Galeb e la mina che fa tremare

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Galeb e la mina che fa tremare

«I pescatori sanno che il mare è pericoloso e le tempeste terribili, ma non hanno mai considerato quei pericoli ragioni sufficienti per rimanere a terra”. Chissà se quella volta che Van Gogh lo disse, per pericoli intendesse pure i segreti, anche centenari e non sempre piacevoli, che il mare spesso nasconde, rifiutandosi di condividerli con il resto del mondo. E forse questo è un bene. Nel caso che stiamo per raccontarvi, lo è senza dubbio. La storia ci riguarda da vicino, è recentissima e risale al dicembre scorso, quando un sommozzatore solitario, il fiumano Velimir Vrzić, durante una delle sue, spesso spericolate, incursioni, nota uno strano oggetto adagiato sul fondale marino, a una ventina di metri dalla riva, di fronte a una delle spiagge di Pećine a Fiume. Inizialmente non ci fa troppo caso e continua a perquisire con la sua solita perseveranza il tratto prestabilitosi per quel giorno. La sua innata curiosità lo spinge più avanti e per qualche minuto si allontana da quella strana cosa alla quale, a primo impatto, presta soltanto una furtiva occhiata. Forse perché non gli sembra tanto interessante e degna d’attenzione. Si sbaglia. E di grosso. Da bravo ricercatore subacqueo e grande amante della storia, Vrzić quando s’immerge è interessato a cose ben precise, reperti antichi – di cui il mare quarnerino è stracolmo –, che, una volta rinvenuti ed estratti, consegna puntualmente alle istituzioni di competenza, come patrimonio storico-culturale. Il suo è un esempio da seguire per quei singoli che invece fanno l’inverso, facendo propri i cimeli trovati in mare per poi venderli sul mercato illecito, anche a prezzi stratosferici, a fini di guadagno.
Tornando al nostro caparbio sub, l’avventura che vive in quella frizzante giornata di dicembre, in cui il resto della cittadinanza si sta tranquillamente preparando per le imminenti festività di fine anno, è lungi dall’avere a che fare con tesori simili. Sì, perché quello strano oggetto che Vrzić avvista a circa venti metri di profondità, a poca distanza dalla battigia di fronte all’albergo Jadran, è niente meno che una mina navale risalente alla Seconda guerra mondiale e probabilmente collocata in quel punto dalla posamine Kiebitz, l’odierna Galeb, all’epoca di proprietà della tedesca Kriegsmarine. Vrzić capisce da subito che la questione è molto seria. Vabbè, forse non immediatamente, ma in un secondo istante, dopo essere tornato sui propri passi e avere ispezionato per bene, seppur a debita distanza, il grosso ordigno in cui qualche minuto prima si è imbattuto per puro caso. Prova un’emozione fortissima, mista al terrore che quel pericolosissimo aggeggio possa esplodere proprio in quel momento, dopo essere rimasto… calmo e tranquillo per oltre sette decenni. Improbabile, pensa forse, rimanendo paralizzato sul posto per diverso tempo, indeciso sul da farsi. Solo, con quest’infida arma davanti. Una sensazione indescrivibile, che Vrzić si vuole godere appieno prima di capire che cosa fare e in che modo procedere.
impatto pazzesco
Intendendosi di armi da guerra e conoscendo un pochino la storia di queste terre, Vrzić capisce quasi subito con che cosa ha a che fare e che quella che sta fissando è con tutta probabilità una mina da fondo, forse modello EMC, di produzione tedesca. Non può essere diversamente. Questo avrà un impatto pazzesco, ma per il momento me lo tengo per me, è il suo pensiero. Se c’è questa, devono per forza essercene altre qui in giro, valuta poi, ben consapevole che le posamine in epoca bellica, funzionavano in modo tale da collocare interi campi minati in fondo al mare.
Quel giorno in cui ha deciso di immergersi, la visibilità sott’acqua non è delle migliori, ma comunque sufficiente per poter scorgere qualcos’altro, vicino all’arma da lui intravista. Un’altra mina? No, tutt’altro: un carrello d’ancoraggio, che veniva usato dalle navi per fissare gli ordigni a fondo. In quel punto ce ne sono due, il che gli fa logicamente credere che tutt’intorno possano esserci altre mine, forse scivolate più a fondo e pertanto non più visibili all’occhio umano.
Le foto qui pubblicate ci sono state concesse in esclusiva e sono state scattate da Aleksandar Stančin, con il quale il nostro sub si è immerso nuovamente qualche giorno dopo.
“Non riesco ancora a capacitarmi di questa scoperta – ci racconta Vrzić durante un lungo colloquio da lui voluto proprio per rendere pubblica la faccenda –. Com’è possibile che nessuno, finora, non abbia notato quest’arma in fondo al mare. È vicinissima alla costa e da qui devono essere passati finora centinaia di sommozzatori. Probabilmente io stesso. Non so se rallegrarmi o meno. Da una parte mi fa piacere sia stato proprio io a scoprirla, ma dall’altra sento una grossa responsabilità per ciò che potrebbe succedere al momento della sua eventuale estrazione”. Dopo la sua incursione subacquea, Vrzić ha avvertito immediatamente le istituzioni di competenza. “Mi sono rivolto alla Città e alle forze dell’ordine, com’è giusto che sia, le quali hanno proceduto a norma di legge, mandando sul posto i propri uomini. Che la cosa sia di enorme portata, lo dimostra anche il fatto che la Questura fiumana ha ‘scomodato’ le unità speciali di Zagabria che, dopo aver perquisito il sito, hanno confermato si tratti di una mina in perfetta funzione e ancora in grado di attivarsi. Siccome, però, giace in un punto e in una posizione piuttosto scomodi, estrarla sarà molto difficile e pericoloso. Credo stiano ancora valutando il modo più adatto per farlo, al fine di scongiurare possibili catastrofi. Si tratta di un’arma potentissima. In seguito a una serie di ricerche effettuate dal mio collega Stančin, abbiamo scoperto che quella è una mina modello EMC II, che contiene tra i 100 e i 150 chili di puro tritolo, il famoso TNT, in grado di affondare una nave. Nel caso esplodesse proprio ora, un ordigno di questa grandezza e potenza potrebbe distruggere ad esempio tutto il sistema di canalizzazione che soddisfa le esigenze degli abitanti di Pećine. Per non parlare di altri possibili danni, molto più gravi, in cui potrebbero andarci di mezzo vite umane. A quanto sembra, ciò che rende particolarmente complicata la sua estrazione, è il fatto che sia adagiata proprio su una delle sue tre fiale contenenti acido solforico, che una volta fuoriuscito, in contatto con l’acqua marina, ha il compito di attivare l’arma. Con l’andare del tempo, la mina si è ormai fissata per bene sul fondale marino, per cui ogni suo minimo spostamento forzato potrebbe staccare la fiala facendo uscire l’acido. Sarebbe la fine”.
villa olga
Il nostro interlocutore non ha dubbi sul fatto che l’ordigno sia stato posato attorno al 1944 dalla nave Galeb che, com’è noto, in quel periodo apparteneva alla Marina militare tedesca e si chiamava Kiebitz.
“Dev’essere stato per forza così. Soltanto la Galeb collocava mine in queste aree e poteva contenerne in una volta sola fino a 280. Durante il suo periodo di attività, ne ha posate circa 5.000 nell’Alto Adriatico. La mina che ho trovato io appartiene probabilmente a un campo minato da essa posto di fronte a Villa Olga, che a quei tempi era uno dei covi delle Schutzstaffel, meglio note come SS, ovvero l’organizzazione paramilitare creata dalla Germania nazista. La zona cosparsa di ordigni avrebbe dovuto difendere il palazzo dalle possibili incursioni degli Alleati. Che la villa fosse occupata durante la guerra dai nazisti lo potrebbe confermare anche il fatto che il cancello d’ingresso contenga ancor’oggi i simboli di quest’ideologia, precisamente due svastiche e altrettanti Sig (doppia S associata alle Schutzstaffel e alla stilizzazione di due fulmini), sapientemente camuffate tra gli ornamenti in ferro battuto di cui è ricco il portone”, ha concluso Velimir Vrzić, la cui unica speranza ora è che la mina da lui rinvenuta in una fredda mattinata d’inverno, a soli venti metri dalla riva, in una zona che d’estate pullula di bagnanti, venga estratta quanto prima dal fondale marino e disinnescata a regola d’arte. Come le altre che il Quarnero ancora nasconde.

La sfortunata Pavoncella che vinse l’impossibile

La nave Kiebitz

Kiebitz o Pavoncella. È così che la Kriegsmarine – Marina militare tedesca, erede della Kaiserliche Marine – ribattezzò nel 1944, dopo una rocambolesca cattura nel porto di Trieste, l’incrociatore ausiliario “Ramb III”, fino ad allora proprietà della Regia Marina, arma navale del Regno d’Italia. Oltre al nome, ne cambiò gli attributi riconvertendolo in posamine per missioni nell’Alto Adriatico. Il destino della tormentata nave, partorita nel 1938 dal cantiere Ansaldo di Genova-Sestri Ponente come bananiera per poi venire riqualificata in unità da guerra, cambiò per sempre.
Per diventare finalmente “Galeb”, nome che porta tuttora, dovette passarne del tempo. A quel punto seguì per essa un periodo fortunato, in cui attraversò i mari del mondo come nave di rappresentanza di Tito, e in cui accolse a bordo autorità politiche e personalità d’alto rango. Un’esistenza felice che la “Galeb” (nota allora anche come Nave della Pace) si guadagnò con grande difficoltà, dopo avere più volte toccato il fondo, rischiando una brutta fine.
Come, appunto, la volta che durante la guerra fu colpita da un sommergibile inglese nel porto di Bengasi, ma riuscì lo stesso a rientrare in Italia, in quel momento sua titolare, dove fu trasportata, per necessità di riparazione, nel cantiere San Marco di Trieste. L’intervento durò poco, ma non venne mai concluso dopo che il Bel Paese decise di liberarsene, abbandonandola al proprio destino. A “salvarla”, il 9 settembre 1943 – giorno successivo alla firma del cosiddetto armistizio corto –, ci pensarono le truppe tedesche, che ne presero possesso, cambiandole ben presto nome e riclassificandola in posamine. Usando come base il porto di Fiume, in oltre un anno l’allora “Kiebitz” scaricò in mare più di 5mila ordigni tra il Quarnero e l’Alto Adriatico. Non tutte le missioni in qualità di posamine andarono però a buon fine. La prima, partita il 18 marzo 1944, venne interrotta bruscamente a causa della perdita di una torpediniera, la TA 36. La “Kiebitz” raccolse i superstiti e rientrò in porto. Il 13 luglio 1944, durante una nuova operazione, la nave, a causa di un’avaria alle macchine, urtò due delle proprie mine riportando gravissimi danni. Particolarmente intensa fu la sua attività nel settembre 1944 quando, in cinque differenti missioni, posò i campi minati “Murmel 6-10”, “Murmel 11-12”, “Waschnbär”, “Murmel 16-17” e “Murmel 19-20”. Il 3 novembre 1944 ne collocò un ultimo nell’Alto Adriatico.
Due giorni dopo, il 5 novembre, durante uno dei 27 bombardamenti degli Alleati sul capoluogo quarnerino avvenuti tra il gennaio ‘44 e il marzo ‘45, la “Kiebitz” venne colpita da tre bombe scaricate da quadrimotori statunitensi affondando poco dopo nel porto fiumano. Si adagiò sul fondale marino, a 22 metri di profondità, dove rimase per circa due anni abbandonata al proprio destino. Venne estratta nel 1948 dagli uomini dell’azienda spalatina Brodospas e trasferita nel cantiere Uljanik di Pola, dove venne ristrutturata e riconvertita in nave scuola col nome di “Mornar”, cambiato nel 1952 in “Galeb”, quando assunse l’incarico di panfilo presidenziale. Gli anni che seguirono furono rosei…

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