
Quando la battaglia finisce, ognuno veglia i propri morti mentre la pietas, per un breve momento, è comune. Finito l’impeto della guerra, urge lenire le ferite con tutti i mezzi a disposizione prima che la politica s’impossessi dei simboli del dolore e li trasformi in bandiere di parte, da gestire come baluardi di partito, fazione, schieramento, determinando l’appartenenza delle vittime e il loro destino. Morti di destra e di sinistra, di qua e di là dalla frontiera. È successo con le vittime della Miniera di Arsia del 1940, delle Foibe del 1943 e ‘45 e con quelle dell’Isola Calva dopo il 1948. Un confine ha determinato nuove divisioni, competenze, memorie, impossibile condividere se non per una sorta di protocollo doveroso, ma non sentito fino in fondo. Ecco perché è giusto che ognuno commemori i propri martiri con l’altrui solidarietà, ma nella consapevolezza che la storia molte volte concede visioni separate, non cumulabili o demandabili. Si rischiano altre ingiustizie.
A Vergarolla, le mine depositate sulla spiaggia e segretamente innescate hanno dilaniato più di cento corpi, hanno cancellato intere famiglie, sono morti soprattutto bambini che giocavano ignari del pericolo. Perché? Una domanda senza risposta, come i tanti dilemmi della storia del mondo del secolo breve. Livio Dorigo, “mulo de Pola”, oggi ultranovantenne, ha cercato una via alla verità per lunghissimo tempo e non ha mai smesso di sperare che si riuscisse prima o poi fare chiarezza. Ricordare la strage a Pola è sempre stato scomodo e il motivo è facilmente intuibile.
Il fatto: “Il 18 agosto 1946 è una domenica piena di sole. Sulla spiaggia di Vergarolla sono le 14. La sede della società sportiva Pietas Julia è imbandierata. Tra poco avranno inizio le gare per la coppa Scarioni. I bagnanti riposano sotto gli ombrelloni e nella frescura resinosa della vicina pineta. Ma i bambini a frotte corrono, giocano sulla spiaggia di ciottoli, ignari che sotto ai loro piedi scalzi si nascondono 28 mine antisbarco francesi, collegate fra di loro. Alle 14.15 un’esplosione solleva un uragano di sassi, di fumo, di corpi straziati, di grida. La città, scossa dalla detonazione, accorre. I morti sono 109, ma altri moriranno per le conseguenze delle ferite riportate e ai funerali verrà aggiunta una cassa per le membra non identificate. Il chirurgo Geppino Micheletti resta nella sala operatoria dalle 15 alle 22 e non sospende il lavoro neanche quando gli dicono che in obitorio giacciono anche i corpi, o almeno ciò che ne rimane, dei suoi due bambini, del fratello e della cognata. La tragedia solleva un’ondata di sdegno contro gli inglesi i quali, avendo assunto l’amministrazione della città da oltre un anno, avrebbero dovuto togliere le mine o proibire l’accesso alla spiaggia”. Questa la cronaca di quella giornata, riportata in alcuni libri di memorie. Ci sono voluti anni perché la popolazione locale, gli italiani residenti insieme alle delegazioni degli esuli, decidessero di porre un cippo a memoria dell’accaduto per ricordare quanto era avvenuto.
Da allora, ogni anno a Pola, si svolge la cerimonia di commemorazione delle vittime davanti al cippo che ricorda l’avvenimento sul quale vengono deposte corone di fiori. Eppure non c’è catarsi in questo nobile gesto. L’indagine sulla portata di quella tragedia che, il 18 agosto 1946 scosse Pola e l’Istria e diede, di fatto, l’avvio all’esodo in massa della popolazione, è ancora sospesa in un’attesa frustrante per chi anela a conoscere la verità.
Per Livio Dorigo, polese, per molti anni presidente del Circolo di Cultura istroveneta “Istria” di Trieste, “i fatti di Vargarolla dimostrano chiaramente il disinteresse dell’Italia per queste terre. I servizi segreti sapevano che sarebbe successo e non fecero nulla per fermare una strage di innocenti”.
Questa la sua tesi resa in una testimonianza al nostro giornale nel 2007, poi ripetuta negli anni, convinto che bisognasse superare il muro di omertà sull’accaduto. Inutilmente.

Foto: ROSANNA TURCINOVICH GIURICIN
Perché la chiama Vargarolla?
“Perché è il termine che si usa in loco e perché così sta scritto nel Portolano della regia Marina”.
La gente, in quella calda giornata estiva, era andata al mare, senza sospetti, eppure qualcuno sapeva che la spiaggia era minata. Come mai?
“Le mine erano residuati della guerra appena conclusa, si credevano innocue in quanto erano state disinnescate sulla spiaggia di Pola tempo prima sotto agli occhi curiosi e indiscreti della gente del posto, e invece esplosero, provocando una strage”.
È possibile intuire la verità?
“Certamente, per molti anni mancavano le prove, ma anche quelle lentamente si dovranno fare strada. Nel ‘46 il parlamentare giuliano Antonio De Berti s’era scagliato contro le posizioni dei polesi, non voleva suffragare la tesi del plebiscito o del diritto all’autodeterminazione dei popoli previsto dal Trattato di Pace per sostenere la politica di De Gasperi e, tantomeno, accettava l’idea di costituire un territorio autonomo lungo la linea Wilson”.
Da dove, o da chi, traeva forza Pola nel proporre queste alternative?
“Con la fine della guerra erano rientrati in città personaggi come Rusich, Benussi, Dorigo, Sepetich e altri, che erano stati deportati durante il conflitto e che riuscirono a salvarsi. Si fa strada pertanto una classe di dirigenti in grado di amministrare la città. Questo crea però uno scontro pesante tra la popolazione che vuole rimanere e gli inglesi impegnati a chiudere la vicenda, tra l’Italia ricattata perché ha perso la guerra e la Jugoslavia che ha tutto l’interesse di prendersi Pola. Nella primavera del 1946, come ha avuto modo di testimoniare Pasquale De Simone nelle sue pubblicazioni uscite a Gorizia nel dopoguerra e poco note anche nel mondo degli esuli, il CLN di Pola era convinto di dover ripristinare lo status quo riportando il territorio all’amministrazione italiana come prima del conflitto mondiale. Un progetto che avrebbero pagato duramente perché contrastava con l’idea delle grandi potenze sul futuro di Istria, Fiume e Dalmazia dopo il 1945”.
Morale della vicenda?
“Vargarolla decise le sorti. È la maggiore strage di civili che l’Italia abbia mai avuto e nessuno lo sa. L’esodo fu una diretta conseguenza di questo fatto. Dico questo perché il CLN aveva condotto un’inchiesta secondo la quale dei 32.000 abitanti di Pola, 28.000 avevano dichiarato di volersene andare se la zona fosse passata sotto la sovranità jugoslava e 70.000 erano le medesime risposte nel resto dell’Istria. La deflagrazione capovolse le sorti della popolazione. Il Circolo Istria, nel corso degli anni, ha mandato delle lettere ai presidenti della Repubblica italiana chiedendo di schierarsi in prima fila nel ricordare quelle vittime innocenti di una controversia che si svolgeva altrove, così non è stato”.
Dopo il sondaggio, quale sarebbe dovuto essere il passo successivo deciso dal CLN?
“Era stato deciso uno sciopero generale per mandare un messaggio forte alla politica del momento, al mondo intero. Erano stati fatti arrivare via mare dall’Italia barconi pieni d’armi, ma qualcuno fece la spia e scattarono gli arresti. I giochi erano già compiuti. Tutto era stato deciso, due giorni dopo la firma del Trattato del ‘47, De Berti – sordo alle voci che provenivano da Pola e nominato immediatamente sottosegretario alla Marina Mercantile – fece arrivare la nave Toscana per traghettare la popolazione spaventata in Italia, in un Paese che era sorpreso quanto noi per ciò che stava succedendo e, soprattutto impreparato a capire e ad accogliere il nostro popolo. L’Italia voleva il silenzio, e così avvenne. Ora ci si concentra principalmente sui fatti delle foibe che furono un’altra immane tragedia e si continua a tacere su Vargarolla”.
Perché, secondo lei?
“Perché i servizi segreti sapevano, l’Italia c’era in quella giornata infame e dobbiamo avere il coraggio di dirlo per dare respiro a tutte quelle famiglie (se ci sono ancora) che hanno dovuto convivere con la tragedia senza poter sperare in un atto di giustizia. Oggi, davanti a quel cippo, si cerca di ricordare tutte le vittime, ma non è giusto mettere nello stesso calderone avvenimenti di diversa portata. Vargarolla fa ancora tremare la nostra storia, è nostro dovere portare pace”.
In che modo?
“In diversi modi: in primis con un’ampia partecipazione alla commemorazione, per esempio, per anni i Comuni di Trieste, Muggia e Monfalcone avrebbero avuto piacere di esserci, ma ancora attendono un esplicito invito della Comunità degli Italiani di Pola o della Città, che coordina la cerimonia. Secondo, continuando il dibattito storico sull’avvenimento, abbozzato in alcuni precedenti incontri per produrre nuovo materiale che potrebbe contribuire a spiegare quanto successe. Terzo, con un riconoscimento a livello governativo italiano perché si sappia chi furono quelle vittime e perché l’Istria dovette pagare le scelte e le alleanze dell’Italia”.
Un percorso difficile
Queste le dichiarazioni di Dorigo, che per anni si è speso per far conoscere una delicata vicenda della sua Pola, passando ora il testimone al prossimo, nella convinzione che si tratti di un percorso difficile, ma parte di un impegno civile che ha sempre caratterizzato il suo cammino. Una causa persa? a volte si chiede. Forse solo una questione di tempo. Il Comune di Pola ha demandato l’organizzazione della cerimonia a un apposito ufficio con uno staff di giovani funzionari che si rapportano con l’Associazione degli esuli polesi presieduta da Graziella Cazzaniga. Un protocollo scandito da incontri tradizionali, convinti. Corone di fiori, la Messa, i discorsi. Qualcuno ogni tanto propone di muoversi in diverso modo, soffermando l’attenzione sulle vittime o su un personaggio come Geppino Micheletti. Solo idee in un contenitore dal quale la politica può attingere per i propri scopi di visibilità effimera. La coscienza civile attende ancora un gesto forte affinché tutto ciò non venga relegato nella sfera di ciò che è considerato inesorabilmente e semplicemente patrimonio del passato.
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