
Venire al mondo in una piccola comunità con il dito puntato contro, dalla nascita, perché figlio o figlia di stranieri, non è il massimo della vita. Vedere poi quei tanti occhi che ti circondano, incuriositi e tutte quelle bocche sempre avide di avere più informazioni per spettegolarci sopra, con le domande tipo: Chi è tua madre? E tuo padre? Hai fratelli? Sorelle? I tuoi lavorano? Ma perché non avete una macchina? Ma tua madre lavora? Aggiungendo commenti: Aah, che belle scarpine! Sicuramente vengono dall’Italia. Chi te le ha mandate? Tua nonna? Tua zia?
I due libri verdi, grandi così
Se volete proprio sapere, alle scarpine è legata una storia molto triste. Almeno per me. Me le aveva comprate mio papà. Nella mia città natale. Non in Italia. Era l’unico che lavorava in famiglia, orgoglioso di poter sorprendere “la sua piccola” con un regalo speciale. Erano bianche e nere: i colori della Vecchia Signora per cui ancora oggi tifano i miei ragazzi. Questo lo dovevo scrivere, per amor di patria. Frequentavo, allora, la seconda elementare. Ecco la storia: un giorno qualunque, alla fine delle lezioni, quelle belle scarpine le avevo trovate tutte tagliuzzate, nell’armadietto delle scarpe fuori classe. Mai saputo chi fosse stato. Forse qualcuno più grande, che non poteva portarle perché aveva il piede troppo lungo (mi viene in mente una delle sorellastre di Cenerentola) e allora giù con le forbici. Non ho mai capito e mai capirò la causa e l’intensità di tanto astio, di tanta invidia, che ancora circola nei paraggi. Sarà stato forse qualcuno che pensava: se non posso averle io, non le avrai più nemmeno tu. Quanta cattiveria espressa con quel gesto. E quanta tristezza. Non ero arrabbiata. Ero solo triste. Anche oggi, quando subisco delle cose false o ingiuste, rimango solo profondamente rattristata. E cerco di uscirne facendo qualcosa di bello e buono. Poi, la tristezza se ne va. Per ritornare, perché ecco che si presenta un altro episodio, spesso e volentieri raccontato dai miei, svelando la mentalità di un gruppo sociale vicino. Entriamo in un pomeriggio qualunque: siamo con la maestra della terza A, insieme ai genitori che commentano o contestano i voti, insoddisfatti. Uno ha il coraggio di dire: “È facile per quella là (ero io) sapere tutto, quando hanno a casa due libri verdi, grandi così. Mio padre, che è presente, alza lo sguardo e sorride. La maestra, allora, chiede a mio padre: “Ci vuole dire, signore, che cosa sono quei due libri verdi, grandi così?”. E mio padre risponde: “Sono dei semplici vocabolari: uno è italiano-croato e l’altro è croato-italiano”. Allora anche la maestra sorride e ringrazia mio padre. Gli altri genitori ammutoliti, non capiscono a che cosa servano quei dizionari. Sono dei libri, dei semplici libri. I “due libri verdi grandi così” sono ancora vivi, un po macchiati dal tempo, dall’aria vissuta perché in uso costante da due sorelle, in ogni situazione, fino alla fine delle superiori. Poi, finiscono sulla mensola dove stanno anche i loro “colleghi” inglesi e russi. Ancor’oggi li sfoglio e le loro vecchie pagine mi raccontano degli studi, degli sforzi, delle lacrime, delle pagine strappate, dei brutti voti, ma anche dei risultati soddisfacenti, del successo e della buona, anzi, ottima riuscita alla fine.
Mi rifugiavo spesso in qualche posto all’ombra, sola soletta, da dove potevo osservare come si sviluppavano le varie storie intorno a me. Lo faccio ancor’oggi, quando la situazione me lo permette. Quando mi sento a disagio, fuori luogo, preferisco la quiete della lettura, dello studio o dei miei pensieri che mi portano in altri mondi o mi riportano in un mondo tutto mio.
Mamma mia, che bella che era quella sensazione liberatoria quando tornavo a casa da scuola. Finalmente! E correvo da mamma dicendo: “Mamma, parliamo in italiano!”. La mia lingua materna. E paterna, pure. La lingua che mi ha insegnato a sorridere, a piangere, a chiedere, a rispondere, a essere gentile e paziente, ad apprezzare le bellezze di questo mondo, a pregare, a sperare, a perseverare e a vincere. Accompagnata da tutte le sue care persone.

Foto: MIRTA TOMAS
Le trecce e i confetti delle nonne
Le persone che ricordiamo con tanto amore sono sicuramente le nonne. Lo sono diventata anch’io, di due creature bellissime, curiosissime, delicatissime e promettenti. Le nonne fanno di tutto per rendere più dolce la realtà dei loro nipoti, in tutti i sensi. A volte li proteggono nelle loro “campane di vetro” e vivono insieme nelle loro favole, creando realtà parallele, a misura dei nipoti. Ho avuto la fortuna di aver conosciuto ambedue le nonne, anche se quella paterna per soli quattro anni. Sono bastati. Il ricordo delle poesie, delle filastrocche in tre lingue diverse, dei giochi che facevamo con le sue mani oramai molto stanche, ma abili a insegnarmi a come fare le trecce. Avevo più o meno quattro anni e le trecce le facevo da Dio, grazie a mia nonna. La nonna che ha segnato la mia vita viveva lontano, ma ogni settimana arrivavano le sue lettere, ogni mese il pacchettino dall’Italia che il postino Šime portava regolarmente fino a casa. Ricordo bene il borbottare del suo motorino e la mia esaltazione al pensiero della lettera o del pacchettino della nonna. In quei pacchettini c’erano le promesse, i sogni e le benedizioni di una donna che nella vita ha conosciuto solo sofferenze e poche soddisfazioni. Riusciva a fare miracoli per i suoi sette nipoti, ma un pensiero particolare era riservato a me che ero la sua prima nipote e alla cui nascita non aveva assistito. Era un legame forte il nostro, perché mi conosceva benissimo nonostante non avessimo vissuto insieme. I primi discorsi sull’intimità li ho fatti proprio con lei. Preziosissimi. Mi veniva naturale confessarle tutti i miei pensieri, le mie domande, i miei dubbi. Lei radiosa, serena e saggia. Le hanno fatto del male nella vita, ma lei ha mantenuto sempre la testa alta. Ne aveva tutti i diritti. Mi ricordo di un pacchettino che mio padre andò a recuperare all’ufficio postale. La nonna aveva mandato delle bomboniere da regalare, in occasione della mia Prima Comunione. Non dimenticherò mai l’espressione che aveva sul viso mio padre quando ha messo il pacchettino sul tavolo: il pacchettino era stato aperto durante il viaggio e il contenuto tutto rotto, pezzi di plastica delle scatoline e i confetti spezzati, ammaccati. Una tragedia. Per di più annunciata, perché all’ufficio postale avevano preso in giro mio padre per quelle “cosucce”. Le “cosucce” erano il risultato dei sacrifici di mia nonna, che voleva rendere la mia vita più serena e gioiosa. Anche l’abito della Prima Comunione era suo, solenne nella sua semplicità, come la sua anima.
Gli ambienti ostili, la testardaggine…
Crescere in un ambiente particolarmente ostile non necessariamente deve portare a esiti negativi. Al contrario! Sono lezioni di vita su come gestire meglio il tempo libero, lontano dalle strane compagnie, spesso con un libro da leggere, nel cortile sotto il vecchio mandorlo. Così il mandorlo è stato testimone delle mie letture di Andersen, di “Alice nel paese delle meraviglie”, ma anche de “Le avventure di Tom Sawyer”, di “Zanna bianca”, de “La figlia delle nevi” e di tanti altri protagonisti di racconti e romanzi che divoravo, seguendo e vivendo tutti i loro destini. Li ho abbandonati molto tardi, i miei personaggi, perché erano il rifugio perfetto da una realtà che non riuscivo ad accettare. Avevo costruito un mondo a parte, un mondo di fantasie, sogni, aspirazioni, convinta di non poterli mai raggiungere. Avevo torto. Adesso lo so.
Ho continuato a vivere, cercando di apparire all’esterno come la società lo richiedeva e mi voleva, custodendo in me il prezioso mondo di desideri, illusioni, speranze, meraviglie, non lasciandolo trapelare. Non è facile gestire due vite in una sola. Si rischia di rimanere incompresi dagli altri e di chiudersi in sé stessi, ritornando spesso ai ricordi passati, rimuginando sul “se avessi potuto” o sul “se fosse andata diversamente”.
Sempre con quella sensazione fastidiosa di non appartenere a nessuno di quei mondi così scomodi, limitati e giudicanti che ti appropriano facilmente un “surplus” di meriti, oppure di colpe, a seconda della situazione che si presenta, sebbene tu voglia soltanto essere lasciato in pace per continuare sulla tua strada, riscoprirti, migliorarti e sentirti utile e vivo.
Faccio un salto di vita e arrivo al momento presente. C’è chi cresce e vive grazie a qualcuno o a qualcosa e c’è chi cresce e vive di stenti, con la forza delle proprie braccia e della propria mente, con la paura di non farcela, ma poi però ce la fa, nonostante tutto e tutti, con perseveranza e con un po’ di testardaggine. Non esiste una via di mezzo, a mio parere. La testardaggine è un tratto caratteriale molto duro e difficile, ma se trasformato in virtù, diventa l’unico modo con cui si affrontano con successo le sfide della vita. Si trasforma in perseveranza e resilienza, con l’aiuto dell’umiltà del pensiero e della natura dell’atto stesso. Quante paure superate, quanti attacchi di panico vinti, grazie proprio a queste virtù.

Lucio Corsi e Nelson Mandela
Non posso non ricordare le parole della canzone del secondo classificato al Festival di Sanremo di quest’anno e vincitore del Premio della Critica “Mia Martini”, un umile e geniale Lucio Corsi, intitolata “Volevo essere un duro”. Mi ci vedo, eccome, nel “vivere la vita è un gioco da ragazzi, me lo diceva mamma ed io cadevo giù dagli alberi”.
Parafrasando i versi che seguono, continuo con la considerazione che il mondo è davvero duro per quelli normali, perché c’è poco amore intorno a noi e troppo sole negli occhiali, quelli dei sognatori. Da sognatrice incorreggibile quale sono, mi sono riconosciuta subito nei pensieri di Lucio, riflettendo: è meglio allontarsi da tutti dichiarando la sconfitta e chiudersi nel guscio dell’abbandono oppure è meglio resistere, combattere, perdere, rialzarsi e continuare perché ne vale la pena? Ne vale la vita. Il grande Nelson Mandela ci ha lasciato in eredità un pensiero in merito: “Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso”. Dunque: arrendersi mai!
Sognatori, poeti e viaggiatori
Scegliere di rimanere sognatore, non è mai facile per nessuno. Comporta sacrifici, condanne, derisioni, umiliazioni fino a ottenere offese e insulti. Molti tra noi fanno scelte radicali, guidati da itinerari di vite difficili, lasciando sogni e sentimenti ai bordi delle strade della vita. A ognuno la propria scelta.
Sulla mia non ci sono dubbi e sono come il sognatore di Oscar Wilde che invece “riesce a trovare la sua strada solo al chiaro di luna e il suo cruccio è vedere l’alba prima del resto del mondo”. Vi assicuro che non esiste stupore tanto ammaliante quanto vedere spuntare l’alba all’orizzonte mentre tutto intorno ancora riposa.
L’energia e la forza di quei primi raggi che emergono dietro le montagne o salgono dalla superficie del mare, a volte colorando per pochi secondi il cielo di porpora, non s’incontrano nemmeno nei leggendari romantici tramonti, affascinanti sì, ma molto affaticati. I sognatori preferiscono l’alba, la conquistano con i loro occhi e ne fanno tesoro nelle profezie del giorno, passando a scrivere versi e poesie, dipingendo quadri unici o componendo melodie nelle quali si riconosce la tenerezza della nascita del mattino. I pensieri viaggiano, si trasformano e passano da una creatura all’altra, suscitando reazioni e conservando impressioni indimenticabili.
Quegli scenari vissuti personalmente o attraverso parole e immagini altrui, restituiscono alla quotidianità la bellezza e l’armonia che ci circondano e che sono celate pure in noi. Riscoprirle significa cercare di prevenire i processi di declino culturale, civile e umano e sono un ottimo rimedio contro l’impotenza e l’assurdità, proposteci dai cinici, dagli indifferenti e dagli strafottenti. Che, con l’andare del tempo, si sono estesi, raggiungendo numeri a livello globale.
Nel secolo scorso e più precisamente 58 anni fa, nel 1967, i Giganti cantavano la loro “Proposta”. Ero piccola, vivevo in una favola, ma mi ricordo quei brutti momenti, i conflitti, le violenze e le guerre di allora. I disegni e le parole dei giovani erano chiari e proponevano agli strafottenti di allora di “mettere dei fiori nei loro cannoni”. La pace di allora è stata difesa e ognuno di noi, piccoli o grandi, poteva continuare a sognare, inventare e crearsi il futuro, alla cui base c’erano i sogni: tutti i nostri sogni.
Dobbiamo fare lo stesso, dopo tanti anni: proteggere i sogni di coloro che stanno arrivando.
Faccio una proposta, usando le parole di Pablo Neruda che parla di favole, ma parla anche dell’indispensabilità di riconoscerle, vederle, spiegarle e viverle insieme.
Con gli altri e non contro gli altri!
Neruda dice: “Ognuno ha una favola dentro che non riesce a leggere da solo. Ha bisogno di qualcuno che con la meraviglia e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti”.
Propongo ai sognatori, ai poeti e a tutti gli artisti e agli artefici della bellezza che leggono queste righe e che sognano la pace di: parlare, leggere, dipingere, comporre, raccontare e urlare la nostra favola dentro. Ora.
Adesso non dico più: “Mamma, parliamo in italiano!”. Dico, invece: “Parliamo di pace!”.
*docente del Dipartimento di Studi Italiani dell’Università di Zara
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