
Ormai è un appuntamento imperdibile quello con Lednaz, personaggio che Diego Zandel propone da un libro all’altro in un sistema di vasi comunicanti che mettono in contatto la sua anima istro-quarnerina col resto del mondo. Chiaramente il protagonista è il suo alter ego. In “Eredità colpevole” punta il dito su vicende di spionaggio da Roma a Trieste, al resto della ex Jugoslavia, che si allargano e si puntualizzano nell’ultimo romanzo “Un affare balcanico” focalizzando la vicenda su un affaire che Lednaz svela al lettore in un susseguirsi di colpi di scena.
“Un affare balcanico” trae spunto da un fatto veramente accaduto, il travaso di soldi tra diverse entità per un’operazione losca. Lednaz ne è coinvolto, in che modo?
“Il romanzo è ispirato a fatti storici effettivamente accaduti, in questo caso, come ho già accennato, all’acquisto nel 1997 di quote di proprietà di Telekom Serbia da parte di Telecom Italia e, in parte anche della società di telecomunicazioni greca OTE. Erano gli anni in cui le grandi società di telecomunicazioni, non solo Telecom Italia, ma anche Deutsche Telecom, France Telekom, società inglesi e così via, per aumentare il valore delle stesse, acquisivano altre società, in particolare, con la caduta del comunismo, quelle dei singoli Paesi ex sovietici ed ex jugoslavi. Deutsche Telecom aveva già acquisito quelle croate e Telecom Italia ambiva a quelle serbe perché gran parte del traffico proveniente dall’Estremo Oriente passavano per Belgrado. Per questo non era l’unica concorrente, faceva gola sia a Deutsche che a France Telecom, il fratello di Milošević, allora presidente della Serbia, era già andato a parlare con l’allora presidente francese Chirac, c’era il rischio che Telecom Italia perdesse quella gara. Così, dopo lunghe trattative, Milošević, le cui casse statali erano vuote e non poteva pagare pensioni e stipendi pubblici, fa una proposta a Telecom Italia: se mi date 1.500 milioni di marchi tedeschi e una parte di questi me li date in contanti, Telekom Serbia è vostra. Così fu, e un aereo privato, un Falcon, partì da Ciampino per Belgrado con a bordo 893 milioni di marchi tedeschi in contanti, contenuti in 18 sacchi di juta delle Poste Serbe. Nel romanzo, a bordo di quell’aereo, c’è il mio alter ego, Guido Lednaz (palindromo del mio cognome) accompagnato da agenti segreti dei servizi italiani e serbi. Cosa succede su quel Falcon partito da Ciampino e le ragioni del perché Lednaz si trovasse su quell’aereo spetta al lettore scoprirlo”.
Non vogliamo svelare la trama, ma raccontare i contorni. Da quanto tempo questa storia cercava di uscire dalla tua penna, quale è stata la molla?
“Da quando mi è stato assegnato l’ufficio di responsabile della Stampa Aziendale al quinto piano della Direzione Generale di Telecom Italia in via Flaminia, a Roma”.
Cosa ti aveva colpito di questa vicenda: gli insospettabili che si rivelano architetti del crimine o l’involontario contributo degli ingenui?
“Il pagamento degli 893 milioni di marchi tedeschi in contanti, infilati in 18 sacchi di juta delle poste serbe. Il ruolo dei mediatori nell’affare, i cosiddetti facilitatori, a cui spettava il 3 per cento della somma pattuita. La conoscenza personale di alcuni protagonisti dell’affare. Il fatto che tutto fosse passato sotto silenzio della stampa e dei politici del tempo, a esclusione dei radicali, per altro inascoltati. Il richiamo dei miei colleghi dirigenti a Belgrado in seguito ai bombardamenti Nato del 1999, alcune loro testimonianze, tipo trovarsi una cimice per intercettare le conversazioni nella propria auto e così via. La svendita delle quote di Telecom Italia dopo un esborso simile e il tardivo clamore, con relativa campagna di stampa, che tutto ciò ha suscitato”.
Nell’affare Telekom Serbia le responsabilità emerse sono solo la minima parte di ciò che è veramente accaduto. Un caso o è un sistema perverso che i media non raccontano, un sottobosco noto solo a chi ha le mani in pasta, ieri come oggi?
“Quando girano molti soldi, c’è anche molta corruzione, che tocca anche alcuni potenti che hanno i mezzi per mettere tutto a tacere, da una parte, e chi strumentalizza dall’altra. Si aggiunga che il contratto di acquisto del 49 per cento delle azioni di Telekom Serbia, per esplicita volontà dello stesso Milošević, doveva restare un segreto di Stato per diversi anni”.
Quali sentimenti hanno accompagnato la stesura del libro?
“Molto divertimento nel condurre una storia con tanti risvolti misteriosi e personaggi davvero originali, sopra le righe, in alcuni dei quali, per puro caso, mi ero imbattuto”.
Scrivere un giallo implica il toccare punti nevralgici molto delicati se ispirato a fatti veramente accaduti, lo scrittore spesso cede il passo al cronista. È così?
“In romanzi come ‘Un affare balcanico’ la documentazione è d’obbligo. E le fonti di informazione le più diverse. La conoscenza poi dei personaggi, aiuta”.
In “Eredità colpevole” ti sei lasciato trasportare anche dalla poesia descrivendo luoghi, sensazioni, persone, in “Un affare balcanico” tutto è incalzante, ci sono i fatti, il resto scompare. È stato più difficile calarsi in questa essenziale e necessaria ricerca della verità?
“In ‘Un affare balcanico’ ci sono anche emozioni, ne emergono parecchie: la paura, il sospetto e la diffidenza nei confronti delle persone con le quali ti relazioni e, insieme, il fascino dell’intrigo e del mistero, soprattutto se è espresso da una bella donna, il porto sicuro degli affetti familiari e, nello stesso tempo, la cautela nel confidarti troppo per non creare preoccupazioni o gelosie nelle persone che ami. E poi ci sono pure i ricordi: come di quella festa di matrimonio serbo sulla spiaggia di Termoli in Molise, salita a suo tempo alla cronaca per i colpi di pistola esplosi in aria in onore degli sposi e di cui avevo sentito parlare le volte in cui, dirigente di Telecom Italia, ero capitato a Campobasso in rappresentanza della Direzione Generale”.
Il Premio Fulvio Tomizza che i Lions Trieste Europa ti hanno assegnato nel 2023 è stato un momento di grande emozione per il rapporto che avevi con lo scrittore istriano. Cosa ti lega a lui?
“L’amore per la nostra terra, che è il motore dei nostri romanzi. Ma, soprattutto, un sentimento di riconoscenza, essendo stato lui a spedire al mio primo editore, Mondadori, il mio romanzo d’esordio, diventando così, indiscutibilmente, il mio padrino letterario, oltre ad essere un caro amico. Sono rimasto molto commosso la volta che alla presentazione di un mio libro a Trieste si è presentata la moglie, dicendomi ‘Sono venuta solo per salutarla, perché so che la era un grande amico de Fulvio’. L’ho abbracciata forte, senza riuscire a dire altro se non ‘Grazie!’”.
In questo difficile rapporto tra esuli e rimasti quanto è importante comprendere il proprio ruolo senza far torto a nessuno, ma cercando di costruire?
“Fin da quando ho scoperto la mia vocazione di scrittore e del mio legame con l’Istria e Fiume, ho pensato anche che fosse necessario ricomporre la cultura di questo nostro territorio multietnico, multilinguistico e multiculturale, che i nazionalismi e i totalitarismi del Novecento hanno cercato di disperdere in nome di una sola di queste componenti. Sono convinto, infatti, che la bellezza di una terra stia nella ricchezza delle genti tutte, delle lingue e delle culture che la abitano. L’esodo, in questo senso, è stato devastante e oggi è più difficile ricomporre il tradizionale tessuto istro-fiumano. Purtroppo, non c’è ancora piena consapevolezza di questo, molti cedendo alla lusinga di un’unica dimensione, ma sia come scrittore, sia come membro dell’AFIM, si sta lavorando in questa direzione”.
Occuparti di cultura all’interno dell’AFIM che cosa ha determinato e cosa ti ha restituito?
“Sono diventato un attivista dell’AFIM dopo la morte dei miei genitori, che hanno sempre partecipato, con gli altri fiumani del Villaggio Giuliano di Roma, dove abitavamo, ai raduni. Mi sembrava doveroso, e ringrazio Franco Papetti che, alla sua elezione, mi ha scelto per far parte della sua squadra che va nella direzione da me auspicata. Essendo uno scrittore, ha pensato bene di darmi responsabilità in questo senso. Credo che la cultura sia il miglior viatico al dialogo e alla integrazione culturale. L’iniziativa portata avanti negli ultimi quattro anni di far conoscere ai fiumani di oggi gli scrittori fiumani del passato li aiuta a comprendere, meglio di tante dichiarazioni politiche, la storia della loro città, che non è nata il 3 maggio del 1945, ma molti secoli prima”.
A settembre partiranno le presentazioni del romanzo per toccare anche Fiume nel novembre prossimo durante il Raduno dei fiumani? Anche se non parla direttamente di questa città, in che modo la comprende?
“Al protagonista del romanzo, ovvero Guido Lednaz, ho dato la mia stessa biografia, cioè quella di essere nato in un campo profughi da esuli fiumani e allevato, a causa di un lungo ricovero della mamma in un sanatorio, da una nonna istro-croata, che mi parlava in ciacavo, una lingua poi praticata nelle estati in cui andavo a Fiume a trovare i nonni. Questo elemento avrà molta importanza nel romanzo, perché spinge, da una parte, i mediatori serbi nell’affare balcanico e, dall’altra, l’azienda Telecom, a infilarlo, ciascuno credendo di averlo al proprio servizio, nelle trattative con non pochi colpi di scena. Naturalmente, come ogni romanzo che si rispetti, non si sa dove comincia il vero e finisce il falso, e viceversa”.
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