Quei caratteri tipografici che hanno segnato una vita

Intervista all’editore Claudio Luglio, capodistriano di nascita ed esule nel 1953 con la famiglia a Trieste perché «la situazione politica stava diventando sempre più difficile, le restrizioni economiche erano una pesante realtà soprattutto per gli italiani autoctoni»

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Quei caratteri tipografici che hanno segnato una vita
Con la madre a Barcola, nel giardino di fronte all’albergo “dei americani”. Foto: GENTILMENTE CONCESSA DA CLAUDIO LUGLIO

Sessant’anni di lavoro nel campo della stampa. Un’attività così longeva suscita curiosità e ammirazione, tanto più se si riferisce al percorso di un’unica persona, Claudio Luglio, nato a Capodistria nel maggio 1948. Nel 1953 esule con la famiglia a Trieste perché “la situazione politica stava diventando sempre più difficile, le restrizioni economiche erano una pesante realtà soprattutto per gli italiani autoctoni”.

Il padre stava già lavorando presso la Tipografia triestina Modernografica e ciò rese più semplice per la famiglia decidere di lasciare Capodistria per Trieste. Claudio, nel diario del padre, conoscerà alcune premonizioni rivelate in sogno che egli descrisse fin nei minimi particolari e che troviamo riportate nelle prime pagine del libro “Mai stato in fuorigioco”, un omaggio a un uomo che si intuisce di grande spessore e ai 60 anni di continuazione sulla medesima strada.
Se professionalmente il suo racconto descrive una linea retta, in effetti le premonizioni del padre si riflettono sulle scelte del figlio che svilupperà un’incredibile capacità di riconoscere le opportunità e saprà avere il coraggio di accettare sempre e comunque le sfide, ma senza mai porsi in una posizione scorretta… mai in fuorigioco, appunto.
Una caratteristica di famiglia.

Suo padre è stato un faro, ma anche la nonna ha avuto un ruolo importante nella sua vita…
“Aveva sempre voluto essere indipendente e giunta a Trieste decise di gestire un’antica trattoria ‘Alle Barettine’ dove andavo a trovarla quando da ragazzino abitavo in zona Barcola. A Capodistria aveva lasciato i suoi averi, gli affetti, aveva affrontato la vedovanza, ma mai l’avrei sentita recriminare su ciò che era successo. Sapeva di dovere andare avanti senza rivolgere lo sguardo al passato, un grande insegnamento. La mia infanzia è stata indimenticabile. Ogni sera al capolinea della Sei attendevo l’arrivo di mio padre e assorbivo ogni notizia sui risultati riguardanti la stampa. Già allora era amore”.

Determinò la scelta della scuola?
“Allora s’imparava lavorando, ma prima studiai all’indirizzo Radiotecnico che apriva molte strade. A quindici anni entrai come apprendista nella ditta Smolars che contava 200 dipendenti, compreso mio padre che era caporeparto nella stampa”.

Il Novecento è stato il secolo delle grandi accelerazioni, il mondo della stampa ne è stato un esempio. Lei come ha vissuto i cambiamenti di rotta?
“I primi ricordi sono legati ai rumori, dal silenzio irreale dei tavoli da composizione, alla bolgia dantesca delle macchine da stampa tipografiche e le prime rotative perennemente in moto. Dopo quattro anni, sostenni l’esame per diventare dipendente di terza categoria. Allora esisteva la pazienza della gavetta. Poi venne il servizio militare a Roma e poi a Treviso con la Folgore. Al ritorno a casa affrontai il grande passaggio alla prima macchina offset, il piombo sarebbe sparito di lì a poco, era un mondo che svaniva tra anelito alla modernità e rivendicazioni sindacali. Ma per me ci sarebbe stato un cambio anche più radicale, avrei lasciato la sicurezza della Smolars per iniziare il mio percorso verso un’imprenditoria autonomia, padrone di me stesso passando, nel corso degli anni, attraverso un rapporto societario con diversi colleghi”.

Ma quale fu la vera svolta?
“Il desiderio di realizzare qualcosa di unico, sostenuto dalla mia giovane sposa, e complice mio padre che mi aveva portato già da ragazzino allo stadio, ovvero un settimanale sportivo. Fu il primo di tante novità lanciate sul mercato locale, sempre affamato di una stampa che seguisse l’evolvere delle esigenze di una società in cammino”.

Che cosa la guidava in queste scelte coraggiose, produrre dei giornali è sempre una sfida?
“Oggi ripensandoci mi rendo conto che ero mosso da un’incosciente e incrollabile fiducia nella mia professione. Con lo Studio Gamma di Borgo San Sergio ero diventato veramente imprenditore di me stesso. Nel 1977 usciva il primo numero di ‘Trieste sport’. Poi uscì ‘Il Mercatino’, un successo senza precedenti, uno dei tanti che si succedettero, con ‘Abitare Trieste’, per esempio o ‘Lunedì Sport’ fino ad arrivare nel dicembre del 1990 al primo quotidiano. Si trattava di ‘TriesteOggi’, giornale che ha lasciato il segno, un’esperienza straordinaria e una mia vittoria personale”.

Una testata purtroppo svanita per questioni di carattere politico. Erano gli anni di Mani pulite… e il fallimento fu inevitabile.
“Influì profondamente sulle mie sicurezze, ma tentai di salvare il salvabile aderendo all’idea di una cooperativa di giornalisti intenzionati a far continuare l’informazione a Trieste che facesse da stimolo e contraltare a ‘Il Piccolo’. Nacque ‘La cronaca’, ma non ebbe vita lunga. Il dispiacere fu grande, ma bisognava continuare. L’istriano (proveniva da Gimino) Primo Rovis, l’uomo del Caffè, mi propose di realizzare la rivista ‘Amici del Cuore’. Ma fu la Modiano a determinare un nuovo cambio e nuove sfide. Mio figlio Andrea, nel frattempo, era diventato uomo e pronto a continuare la tradizione di famiglia, anche con l’inaugurazione nel 2015 della libreria in Galleria Rossoni con tutte le nostre pubblicazioni. Stampatori, ma anche editori, i nostri autori sono tantissimi”.

Alla Camera di commercio di Trieste gli editori avevano dato corpo a Carta e Grafica che li riuniva tutti. Non a caso si tenne a Trieste il primo Salone del libro in FVG, Piazza Gutenberg ideata da Anna Rosa Rugliano con un gruppo di intellettuali impegnati. Una rivelazione?
“Aderimmo tutti con grande entusiasmo, era una palestra, una vetrina del nostro lavoro e con la partecipazione di autori di grido provenienti da tutta Italia, scrittori, storici, critici d’arte e così via. I nostri libri, esposti contemporaneamente evidenziavano la ricchezza dell’editoria triestina. Moltissimi i titoli sulla vicenda giuliano-dalmata, dai primi coraggiosi romanzi ai volumi di storia e alle testimonianze. Accanto all’esposizione dei libri, gli incontri, le tavole rotonde, tutto contribuiva a risvegliare una Trieste magica. L’entusiasmo era senza precedenti. L’esperienza si spense per mancanza di fondi e forse perché la cultura non veniva considerata allora come una fonte sicura di reddito. L’idea venne raccolta da Pordenone e continua ancora oggi con Pordenonelegge…”.

C’è stato spazio per la sua famiglia in tutta questa avventura?
“Continuo a ringraziare mio padre per i valori ricevuti ai quali ho cercato di tenere fede. Nella maturità posso contare sul supporto di mio figlio. Nipote e figlio di tipografi, ha una delicata sensibilità grafica e un raffinato gusto del bello per cui ha arricchito il nostro lavoro con il suo estro artistico. Anche mia figlia Sara, più giovane di Andrea, ha un ruolo insostituibile nella gestione delle librerie. Quando lavoro con la chiara percezione di avere tutta la famiglia al mio fianco, provo una immensa soddisfazione, per questa nostra unità che resiste in un mondo caratterizzato dalla disgregazione. Credo di avere onorato ciò che il destino aveva previsto per me, il futuro sarà un’altra storia, ancora da scoprire”.

Dipinto della casa dei nonni a Capodistria, con sottostante la trattoria “Al Friuli”, realizzato dall’artista Adriano Fabiani.
Foto: GENTILMENTE CONCESSA DA CLAUDIO LUGLIO

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