
“La patria alla frontiera. Storia dell’irredentismo adriatico” (Editori Laterza). Esce dalle stampe il nuovo libro di Fabio Todero, autore che abbiamo imparato a conoscere attraverso la sua precisa e approfondita attività di storico, insegnante e ricercatore dell’Irsrec FVG (Istituto regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, con sede a Trieste, ndr).
Ogni volta che si parla di irredentismo gli animi si accendono perché ha segnato la storia dell’area adriatica trasformandosi a passo a passo con le vicende storiche che hanno mutato il suo assetto, le aspirazioni. La sua scia lunga è arrivata nei decenni del dopoguerra insinuandosi nelle tante sfumature e interpretazioni della storia dell’esodo. Ne parliamo con l’autore, Fabio Todero, che ha presentato nei giorni scorsi il suo libro alla libreria “Ubik” di Trieste con l’intervento di Raoul Pupo e Luca G. Manenti.

Foto: ROSANNA TURCINOVICH GIURICIN
Professore, nei prossimi giorni si susseguiranno le manifestazioni per il Giorno del Ricordo, legato all’esodo e alle foibe. La storia di questi eventi parte da lontano e l’irredentismo è un fattore che ha caratterizzato la scelta di campo in queste nostre terre. È un discorso articolato e lungo, come lo possiamo sunteggiare?
“L’irredentismo è un fenomeno che, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, ha attraversato un lungo periodo di tempo, fino al doloroso e lungo secondo dopoguerra giuliano. Soprattutto, come ogni cosa in quest’area, si tratta di un fenomeno dalle molte facce, che si è sviluppato in tutte le comunità principali dell’area. Di qui, l’importanza di studiare il fenomeno nelle sue diverse articolazioni, dinamiche e forme”.
Sono numerosi i suoi saggi sull’argomento. Su cosa si focalizza questo nuovo libro?
“Sull’irredentismo non sono molti i contributi scientifici cui poter fare riferimento; mi pareva necessario cercare di colmare – almeno parzialmente – una lacuna, con uno studio che cercasse di ricostruire lo sviluppo del movimento irredentista inteso come uno dei veicoli dei processi di “nazionalizzazione” delle masse: un fenomeno quanto mai interessante in una terra dalle più anime come la frontiera adriatica. Naturalmente non ho alcuna pretesa che il testo esaurisca l’argomento! Spero anzi possa sollevare curiosità e desiderio di proseguire”.
Camminiamo sulle spalle di giganti, quali personaggi dell’irredentismo adriatico possono oggi indicarci alcune vie alla comprensione del momento che stiamo attraversando?
“Questa è una domanda davvero difficile, specie e proprio di questi tempi. Ma sono convinto che il mondo intellettuale e della cultura abbia grandi responsabilità nella costruzione di società aperte, tolleranti e inclusive. Messaggi di segno opposto generano contrasti e lacerazioni dolorose. Continuo ad essere convinto che solo cultura, istruzione e formazione possano contribuire a rendere migliore un mondo in cui sembrano riaffiorare miti e valori che non hanno generato nulla di buono”.
L’identità, la militanza politica hanno infiammato le folle a cavallo tra l’Ottocento e Novecento tanto da scatenare, in parte, la Grande guerra. Per le nostre genti di confine che cosa è stato?
“L’irredentismo – gli irredentismi europei, si pensi alla questione dell’Alsazia e Lorena, alla Romania …: anni fa a Gorizia e Trieste è stato celebrato un convegno importante proprio sugli irredentismi europei davanti alla Grande guerra – non hanno esercitato un peso così sostanziale nello scoppio della Grande guerra, rientrando semmai nelle dinamiche nazionali e nazionaliste che hanno sconvolto l’Europa di quel tempo. Rimane aperta la questione della effettiva capacità di penetrazione e peso del fenomeno nella società adriatica di quel tempo”.
Si parla spesso di irredentismi, declinando la parola al plurale, a significare che sono diversi, da che cosa è determinata questa loro definizione complessa e frastagliata?
“Innanzitutto l’irredentismo va declinato al plurale dal punto di vista della nascita di movimenti paralleli nelle comunità slovena e croata della frontiera adriatica. In secondo luogo, l’irredentismo italiano non era un fenomeno monolitico – ce lo ha insegnato Scipio Slataper tanto tempo fa – ma un movimento caratterizzato da anime diverse: da quella, originaria, repubblicana e mazziniana a quella imperialista, da posizioni e progetti più moderati all’oltranzismo degli ambienti giovanili e così via…”.
A scuola c’è spazio per raccontare queste vicende?
“Altra domanda difficile: mi chiederei piuttosto in che modo parlarne? Sono convinto che affrontarne lo studio abbia senso facendo dell’irredentismo un tema emblematico per la comprensione del fenomeno della nazionalizzazione delle masse, dello sviluppo della coscienza nazionale ma anche dei miti, dei simboli, dei vettori di tale processo. Inoltre, per carità, rimane fondamentale declinarne lo studio al plurale, non rinchiudersi nel cortile di casa e, soprattutto, uscire da qualunque visione mitizzante, ma ciò vale per ogni evento storico. E per far questo, occorre misurarsi con i documenti!”
Quali strumenti bisogna dare ai giovani per poter comprendere percorsi così difficili e di grande impatto?
“Alimentare lo spirito critico, evitare ogni semplificazione, restituire la complessità di ogni fenomeno e dinamica storica, di ogni contesto sociale compreso il nostro, andare in profondità”.
Nel dopoguerra, gli italiani rimasti in Jugoslavia, venivano spesso tacciati di irredentismo e la parola suscitava paura. Perché, come viene interpretato oggi questo fenomeno?
“Certo… nel contesto del dopoguerra l’irredentismo e le sue lotte si riaffacciarono nella Venezia Giulia e a Trieste, fino agli ultimi sussulti che hanno accompagnato la questione di Trieste. Per la verità, anche il Cln di Trieste durante l’occupazione nazista, si richiamò alle lotte dell’irredentismo d’anteguerra. Al termine del conflitto fu la volta dell’occupazione jugoslava: e la Jugoslavia di Tito non era l’Austria Ungheria di Francesco Giuseppe e la difesa dell’italianità si scontrò con la rigidità ideologica di un sistema totalitario che non ammetteva eccezioni. E l’etichetta di “irredentista” poteva costare – e costò – assai cara a chi si batteva perché l’Istria e le Venezia Giulia non venissero separate dal paese. Richiamandosi esplicitamente alle lotte del vecchio irredentismo di matrice risorgimentale. Ma erano tempi diversi e difficili: sappiamo come è finita e a quale prezzo”.
Per decenni la memoria delle due guerre mondiali hanno condizionato i rapporti al confine orientale, oggi come vengono concepite. E’ una memoria che si è sciolta, forse addirittura dissolta?
“Credo sia una memoria “confusa”… specie tra le giovani generazioni c’è bisogno, credo, di costruire una conoscenza approfondita di queste tematiche, certo importanti per capire la storia delle nostre terre ma più in generale una conoscenza della storia che sfugga a ogni declinazione mitizzante. Una conoscenza “al plurale”, capace di generare mentalità aperte al confronto, all’incontro, al rispecchiarsi l’uno nella storia dell’altro. Ciò non significa rinunciare alle proprie radici – ce lo insegna papa Francesco! – ma alzare lo sguardo verso un orizzonte più ampio, oggi profondamente in crisi ma che è il solo capace di offrire prospettive di speranza: parlo, com’è ovvio, dell’Unione europa”.
Quali le fonti più importanti sulle quali si basa il suo nuovo libro?
“L’Archivio di Stato di Trieste è ricchissimo di documenti, molti dei quali aspettano ancora di essere letti, rivisti, interpretati… quanti nomi, fatti, personaggi! E per il libro è stato davvero fondamentale e affascinante consultare il fondo Salmona, custodito all’Istituto di storia del Risorgimento di Roma: tra l’altro un ambiente di lavoro magnifico, nel cuore del Vittoriano. Che spettacolo!”
La passione per la storia è cresciuta nel corso del tempo, semplice curiosità o desiderio di comprendere, una sorta di ricerca delle radici?
“In qualche modo, più che di “ricerca” delle radici parlerei di grande amore per le mie radici e per la terra dove sono nato, non a caso tra i miei personaggi preferiti ci sono Omero ed Enea, il loro pensiero sempre rivolto alla “patria”, da ritrovare per l’uno, perduta per l’altro. La passione per la storia è nata in famiglia, ormai tanti e tanti anni fa e non a caso la coltiva anche mio fratello Roberto: i nonni avevano “fatto la Grande guerra”, papà la Seconda: giocavo con il suo casco d’aviatore in testa e con le sue foto di guerra. Ricordo ancora l’emozione con cui, bambino, aspettavo la sigla di “Almanacco”, una trasmissione televisiva – condotta da Nando Gazzolo, che splendida voce! – che si occupava di storia: e all’epoca, di canali televisivi ce n’erano due! Poi la scuola, i miei primi insegnanti, quelli che si sono succeduti nel tempo… per la verità all’Università mi sono laureato in storia della letteratura italiana, ma l’approccio era tutto basato sulla conoscenza della storia. Progressivamente, i miei interessi di studio sono passati dalla storia letteraria alla storia contemporanea, partendo dallo studio della letteratura della Grande guerra. E l’incontro con l’Istituto di storia della Resistenza e dell’Età contemporanea di Trieste e con i suoi studiosi è stato davvero importante”.
Un aneddoto legato a questo libro?
“Ho cominciato a scriverlo che ero appena andato in pensione: i primi capitoli li ho scritti con ritmi davvero serrati di lavoro… e io che pensavo di potermi dare alle gite con la mia nuova bicicletta: sarà il destino ma l’acronimo della casa produttrice della bici – spero di non fare pubblicità – significa ‘W l’Italia libera e redenta’!”.

Foto: ROSANNA TURCINOVICH GIURICIN
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