anni fa parlava di industrie creative.”
“Per secoli si è cercato il bello assoluto. Oggi ormai non è una meta da perseguire. La tecnica, ormai, da mezzo del quale ci servivamo per realizzare degli scopi è diventata uno strumento egemone. Ma poi, l’arte cos’è? Come si è evoluta nei secoli? Nei millenni? Chi sono gli artisti? Secondo me i primi artisti erano quei personaggi della preistoria che lavoravano la pietra, essendo allora un’attività difficile e di vitale importanza. Oggi sono forse quelli che lavorano sui computer e mandano navette spaziali nello spazio cosmico. Per parafrasare Emanuele Severino, il primo Dio era il ‘Demiurgo’ il (lavoratore) per il Demos, e l’ultimo Dio sarà il Dio della tecnica. Però se accettiamo che alla base del concetto della morte dell’arte stia la parola Morte, allora è chiaro che è la Morte alla base di tutto. La Morte e il Dolore. Secondo me è da questa consapevolezza che viene il lavoro, di cui la produzione di visioni del mondo, della poesia e dell’arte che ci aiuta a ripararci dalla paura”.

L’arte è inutile?

“L’arte è una parola. Bisogna vedere cosa c’è dietro questa parola. L’arte secondo me è una delle tecniche, come lo scrivere, il linguaggio, la parola, la matematica, la musica, il canto ecc. Tutte queste tecniche, attività, hanno come scopo esprimere le sensazioni e dei pensieri. Nei secoli, è stato l’uomo il protagonista di questo compito, spessissimamente anche educativo e sociale. Oggi, invece, è la tecnica il vero protagonista, lasciando invece all’uomo l’illusione del ruolo di soggetto che porta le decisioni. Probabilmente in futuro si trasformerà, anzi la trasformazione è già in atto da decenni. E se un giorno l’uomo raggiungerà l’immortalità, in quel momento l’arte scomparirà del tutto. Intanto io nel mio piccolo continuerò a dipingere l’Infinito”.

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