Bisognava essere ardimentosi

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Bisognava essere ardimentosi

Con “Istria nel tempo”, manuale di storia regionale dell’Istria con riferimenti alla città di Fiume, tra edizione in italiano, croato e sloveno è entrato in più del 60 per cento delle case della regione. Con una monografia che ne ripercorre il percorso complessivo – mezzo secolo di eventi, attività, iniziative, personaggi, difficoltà, sfide e risultati – e una cerimonia solenne, il 23 novembre il Centro di ricerche storiche di Rovigno (CRS) celebra il 50.esimo della sua fondazione. Fu creato dall’allora Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume (oggi Unione Italiana) per documentare, testimoniare, indagare e tramandare il passato, la cultura, le tradizioni dell’Adriatico orientale, di un territorio e di una civiltà plasmati con il contributo fondamentale della componente italiana. Il CRS nasceva in un contesto, quello del secondo dopoguerra jugoslavo, in cui la produzione storiografica ufficiale, “di regime”, forniva chiavi interpretative perlopiù strumentali, parziali, tendenziose, diffondendo una narrazione a dir poco lacunosa e falsata. I promotori del CRS ritennero pertanto necessario correggere il tiro, offrendo una visione diversa, priva di condizionamenti, il più possibile oggettiva, basata sulle fonti, scientificamente corretta. Anche per “sfatare – come sottolineò l’allora presidente UIIF, Antonio Borme – l’inadeguata trattazione di tutta una serie di questioni storiche riguardanti l’Istria. Con queste premesse prese corpo prima la Sezione storica dell’UIIF, con il compito di raccogliere attorno a sé un numero quanto maggiore di collaboratori qualificati e di appassionati cultori della nostra storia, per dare inizio a un ampio lavoro di ricerca. Esisteva già un gruppo di persone che trattava argomenti storici, ma lo faceva in via personale e occasionalmente. Il resto è storia. L’hanno ricostruita, in diverse edizioni, padre e figlio Giuricin, Luciano (scomparso nel 2015) ed Ezio, due studiosi che possiamo considerare a pieno titolo la memoria della Comunità nazionale italiana in Croazia e Slovenia, insieme con il direttore del CRS, Giovanni Radossi.

Quest’ultimo, classe 1936, studi ginnasiali nella natia Rovigno, laurea in Lingua e letteratura inglese alla Facoltà di Filosofia di Zagabria, dal 1959 docente presso la Scuola media superiore italiana della sua città e dal 1969 direttore del Centro di ricerche storiche. Un gioiello, costruito grazie anche all’impegno, all’instancabile lavoro, alla tenacia e alle volte anche all’incoscienza di Radossi, che ha sognato e realizzato un luogo che documenta, recupera ed elabora la storia italiana e veneta del territorio dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Cavalierato conferitogli da Roma nel 1985, Premio Città di Rovigno nel 1998, commendatore della Repubblica Italiana (2001), nel 2012 Premio Masi per la Civiltà Veneta, laurea honoris causa dell’Università “Juraj Dobrila” di Pola nel 2016… a settembre l’onorificenza dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana” (in classe Commendatore). Radossi ha attraversato il Ventesimo secolo sempre profondamente convinto dell’importanza di stabilire la verità storica. A fine anno lascia la direzione del Centro. È un pozzo di saperi e conoscenze, sia per quanto riguarda la storia per così dire ufficiale, che quella che si consumò nei retroscena, con aneddoti che non mancano. Oggi possono anche divertire; all’epoca c’era ben poco da ridere. Erano tempi duri. Molte decisioni chiave furono prese proprio sulla barca di legno di Radossi, un sette metri cabinato in legno, acquistato vendendo vecchi francobolli austriaci. Aveva un motore speciale, raffreddato ad aria, rumorosissimo che dava la possibilità di parlare liberamente anche se a bordo c’erano le “cimici”. In questa barca, tra l’altro, furono poste le basi della collaborazione tra l’UIIF e l’Università Popolare di Trieste.

Coincidenze

Dunque, i primi passi del Centro?

È stato il caso a giocare una parte determinante nell’avvio dell’idea di fondare un’istituzione. In realtà si pensava piuttosto a un gruppo, a una commissione, che avesse sede da qualche parte. E si concluse che questa qualche parte poteva essere meglio di tutti il Museo civico di Rovigno, dove stavo lavorando alla nuova registrazione del fondo Istria. Era un ambiente che poteva accoglierci ed essere una ragione d’incontro tra persone che s’interessavano di cose istriane. Inoltre era stato eletto dall’UIIF quale sede del Museo della rivoluzione, cioè anche della partecipazione degli italiani alla guerra partigiana o di liberazione. Comprendeva documenti che riguardavano la guerra, il battaglione “Pino Budicin”, soprattutto, ma anche l’anteguerra. L’istituzione era diretta dal professor Antonio Pauletich, che poi sarà uno dei nostri collaboratori più attivi. Ma per comprendere come si misero le cose devo risalire a qualche anno prima, a partire dal 1965. Ero stato un attivista giovanile di grande successo della sezione rovignese del Partito comunista croato, sezione che includeva anche Valle, Canfanaro e Gimino, un territorio vasto creato – così com’era avvenuto per Fiume – agganciando un circondario prevalentemente croato, per annacquare la nostra presenza di italiani. Da dirigente giovanile ero molto noto perché insegnando inglese ero un po’ il simbolo dell’Occidente, della ribellione. Dagli alunni, compresi quelli delle sezioni croate nelle quali anche insegnavo, ero quindi percepito come il portatore di cose nuove, diverse. Fui il primo a introdurre l’inglese a Rovigno. All’epoca, al liceo italiano e croato, si studiavano come lingue straniere il russo e il francese. Con me il russo sparì, rimase un po’ di francese, ma arrivò l’inglese. Dunque, questa mia popolarità tra i giovani mi spianò la strada e la nostra organizzazione fu definita la migliore in Croazia, la terza a livello di Jugoslavia. Riportai, tra l’altro, il bilinguismo nel lavoro dell’attività giovanile del Comune di Rovigno, che era sparito dal 1956. Mi chiesero più volte di entrare nel Partito comunista, e per un po’ tentennai, infine nel 1960 dovetti entrare nelle file del partito se volevo fare qualcosa. Era così. Il risultato di tutto questo fu che portai a Rovigno, insieme con Mika Tripalo, di cui ero amico, il famosissimo Centro giovanile internazionale di Scaraba, una cosa modernissima che per Rovigno signifiò acqua, luce, gas, strade, soldoni. Mi inserirono nella presidenza del Comitato centrale, dunque nella stanza dei bottoni, solo che di bottoni non ne vidi proprio. Tredici membri, io ero l’ultimo e mi consideravo non il tredicesimo ma il tredicino, il nano che conta meno di tutti, come nella favola. Ebbene, lì cominciai a occuparmi più direttamente non più di problemi dei giovani, ma di quelli della Comunità nazionale italiana. Ero comunista, ma italiano, e ogni volta rompevo le scatole. Il mio preside, il professor Antonio Borme, era già diventato presidente dell’UIIF da un anno-due, e mi informava, mi dava i dati sulla frequenza scolastica, sul bilinguismo, sulle importazioni dei libri di testo e sugli ostacoli cui si andava incontro, avvicinandomi sempre di più alle questioni della CNI. Poi, nel corso di una visita radiologica, risultai malato di tubercolosi polmonare. Era il novembre 1967. Il medico mi costrinse a fermare tutto e a farmi ricoverare. Quasi svenni, ma non per la paura della malattia, bensì perché sarei stato costretto a cambiare tutta la mia vita, io che ero sempre attivo, giorno e notte impegnato. Dall’ospedale scrissi una lettera a Vladimir Bakarić e a Miko Tripalo, che erano presidente e segretario operativo del Partito, per informarli che causa malattia non avrei potuto partecipare ai lavori del Partito. Non ho mai ricevuto una risposta. In quel momento mi dissi: “Nino tu per questa gente conti meno di zero, quindi basta con la politica e occupati delle cose di cui ti interessavi da sempre, della cultura, della storia, della tua Comunità’”. Smisi così di essere attivo in seno del partito e incominciai, soprattutto parlando con Luciano Giuricin, a discutere di altre cose. Ecco, è così che si formò il contesto che permise all’idea, all’immaginaria possibilità di creare un qualche cosa che si occupasse di storia, perché era vergognosamente falsificata, stravolta la storia recente, in particolare quella che ci aveva visto nascere come Comunità nazionale, da sempre qui presente ma a un certo punto passata da maggioritaria a minoranza.

Non dev’essere stato facile iniziare, considerato che non c’erano storici che si occupassero in maniera corretta e obiettiva della materia.

Volevamo costruire un edificio. I manovali li potevamo trovare, ed eravamo noi, ma non avevamo gli ingegneri, ossia i laureati in storia. In tutta la CNI esisteva uno solo laureato in storia e già malato, il professor Arminio Schacherl di Fiume. Quindi cominciammo a pensare di dotarci di quadri qualificati. Nel novembre del 1969 l’UIIF mi affidò l’incarico di fare il direttore del Centro e già nel 1970 cominciammo a cercare qualche soldino. Nessuno ci finanziava, era l’Unione che ogni due-tre mesi ci passava qualcosa. Del resto non avevamo ancora nessuno in paga, soltanto una segretaria, impiegata del Museo civico di Rovigno, che sbrigava la corrispondenza. Individuai tra i ragazzi della generazione, di cui ero anche capoclasse, un primo studente, poi un altro e un terzo da Pola spingendoli ad andare a studiare storia a Zara e Lubiana. Nel giro di quattro-cinque anni arrivarono i primi laureati. Erano Marino Budicin, Antonio Miculian e Daniela Milotti, oggi Bertoni. Ecco, con costoro, nel momento in cui riuscimmo a ottenere uno spazio nostro, partimmo veramente, questa volta col piede giusto.

Significativa la prima opera edita.

Gli “Atti” sono il primo volume che abbiamo presentato, anche se avevamo già pronta, dopo pochi mesi, una produzione piccola ma del tutto nostra delle “Monografie”, una biografia ragionata e critica di un caduto partigiano, mio zio, fratello di mia madre, Giordano Paliaga, che era stato, a 20-21 anni commissario politico del Battaglione “Pino Budicin” per due mesi. Poi, evidentemente aveva cominciato a parlare cose sconvenienti e lo degradarono di colpo. Teneva una specie di diario partigiano, che scomparve. Lo cercai e riuscii a ritrovarlo quindici fa. Mancavano le pagine dei giorni nei quali è stato destituito. Probabilmente c’erano rivelazioni pesantissime… Uscì come “Mancano all’appello”, autore Arialdo Demartini, uno dei comandanti storici del Battaglione “Pino Budicin”, polesano allora ma nato a Rovigno, amico d’infanzia di Paliaga. Ebbe un grande successo di pubblico, perché quello che è stato detto dentro all’epoca non è che fosse molto ortodosso. Fu presto diffuso in croato, tradotto da una cooperativa giovanile di Fiume. Così avvenne anche per il terzo volume delle “Monografie” nel 1973, “La mia vita per un’idea” di Andrea Benussi, primo libro stampato in Jugoslavia che non sia stata bloccato – probabilmente per il personaggio che era l’autore, amico di Tito – che parlava male delle cooperative, dell’esodo e degli errori commessi”.
La presentazione degli “Atti” il 21 febbraio 1971 fu moto importante anche per un altro fatto.
Infatti, fu preceduta da un “avanspettacolo”, immortalato in quella che è una fotografia storica: lo scoprimento, a Barbana d’Istria, di due lapidi, una in italiano e una in croato, sulla casa natale del canonico Pietro Stancovich, del quale ricorreva il bicentenario della nascita. Eravamo veramente degli incoscienti. Sfido chiunque a trovare una lapide scoperta in Jugoslavia nel 1971 dedicata a un uomo di chiesa! Noi l’avevamo fatto e perdipiù con uno che ritenevamo italiano. Ci venne rinfacciato di averlo snazionalizzato. A Dignano, dove lo stesso giorno abbiamo licenziato gli “Atti”, la sala era stracolma, tante autorità politiche nazionali, come Pero Pirker, che era uno dei segretari organizzativi del Comitato centrale del Partito comunista croato, venuto perché mi conosceva, il console generale italiano di Capodistria, Onofrio Gennaro Messina, Ljubo Drndić… Personalità grossissime che vennero quasi a dare il loro benestare al Centro. Eravamo nel 1971, ormai stava iniziando a sentirsi con forza il maspok, il movimento nazionalistico in Croazia. Noi, con queste personalità, ci sentivamo quasi sicuri. La cosa cambiò di lì a poco e persone che prima ci appoggiavano ci voltarono le spalle.

I soldi dall’italia facevano paura

Nei primi tempi lo spazio era praticamente inesistente, un angolino presso il Museo civico. Con il ’71 fu assunta la prima segretaria, Nadia Malusà, che mi ha seguito in tutti questi anni e andata in pensione due mesi fa. All’inizio condivideva con l’impiegata del Museo metà scrivania. Di più non avevamo. Stavamo inoltre cominciando a raccogliere dei libri. Puntavo all’edificio di fronte a noi, oggi Casa di Cultura, ex Tribunale circondariale in età napoleonica dove il Comune stava sistemando degli spazi per attività politiche e altre necessità. Al secondo piano c’era una stanza un po’ più ampia, che chiesi al Comune e mi promisero che me l’avrebbero data, naturalmente una volta rimessa a posto, restaurata. Quando l’intervento stava avviandosi alla fine, ebbi la notizia che avevano cambiato idea. Allora decisi che avrei fatto l’ardito. In pratica occupammo quello spazio, mettendo il Comune davanti al fatto compiuto. Scoppiò un terremoto, ma poi alla fine tutto si sistemò. Arrivarono quindi i primi arredamenti, le prime fotocopiatrici dall’Italia, le prime scaffalature. I primi mezzi ci arrivavano dall’UIIF e dall’UPT, ma ci sostenne sempre anche il Comune di Rovigno. Poi nel 1973 ci fu l’incontro istituzionale, politico, tra le Repubbliche socialiste di Croazia e Slovenia, nel corso del quale decisero di finanziare di comune accordo le attività della Comunità nazionale italiana e le seguenti istituzioni: l’UIFF, l’EDIT, il Dramma Italiano e il Centro. Ricordo esattamente la funzionaria, si chiamava Nada Ledinek, che fece una specie di verbale sottoscritto dalle due Repubbliche che per quanto attiene al CRS scrisse che andavano assicurati “i mezzi necessari per far funzionare l’istituzione in quel determinato momento”. Eccezionale. I contributi a nostro favore vennero così divisi: il 30 per cento dalla Slovenia, il restante 70 per cento dalla Croazia. E da quel momento le cose sono andate in meglio.

Quali erano i modelli storiografici di riferimento?

Principalmente quello della scuola delle Annales, in primis, Marc Bloch e Lucien Febvre. Anche se devo ammettere che allora noi non ce ne intendevamo molto di queste cose. Il primo a indicarcele fu il professor Miroslav Bertoša, che veniva da noi insieme con tanti altri storici, anche di Fiume, perché eravamo l’unica biblioteca aggiornata sui problemi storiografici. Vi trovavano tutte le novità, la più recente produzione storiografica italiana, ma anche inglese, francese, statunitense e altre tradotte in italiano, che acquistavamo a Trieste con i mezzi della collaborazione tra l’UIIF e l’UPT. Avevamo risorse quante ne volevamo e le abbiamo usufruito tutte. A differenza di altri. Per paura, infatti, nessuno voleva i soldi dall’Italia. Noi invece ci buttavamo dentro. Difatti, siamo stati evidenziati come “elementi potenzialmente pericolosi”.
Tra i collaboratori c’erano anche nomi di un certo peso nel panorama storiografico regionale e oltre.
Soprattutto Miroslav Bertoša per quando riguarda l’Istria, Vesna Girardi Jurkić per l’archeologia, a capo del Museo archeologico istriano, persona apertissima, che aveva iscritto entrambe le figlie alla scuola italiana, e poi un fiumano che per noi è stato un punto di riferimento importantissimo, il professore di storia del diritto, giurista tra i più noti in tutta la Jugoslavia, Lujo Margetić , sposato con una fiumana, italiana. Abbiamo pubblicato un libro tutto suo, “Histrica ed Adriatica”, raccolta di saggi storico-giuridici e storici, in italiano, nel 1983. Margetić era per noi talmente importante che gli affidammo di scrivere una pagina di presentazione di un’opera capitale, il grande atlante “Descriptio Histriae”, che aveva come autori il professor Luciano Lago e Claudio Rossit, con presentazione del rettore dell’Università degli Studi di Trieste, Giampaolo de Ferra. Quando il libro uscì, prima della presentazione, il segretario del partito a Rovigno mi convocò e mi fece un sacco di domande. Era italiano, ma mi parlava in croato, leggendo da un notes. Era tutto già preparato. Ebbene, tra le domande, una in particolare mi colpì, ossia mi chiese letteralmente: “Che cosa tu, ossia il Centro, intendevi fare pubblicando un libro in cui ci sono soltanto carte nelle quali l’Istria è sempre attaccata all’Italia’”. La mia risposta fu: “Guarda, questa domanda non la devi fare a me, ma al padreterno, ha fatto tutto lui”. Non le dico le storie che sono venute fuori in seguito. Arrabbiato, telefonai al mio compagno di gioventù, Mario Dagostin, che era diventato capo del Partito di tutta la regione di Fiume. Tutto poi filò liscio, ma ne informai per correttezza il professor Margetić, che mi disse: “Collega, un intellettuale di fronte a queste situazioni ha soltanto due scelte, o spara e ammazza il nemico o spara a sé stesso’”.Ecco, in questo contesto abbiamo mosso i nostri primi passi.

Ci sono stati momenti entusiasmanti e altri difficili

Il 1974, ad esempio, anno del giro di boa in senso negativo. Perché l’UIIF aveva deciso di pubblicare un bollettino, che si chiamava “Unione”, realizzato in 4.000 copie in croato e in 2.000 copie in sloveno. Non era previsto che uscisse in italiano. Il senso era rendere nota l’attività della minoranza, attirando l’attenzione del pubblico della maggioranza, sul modello di una pubblicazione, “Sloveni in Italia’” fatta dagli sloveni solo in italiano. La redazione del bollettino aveva sede in Centro, il quale fece anche le spedizioni. Non sapevamo che erano già in corso le trattative per Osimo. La sera del 23 il komitet decise il defenestramento di Borme, che fu ufficializzato il giorno dopo. Io mi salvai e molti anni dopo seppi che a proteggermi furono due donne importanti, Emma Derossi e Milka Planinc.

Il futuro? La trasformazione in istituto scientifico a tutti gli effetti?

Io continuo a essere convinto che il futuro della CNI e quindi anche del Centro, fonda sugli uomini. Noi dobbiamo tener conto delle persone, curare la loro crescita con grande attenzione, con l’amore che il genitore ha per propri figli. Un istituto scientifico? Non conviene. Significherebbe uscire dal finanziamento degli Stati e mettersi nell’arena di gara per ottenere i finanziamenti secondo quelli che sono i parametri che ha la maggioranza. Inoltre, ciò permetterebbe alle varie commissioni statali di entrare nella nostra attività, con il rischio di perdere tutta la nostra autonomia. Ad ogni modo la nostra scientificità ci è riconosciuta dall’Italia, dal Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica attraverso le nostre riviste, e ciò già da vent’anni.

Giovanni Radossi in pensione?

Dal punto di vista psicologico non è facile. Vorrei rimanere attivo nell’ambito dell’istituzione, come consulente, come supporto al nuovo direttore. Da ricercatore, ho già dei progetti. A uno ci tengo molto, non è di grande rilevanza scientifica però è importante per la CNI. Si tratta di un’antologia di documenti d’archivio del Centro che si riferiscono all’UIIF, e ciò dal 1949 al 1966-67, gli anni della svolta, del crollo, dell’asservimento totale e poi della ripresa con il professor Borme. Ho scelto documenti per ogni anno cruciale, circa 600-700. Nei commenti che ci metto dentro non ci sono soltanto riferimenti in merito a ciò che avvenne, ma ci sono anche cose di grande sorpresa, cose dette tra i muri del’UIIF contro le opzioni… Inoltre, spiego chi sono i personaggi che agivano, faccio una biografia di tutte queste persone che compaiono nelle carte per permettere a chi verrà domani o tra 40 anni di sapere chi erano i firmatari o i destinatari di quelle carte.

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