
“Gli esseri umani si sono sempre spostati da un posto all’altro, o per necessità, guerre, povertà, fame, o anche semplicemente per andare a trovare dei posti nuovi, ricreare la propria vita. Quindi, il tema delle migrazioni, soprattutto in Italia, ma non solo in Italia, è un tema molto scottante, molto caldo in questo particolare momento storico. Con il mio ultimo film ho voluto raccontare agli italiani, ma soprattutto ricordare agli italiani, che una volta i migranti eravamo noi, andavamo ad attraversare l’oceano per crearci una nuova vita, per cercare di vivere una vita migliore di quella che, all’epoca, veniva offerta dal Paese in cui eravamo nati. Purtroppo, c’è questa tendenza a considerare gli stranieri come un problema, e invece dovremmo fare l’inverso, accoglierli come un valore aggiunto con cui costruire delle buone opportunità lavorandoci, appunto, insieme. Accoglienza. Ecco, è proprio questo il concetto che ciascuno di noi dovrebbe rivedere nella propria testa. Un valore che spesso e volentieri l’uomo trascura”. È iniziato, suppergiù, così il nostro colloquio con Gabriele Salvatores, famosissimo regista italiano, che non ha certo bisogno di presentazioni e che abbiamo avuto modo di conoscere meglio nell’ambito della recente proiezione, all’Art cinema di Fiume, dell’ultimo film da lui realizzato, “Napoli-New York”. Della pellicola si sa ormai praticamente tutto, la trama è avvincente e racconta, in sintesi estrema, dell’Italia del dopoguerra – l’anno contemplato nel film è il 1949 – e della migrazione di cittadini napoletani in America, terra promessa per popolazioni in fuga dalla fame e in cerca di un futuro migliore. “Napoli-New York” ci interessa da vicino perché, com’è noto, parte delle riprese sono state effettuate proprio a Fiume, nell’ambito dei due magazzini ferroviari in Žabica ovest, successivamente abbattuti per consentire la costruzione della nuova autostazione. La location in sé è servita al regista per ricreare la Little Italy di New York, mentre la storica nave Galeb, che all’epoca della registrazione del film (nel 2023) era ancor sempre soggetta a restauro nel cantiere di Kraljevica (Porto Re), è stata usata come oggetto di trasporto – sottoforma di transatlantico Victory – degli italiani migranti in America.
Tratti felliniani
Una delle nostre prime domande rivolte a Gabriele Salvatores ha riguardato proprio la scelta delle location per girare la pellicola e il perché una di queste ha riguardato proprio Fiume. “Avevo in qualche modo bisogno di ricreare New York e, a parte l’uso di molti effetti speciali nel film, c’era la necessità di effettuare le riprese in costruzioni fisiche, vere, con cui poter lavorare. Dopo avere girato alcuni spezzoni nel Porto Vecchio di Trieste, siamo giunti a Fiume, il cui bacino portuale si è rivelato perfetto per ciò che mi ero immaginato. Quei capannoni ricordavano, infatti, moltissimo i dock newyorchesi degli anni ‘40 dello scorso secolo – ci ha spiegato il regista –. Le costruzioni in mattoni (i magazzini ferroviari che oggi non ci sono più, nda) richiamavano certe cose di New York e si legavano molto bene ad altre che ci sono a Trieste, che però non erano bastate per le riprese, motivo per cui, per questa parte del film, si è optato appunto per Fiume”. Seppure lo abbia già spiegato al pubblico presente in sala nel giorno della première, abbiamo chiesto a Salvatores di spiegarci com’è nata l’idea di realizzare questo film che, come noto, si basa su una sceneggiatura degli inizi di carriera del grande Federico Fellini e dell’altrettanto celebre sceneggiatore italiano Tullio Pinelli.
“Quando mi è stato chiesto di farne un film, io non sapevo nulla dell’esistenza di questa sceneggiatura e inizialmente ero abbastanza spaventato. Avevo paura di mettere le mani su qualcosa che un mostro sacro come Fellini aveva scritto. Poi ho scoperto che si trattava di un lavoro del Fellini giovane, degli esordi, quando ancora non si era messo dietro alla macchina da presa e non aveva ancora elaborato la sua poetica cinematografica, bensì realizzava sceneggiature per altri registi. Questa di ‘Napoli-New York’ era una di quelle ed era rimasta chiusa per decenni in un cassetto. In essa ci sono, sì, tracce felliniane, ma non è Fellini, nel senso che non c’è nulla di onirico, di surreale. C’è, invece, un po’ questa dimensione di favola, che mi è piaciuta sin dall’inizio in quanto avevo già avuto modo di lavorare tante volte con dei bambini e con dei ragazzi. Devo dire che quando mi è stato suggerito di fare questo film, ho trovato tutta una serie di motivi, di cose che mi erano familiari e che avevo già, in un certo qual modo, fatto in passato, come ad esempio il viaggio, il rifarsi una vita da un’altra parte, l’essere costretto ad andare via dalla propria comfort zone, se così la possiamo chiamare. La vita a Napoli di quel periodo in cui è ambientata la pellicola, era difficissima”. La trama di “Napoli-New York”, o meglio, l’esodo della gente dalla propria città d’origine nel periodo del dopoguerra, ricorda tantissimo quella vissuta dal popolo italiano di Fiume, di cui gran parte se n’è andata sentendosi, ormai, straniera nella propria terra. Un terribile capitolo della storia di queste nostre zone, di cui Gabriele Salvatores è a conoscenza. “È vero, l’esperienza è quella. Purtroppo, c’è qualcosa che non va, c’è qualcosa di cattivo nell’uomo. Io avevo già fatto un film simile, ‘Mediterraneo’, che racconta di italiani che arrivano in Grecia. Di fatto, noi mediterranei siamo tutti contadini, pescatori, questo mare ci unisce. Abbiamo a volte lo stesso cibo, ce lo scambiamo e, quindi, trovo sia importante parlare del fenomeno migratorio, ma soprattutto imparare a gestirlo con maggiore apertura mentale”. Abbiamo chiesto al nostro interlocutore se sia stato proprio questo il messaggio che ha voluto lanciare realizzando “Napoli-New York”.
“Io cerco di non lanciare dei messaggi, seppure dal film ne scaturisca uno molto importante e che è quello dell’accoglienza. ‘Napoli-New York’ è un lavoro dove c’è molto senso della solidarietà, anche tra persone diverse, anche tra età diverse. L’attore Omar Benson Miller, che nel film interpreta George, il cuoco di colore che lavora sulla nave, nella sua vita è molto impegnato sui diritti degli afroamericani e ha fatto tantissimi film con Spike Lee. Ecco, quando è stato scritturato per la mia pellicola, era contentissimo di fare parte del cast e gli è piaciuta in modo particolare la scena in cui un bimbo nero offre del pane alla protagonista, sua coetanea, che non ha mangiato da giorni. Sono entrambi in un certo qual modo stranieri in una città che non è la loro città d’origine, New York appunto, e questo destino, loro malgrado, li unisce, seppure, devo dire, e non mi stancherò mai di ripeterlo che, alla fin fine, siamo tutti sulla stessa barca e bisogna trovare modi diversi di convivere tra le varie popolazioni, tra le varie nazioni, perché sennò ci ritroveremo davvero sull’orlo di una possibile nuova guerra mondiale. Dobbiamo imparare a considerare gli altri, a essere più solidali. La solidarietà è un bene, non un problema”.
Premi e riconoscimenti
Qualche riga più su, Gabriele Salvatores ha nominato “Mediterraneo”, film del 1991, che l’anno dopo gli è valso il Premio Oscar, come miglior film straniero, il David di Donatello, come miglior film, miglior montaggio e miglior suono, e il Nastro d’Argento. In molti sostengono sia stato il film della sua consacrazione come regista. Lui è dello stesso avviso? “Non l’ho mai considerato in quel modo. Certo, è un film a cui sono molto affezionato. Quando l’ho realizzato, era il terzo film che facevo e quindi non me lo aspettavo minimamente, anche perché quell’anno era in concorso per il Premio Oscar anche un film cinese, ‘Lanterne rosse’ di Zhāng Yìmóu, che a me, ad esempio, piace più di ‘Mediterraneo’. Lo trovo molto bello, ma forse gli americani hanno capito di più un film come il mio, quindi non posso che essere grato per questo riconoscimento, ma ripeto, non lo considero il film della consacrazione. È stato, però, molto importante per la mia attività cinematografica successiva, in cui volevo qualcosa di diverso. Sono riuscito a farlo in seguito con ‘Nirvana’, uno dei miei film a cui sono maggiormente affezionato. Nell’anno in cui è uscito, il 1996, era rivoluzionario in Italia in quanto parla di cyber punk e di intelligenza artificiale. Un film di fantascienza, molto diverso da quelli che si potevano fare in quel periodo in Italia. Un lavoro che, se non avessi vinto l’Oscar con ‘Mediterraneo’, non avrei potuto realizzare, contribuendo così ad allargare un pochino il panorama del cinema del Bel Paese, che è molto legato alla commedia italiana o al neorealismo. Il mio desiderio era trovare, però, delle altre forme narrative”.
Come quelle relative al teatro, che Gabriele Salvatores conosce molto bene, avendo iniziato la sua lunga carriera proprio con l’attività teatrale. Ci è venuto spontaneo chiedergli come mai, a un certo punto, sia passato al cinema. “Ho sempre amato il cinema, sin da ragazzino, e mi sembrava sempre una cosa irraggiungibile, soprattutto negli anni ‘70 quando ho cominciato a lavorare in teatro formando assieme ad altri attori dell’epoca la compagnia ‘Il teatro dell’Elfo’. Ecco, lavorare sulle tavole di un palcoscenico mi sembrava in un certo senso una cosa più fattibile da raggiungere, più realizzabile, nel senso che ci sentivamo come parte di un movimento più generale. Mi spiego. Ai tempi sapevamo che mentre noi stavamo provando i nostri spettacoli in una cantina di Milano, in quello stesso istante a Parigi o, che ne so, a Tokyo, c’erano altri ragazzi che stavano facendo qualcosa di simile. C’era questa voglia comune di cambiare il mondo, forse un’illusione, ma era una cosa di forte impatto. Con la compagnia siamo andati avanti per sedici anni, cioè io ci sono rimasto per tutto quel tempo. In seguito ‘Il teatro dell’Elfo’ ha avuto degli sviluppi importantissimi. Ho abbandonato il teatro quando la RAI mi aveva proposto di fare un film traendolo da uno spettacolo teatrale che avevamo fatto. Si trattava di ‘Sogno di una notte di mezza estate’ di Shakespeare, da cui nel 1983 era nato poi il mio primo lungometraggio ‘Sogno di una notte d’estate’, che consisteva in una trasposizione cinematografica della commedia shakespeariana in un’ambientazione contemporanea. Avevo accettato di buon grado questa sfida per provare a vedere com’era il cinema e com’era farlo. Da lì in poi, a piano a piano, sono passato a fare film e l’ultimo spettacolo teatrale l’ho fatto nel 1989”.
Ora come ora, tornerebbe indietro? “No. Amo molto il cinema e sono contento così. Semmai tornerei a fare qualche spettacolo teatrale, questo sì”.
Sensibilizzazione
Più su il nostro interlocutore aveva accennato alla necessità di accettare l’altro, il diverso, e alla difficoltà che spesso si ha nel farlo. Siamo voluti tornare su quest’argomento chiedendogli quanto il cinema, o meglio, quanto un film o dei film possano contribuire a sensibilizzare le persone su determinati fenomeni, in questo caso sull’accettazione, sull’accoglienza. “Un singolo film non può fare nulla. Se prendiamo come esempio ‘Napoli-New York’, da solo non ce la può fare. Molti film, molti libri, molti spettacoli teatrali, molta cultura, assieme possono però fare la differenza. L’arte e la bellezza sono due cose che, sicuramente, sono in grado di aiutare a evitare ulteriori conflitti”.
Arte e cultura rivolta soprattutto ai giovani, diremmo noi, le cui menti non sono ancora sovrastrutturate. A Gabriele Salvatores abbiamo chiesto quanto, a suo avviso, è cambiato il pubblico nel corso del tempo, dai suoi inizi al giorno d’oggi. Quanto i giovani sono interessati al cinema e come avvicinarli alla settima arte?
“È una domanda difficile, soprattutto se fatta a una persona che ha ormai 74 anni e che vive in una logica e con pensieri diversi da quelli dei giovani. Un segnale positivo, però, è dato dal fatto che ‘Napoli-New York’ ha vinto il Premio David Giovani nell’ambito dei David di Donatello per il 2025, della cui giuria fanno parte liceali e universitari, e questo mi fa molto piacere, anche se ciò non vuol dire che questa sia la strada per avvicinarsi al pubblico giovane. Personalmente, credo che la cosa più giusta da fare sia continuare a realizzare film che piacciano a me e non a cercare di piacere per forza a qualcuno. Se, poi, questi stessi film riescono ad attirare un pubblico di età diverse, anche quello più giovane, non posso che esserne felice”.
Pericoli della società odierna
I giovani di oggi sono anche figli della tecnologia, dell’intelligenza artificiale, parte di una società in veloce evoluzione. Come definirebbe il nostro interlocutore quest’ultima? “Molto pericolosa. La società di oggi è una società che tende a isolarci gli uni dagli altri, mettendo a disposizione tutti questi device elettronici davanti ai quali perdiamo tantissimo tempo illudendoci magari di comunicare con il prossimo. In realtà siamo come davanti a uno specchio, ed è come se parlassimo da soli con noi stessi. Anche perché tutti questi algoritmi ti propongono soltanto ciò che, in realtà, tu vuoi. Intelligenza artificiale? È una cosa che mi spaventa molto. Va bene se dietro ad essa c’è l’intelligenza umana, alla quale l’IA deve essere da supporto e non da sostituzione. L’IA non deve imitare la realtà, ma aiutare a raccontarla. Il rischio grosso è che fra un po’ faremo fatica a distinguere la realtà dalla finzione, ovvero ciò che è vero da ciò che è falso”.
Una delle nostre ultime domande rivolte a Gabriele Salvatores ha riguardato lui come professionista. Come si definirebbe in questo senso? “Non è facile definire sé stessi. Non lo so, ho sempre cercato di fare quello che mi emozionava, che mi piaceva, indipendentemente dal fatto che, in realtà, facevo cose che piacevano al pubblico. Dal punto di vista del mio lavoro, mi definirei uno sperimentatore. Non ho mai fatto un film uguale all’altro e ho sempre cercato di alzare l’asticella e di prendermi delle sfide, anche per continuare a imparare cose nuove, a non fermarmi mai”.
Una sfida lunga una vita
Infine, la domanda di rito. Piani futuri? Trovandosi in post-produzione, ci è interessato sapere su che cosa Gabriele Salvatores sta lavorando attualmente? “In questo periodo sono impegnato nella realizzazione di un film tratto da un romanzo di Paolo Maurensig, scrittore di Gorizia, che ha scritto ‘La variante di Lüneburg’. Si tratta di una pellicola noir sul mondo degli scacchi e verrà girata a Trieste. È la storia di due persone sui sessanta-settant’anni, che si sfidano da quand’erano ragazzini”.
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