Silvio Maranzana ha gli occhi sorridenti, ma a volte lo sguardo triste. È per il mestiere di cronista che l’ha spinto a fare emergere tutto il marcio che per anni si è depositato su questo vecchio confine di Trieste a nord-est d’Italia. Una linea di demarcazione che gli anni hanno sfilacciato e reso permeabile e ora anela a diventare frontiera per lasciarsi cullare da una definizione più aperta, esempio dei tempi moderni e non di un passato oscuro e torbido.
Decenni di giornalismo, di reportage importanti vengono ora raccolti da Maranzana in questo libro intitolato “Trieste Files” ovvero “Le verità nascoste dalla Seconda guerra mondiale a oggi” (Luglio Editore 2024, prefazione del famoso scrittore tedesco Veit Heinichen, cittadino di Trieste da molto tempo).
Il termine Files è spaventoso, sa di segreto, ma reale, una massa molle nella quale affondare le mani per cercare quasi alla cieca una risposta alle tante domande di vicende buie, occultate dalla notte, da cartelle inesplorate, da comportamenti difficili da raccontare.
Non è un classico libro di storia, ma la storia la racconta attraverso le inchieste di un giornalista che parte dalla metà degli anni Novanta per narrare al lettore curioso e spesso incredulo, per esempio la vicenda dell’oro degli ebrei sparito tra Trieste e l’Austria, cinque bauli il cui contenuto venne messo in mostra. È una storia emblematica che fa riflettere e ci induce a conclusioni anche sulla vicenda dell’esodo.
La «roba» esposta nelle sale triestine
Cosa c’era in quei cinque bauli e perché la “roba” venne esposta nelle sale triestine del Monte di pietà?
“Si voleva dare la possibilità ai legittimi proprietari di riconoscere quanto era stato alienato, ma era difficile”, racconterà l’allora sindaco Manlio Ceccovini, molti erano gli ebrei scomparsi e l’aver tolto le pietre preziose dai gioielli faceva diventare difficile il riconoscimento degli oggetti esposti. La ricerca di Maranzana segue le tracce di quella mostra e descrive un percorso:
“…le celeberrime cinque casse vengono localizzate dopo la guerra al Dorotheum di Graz e riconsegnate nel 1952 dal Governo democratico austriaco al Governo militare alleato di Trieste. Poi c’è l’esposizione, nel 1961 sono presso la sede triestina della Banca d’Italia e nel 1962 vengono trasportate a Roma dove dormiranno per 35 anni in un sotterraneo della tesoreria centrale (quasi una storia parallela a quella dei quadri della mostra Histria, oggi al Museo di Villa Sartorio, nda). Ma la questione viene riportata nuovamente alla ribalta dalla Comunità ebraica, che innesca l’inchiesta del quotidiano Il Piccolo dove Maranzana lavora (dopo la quiescenza è direttore della rivista trimestrale Nord Adiratico Magazine, nda), che riuscirà in vario modo ad arrivare a una conclusione. L’inchiesta coraggiosa e dettagliata gli varrà il premio dei cronisti giuliani mentre la ‘roba’ degli ebrei triestini andrà a testimoniare una vicenda storica al Museo della Comunità ebraica di Trieste, in via del Monte numero 5. Una conclusione se non felice per tutto ciò che rappresenta, comunque una conclusione”.
La questione dei beni abbandonati
E la roba degli esuli istriani? E la questione dei beni abbandonati?
Capitolo dopo capitolo dove si raccontano nefandezze e intrighi di una Trieste percorsa da spie e faccendieri, di un territorio alla ricerca di un equilibrio nello squilibrio voluto e provocato da tutti, al capitolo Nove si affronta il tema della “Patria perduta” iniziando con una frase secca: “La fine della Seconda guerra mondiale ha significato per l’Italia anche la perdita di Istria, Fiume con le isole quarnerine e Zara”. Per un lungo e felice periodo Il Piccolo si occupò intensamente di queste terre con le pagine redatte da Pierluigi Sabatti. Per un breve periodo Silvio Maranzana lo sostituì (2011-2012) e fu in quel momento che il cronista volle raccogliere le storie di diciotto famiglie giuliano-damate spogliate dei loro beni dal regime jugoslavo. La sua pista parte dai libri di Roberto Spazzali, lo storico che ha indagato a fondo su queste vicende, con altri colleghi triestini e giuliani come Raoul Pupo o Guido Rimici, ma anche Stelio Spadaro e altri. Maranzana con un finanziamento dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, pubblicò un libretto distribuito allora dal quotidiano triestino intitolato “La patria perduta. I tesori degli italiani in fuga da Tito”.
Per anni la questione fu una delle battaglie delle associazioni degli esuli per esaurirsi nei meandri di una speranza: chiedere allo Stato italiano il nulla osta per creare una Fondazione con i soldi depositati dalla Slovenia in una banca europea come risarcimento della Jugoslavia per i beni sottratti. Ma oggi tutto tace, non si discute più né di beni abbandonati né di Fondazione e le storie dei singoli, le storie delle famiglie depredate, entra a far parte della cronaca di un tempo senza tempo, cadendo nell’oblio.
Dovizia di particolari
Maranzana, in questo suo libro le riporta a galla, ricordando le famiglie che aveva intervistato e le cui storie aveva raccolto con dovizia di particolari qui solo accennati. Questo che riportiamo è solo parte dell’elenco che si trova nel libro con dettagli e riflessioni di contestualizzazione dei fatti: Elisabetta de Dominis di nobile famiglia di Arbe; la famiglia Luxardo di Zara; Gianni Slavich, cardiologo; Lale Zuber, nonno di Ambra Declich, armatore e banchiere montenegrino, proprietario della Zetska Plovidba; Mario Andretti di Montona; Giuseppe de Vergottini di Parenzo, che oltre ai beni confiscati ebbe alcuni familiari infoibati; Felice Mayneri proprietario di un palazzo a Ragusa; i von Hutterott di Rovigno proprietari dell’isola di S. Andrea; la famiglia di Tinzetta Martinoli, scomparsa nei giorni scorsi ultracentenaria, di Lussinpiccolo, armatori; i Baici produttori di Cherso, ma anche allevatori, commercianti, albergatori e armatori. E la lista continua. Nomi che conosciamo perché hanno fatto la storia dell’associazionismo giuliano-dalmato e che non ci sono più, come Ottavio Missoni, Lucio Toth, Guido Brazzoduro e tanti altri. Quale giustizia? “L’Italia non può e non deve dimenticare”, scrive Maranzana riportando un intervento di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale nel 2006. Il Giorno del Ricordo era diventato legge da poco facendo scattare polemiche sulla legittimità della celebrazione che commemorava una tragedia scomoda per tutti, ma comunque reale. Non si poteva più tacere, finiva l’imposizione del silenzio che Fabio Forti, dei Volontari giuliani a Trieste negli anni di guerra, aveva tante volte testimoniato con scritti e conferenze.
Tutto vero, come è vero che ci sia ancora stata una fine gloriosa, una soluzione della questione patrimoniale, niente risarcimenti equi e definitivi. Chi è andato avanti non può più battersi per la causa, chi è rimasto cerca di procrastinare fintanto che nessuno più avrà appigli per chiedere giustizia.
Eppure, lo stesso Maranzana, ipotizza una soluzione, apre le porte a una speranza, quando dieci capitoli dopo quelli in cui racconta di viaggi, spie e fango di confine, intitola il capitolo 19 “Qui si fa l’Europa. Forse”.
Un futuro diverso
Riassume infatti una dimensione che potrebbe schiudere a un diverso futuro.
“L’allargamento a est dell’Unione europea – scrive – trova proprio in Trieste, un tempo perno meridionale della ‘cortina di ferro’, come la chiamò Winston Churchill, il punto di snodo cruciale. Dopo la morte di Tito, la dissoluzione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica, oltre alla caduta del Muro di Berlino, tutto sembra possibile”. I presidenti dei Paesi limitrofi s’incontrano, tutto sembra risolto come in un sogno, spazzati via decenni di silenzio e di ingiustizie e poi il corso della politica s’inabissa ancora dilazionando l’adesione all’UE dei Paesi come la Croazia, che entrerà solo nel 2013 e verranno annacquate le richieste che sembravano prossime alla soluzione. Tutto si placa, come dopo una tempesta e bisogna ripartire. Ci vorrebbe nuova energia, ma i buoni propositi vengono inghiottiti dal quotidiano.
Maranzana non si ferma, non gli basta Trieste con le sue debolezze e le sue pieghe oscure. Se vogliamo fare l’Europa, chi avrà diritto di cittadinanza? Ormai l’allargamento a est ha creato nuove aspettative, ma siamo ancora in tempo per rimediare ai torti della storia? La domanda rimane in sospeso. Il giornalista non si dà per vinto, vuole ancora indagare, così si reca a Fiume e sente gente parlare ancora in dialetto: due donne che attendono il traghetto per Cherso. È incredibile. “Ma i veri fiumani dove sono?”, continua a chiedere in giro.
Gli indicano un luogo: “Vada al Club di bocce Mario Gennari”.
Trovarlo è un’impresa, l’hanno spostato, ci arriva grazie al buon cuore di persone incontrate per caso, dopo esse finito in un campo Rom.
E finalmente i veri fiumani che si lamentano come i veri triestini, li incontra mentre sono intenti nel gioco delle bocce e commentano: “Povera Fiume, un tempo i soldi se li mangiava Roma, poi Belgrado, ora Zagabria”. Sono preoccupati per il crollo delle industrie, il calo demografico, la scomparsa della gente, l’affievolirsi del dialetto per concludere comunque speranzosi, forse solo rassegnati sognatori: “Siamo in una fase di transizione, in Europa ci arriveremo e in qualche modo ritroveremo Trieste e gli italiani”.
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