
Inventarsi è il motto del momento, per uscire da una quotidianità senza molte vie di scampo. Mettere l’intelligenza personale al servizio di noi stessi e degli altri, uscire dall’accettabile per inventare l’impossibile del gestibile. Una sfida che investe soprattutto le donne che continuano a fare un doppio sforzo per imporsi nel mondo del lavoro, nella società, ovunque le porti il sapere o il dovere. Ancorate ai valori della famiglia, traggono forza dalla propria storia. L’esodo, che ha segnato profondamente mamme, nonne e bisnonne, è anche per loro un insegnamento senza tempo. A ottant’anni dalla dissoluzione di un mondo italiano in Istria, Fiume e Dalmazia, territori ceduti alla Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale, il ricordo, la memoria di quei fatti è affidata alle nuove generazioni di nipoti e pronipoti. Incredibile scoprire la forza dei loro legami, come ci racconta Martina Marciano nata a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, cresciuta a Roccasecca, vive a Roma dal 1999.
Quando a scuola raccontavi della tua famiglia, quali erano le reazioni?
Da piccolina non ne parlavo, non mi era molto chiaro, non ero consapevole delle mie origini, le vivevo sapendo che c’era qualcosa di “diverso” ma non mi era chiaro cosa, a parte l’accento “esotico” delle nonne e dello zio Gianni e il mito di questo posto favoloso chiamato Rovigno… poi un giorno la maestra delle elementari, avevo 7-8 anni, mi chiese di chiedere a mia nonna la sua storia e quella del famoso campanile. Tornai a casa, chiesi e scoprii il significato della parola “profugo” e l’amore di una donna nei confronti del proprio paese e il dolore per averlo lasciato. E da allora iniziai a raccontare e i miei racconti erano accolti con ammirazione e curiosità. In Ciociaria non è come in Friuli o in Veneto, i miei nonni erano gli unici, non c’erano altri, non c’erano i campi profughi vicino, per i “locali” erano i nordici eleganti e riservati che avevano vissuto una tragedia e avevano dovuto ricominciare lontano da casa loro.
Le radici della tua storia?
Mia nonna, Francesca Braico, è nata a Rovigno a novembre del 1935, scappata nel 1951, il giorno del suo compleanno, lasciando come tutti gli esuli, case e terre, amici e parenti. Una volta arrivata in Italia è stata una settimana circa in un centro di prima accoglienza, poi, grazie alla disponibilità di una zia, non è andata in un campo profughi, ma nella casa delle vacanze di questa zia in Ciociaria, a Roccasecca. Lì ha conosciuto mio nonno, si è sposata ed ha avuto 5 figli e 9 nipoti, di cui io sono la prima”.
Vieni spesso a Trieste, come hai costruito questo legame?
Mio bisnonno era marinaio al porto di Trieste e spesso tornava per pochi giorni e poi ripartiva, allora, tempo prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale, invece di tornare a Rovigno aveva preso una casa in affitto a Trieste, dove lo raggiungevano moglie e figli. Quindi mia nonna ha vissuto tra Trieste e Rovigno, per questo sono entrambe importanti nella mia vita. La mia bisnonna, Maria Cattonar, detta “la signora” al mio paese per via della sua eleganza e riservatezza, è morta che avevo 12 anni, quindi mi ha cresciuta con filastrocche triestine e sarde in saor.
Quindi hai un rapporto forte anche con Rovigno?
Sono andata a Rovigno quattro volte, raggiungerlo dalla Ciociaria è lontano, ma tre anni fa, avevo 42 anni, c’è stata una svolta nella mia vita, dovevo scegliere se annullarmi o prendere in mano la mia vita e viverla e ho deciso di vivere, anche per dimostrare ai miei figli che si può, che non si deve mai permettere a nessuno di dirti chi sei e come vivere, che per essere felici bisogna amarsi e realizzare i propri sogni senza farsi schiacciare dalla prepotenza di chicchessia. E ho deciso di iniziare a vivere da Trieste, da dove la mia storia mi chiamava e non riuscivo a resistere al richiamo. Ho avuto questo coraggio anche perché qui c’era un mio carissimo amico, anche lui di origini istriane, Maurizio Cociancich e la nipote di mia nonna, la straordinaria e nota artista Nevia Gregorovich, e sapevo di avere un punto di riferimento importante qui, sapevo che non avrei ricominciato da sola.
A portarti a Trieste è stato quindi anche il tuo lavoro, una realtà di nicchia?
Dirigo una confederazione di piccole imprese, grazie a Maurizio che è un imprenditore importante del territorio triestino, ho iniziato questa mia nuova vita aprendo sedi nel nordest e creando, insieme ad altri professionisti, tra cui la sorella di Maurizio, Antonella Cociancich, nuovi strumenti a sostegno degli imprenditori e un nuovo modo di intendere la rappresentanza sindacale datoriale.
Non è un linguaggio semplice per i non addetti ai lavori, puoi spiegare di cosa si tratta?
Diciamo che la selva di leggi, burocrazia e adempimenti fiscali che gli imprenditori devono affrontare, sono soltanto alcuni dei tanti problemi con cui, quotidianamente, si trovano a dover combattere i micro piccoli e medi imprenditori italiani. In questa selva di ostacoli le MPMI hanno bisogno di un appoggio da parte di altre aziende che condividono le stesse difficoltà: poter contare su una confederazione che mette loro a disposizione strumenti è fondamentale.
Come si chiama questa Confederazione e da quanto ne fai parte?
La sigla è CEPI, Confederazione Europea delle Piccole Imprese, si occupa degli strumenti e delle strategie per facilitare la vita e migliorare l’attività delle aziende. Praticamente un laboratorio per le imprese italiane che mette al centro l’imprenditore in quanto persona e non solo come insieme di numeri, dati, bilanci, dipendenti, fatturato e imponibile. Il mio ruolo è di Direttore Generale.
Formazione, trasporto intermodale, il vostro è un impegno a tutto tondo. È possibile?
Si lo è, c’è bisogno di studio continuo, di perseveranza ma anche di collaborazione e ascolto da parte delle istituzioni, dei politici e di consapevolezza da parte degli imprenditori sul fatto che il loro è non solo un lavoro per portare lo stipendio a casa ma un lavoro di importanza sociale, che dal loro successo deriva la sopravvivenza di diverse famiglie e una crescita economica territoriale, quando si raggiunge un discreto grado di fiducia da parte di tutti i soggetti coinvolti si possono raggiungere traguardi altrimenti impensabili, il mio motto è “insieme possiamo!”.
Che cosa significa per te occuparti di sviluppo del Nord-Est. Non è solo economia, non è solo un riferimento geografico?
Per me è cuore, è passione, è prendermi cura di un territorio che mi ha dato la vita, che ha contribuito a rendermi quella che sono oggi.
Hai avuto modo di constatare che il tessuto imprenditoriale del Nord Est stia attraversando una fase di transizione, segnata dal calo del numero delle aziende attive, come mai?
Sono soprattutto le imprese individuali e le società di persone a chiudere, società di capitali invece aumentano, anche se in misura minore rispetto al calo delle prime. Credo sia soprattutto un problema burocratico: gli imprenditori trascorrono molto del loro tempo compilando moduli, monitorando scadenze, facendo file presso uffici pubblici e tolgono tempo all’attività per cui avevano aperto la loro azienda e per cui sono preparati, rischiando multe. Qualche dato come esempio: nel 2023 la base imprenditoriale regionale ha sfiorato le 425mila imprese, con una perdita di 4.788 unità rispetto alla fine del 2021, ovvero -1,1%, un dato anche peggiore di quello nazionale (-0,7%). Le uniche società a crescere sono quelle di capitali (+2,5%), in contrasto con le società di persone (-2,4%) e le ditte individuali (-2,3%), che continuano però a rappresentare il blocco vitale dell’attività imprenditoriale nel Veneto. Così come una riduzione si è registrata nel campo delle aziende legate all’artigianato, scese dal 31,3% del totale delle imprese venete nel 2009 al 28,7% attuale.
Cosa si può fare?
I nostri informatici, su impulso del nostro dirigente veronese l’ing. Carlo Tenca, hanno creato uno strumento di gestione documentale con cui i nostri professionisti possono supportare gli imprenditori togliendo loro gran parte dell’incombenza ed essendo noi una realtà strutturata e presente in modo capillare su tutto il territorio nazionale possiamo essere competitivi anche dal punto di vista economico e possiamo far accettare il nostro prodotto dalle istituzioni che ci riconoscono come garanti dell’affidabilità delle informazioni.
Che cosa sai dell’associazionismo giuliano-dalmato?
Io nulla purtroppo, ma la d.ssa Cociancich, la nostra coordinatrice nord-est Balcani è un’esperta.
Nei tuoi progetti c’è anche un allargamento ad est per incontrare le imprese in Istria e a Fiume?
Sì, il progetto è già operativo, infatti abbiamo previsto un coordinamento nord-est Balcani guidato dalla d.ssa Antonella Cociancich.
Che cosa porti con te della storia della tua famiglia, quali valori, quali principi?
Forza, indipendenza, determinazione, rispetto, la consapevolezza che ogni fine è l’inizio di qualcos’altro, che non bisogna arrendersi, perché ricominciare si può e può essere stimolante e divertente, anche se difficile e doloroso, questo mi hanno insegnato con le parole e con l’esempio.
Una via di Trieste o di Rovigno in cui ti senti a casa?
“Rovigno: via Augusto Ferri, dove c’erano le case di famiglia. Trieste: Portopiccolo, casa di Nevia Gregorovich, dove respiro famiglia, dove gusto i sapori di casa e dove vivono, nelle foto e nei ricordi di Nevia, le storie dei miei antenati”.

Foto: Collezione privata Martina Marciano
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