Ovunque mi abbia condotto la vita la rotta su Trieste mi riporta a casa

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Ovunque mi abbia condotto la vita la rotta su Trieste mi riporta a casa

Roberto Max Storai Lucich, un nome articolato che corrisponde benissimo alla personalità di questo corregionale nel mondo: legato a Trieste e all’origine della sua famiglia nella nostra terra di confine ma con i piedi Oltreoceano dove è cresciuto e dove rappresenta l’FVG in quel di Brasilia. Ride divertito di questa “semplice complessità” che gli ha dato il senso degli spazi, delle distanze che tali non sono, della continua ricerca di una dimensione che gli assomigli e che forse sublima sentendosi ovunque a proprio agio ma con il pensiero sempre fisso su Trieste, città che adora.

Si può appartenere a tanti luoghi contemporaneamente? Da queste nostre parti è una regola…

“Mi chiamo Storai, ovvero il cognome della mamma nata in provincia di Prato, in una frazione detta La Storaia, dove tutti hanno lo stesso cognome, si sposano tra di loro, generando allegria o genialità. Mio padre è triestino, nato come Mario Luciani. La bisnonna era boema, la nonna paterna era rovignese: un perfetto mix italo-austroungarico”.

Ci sono stati momenti, in questa nostra terra, in cui tutto era precario, i nomi delle famiglie e, più tardi, quelli delle città e delle loro vie, la testardaggine nel rimanere come la necessità di andare.

“Mio padre era nato in America, poi tornato in Italia e poi ancora in America”.

Più complicato del previsto ma Max lo racconta con gioia, con il senso continuo di chi abbraccia la vita con entusiasmo ed è in grado di cogliere sempre le sfide. Difficile mettere ordine a questo continuo andirivieni tra l’Europa e l’Oltreoceano ma è tutto più semplice se si tratta della storia di un capitano.

“Era mio nonno, si chiamava Marcello Luciani, solcava i mari ma teneva la barca nel porticciolo di Grignano. Il suo talento per il commercio lo portò negli anni ‘50 ad aprire un magazzino a New York, che aveva chiamato Emporio dal triestino, impossibile confonderlo, dove si vendevano tutti i prodotti che nel dopoguerra andavano per la maggiore, jeans, rossetti, le marche famose. A disposizione dei marinai che sbarcavano al Pier 23, linee italiane. Era l’epoca delle grandi navi Trieste-NY”.

Ma come ha fatto tuo padre a incontrare una ragazza toscana se viveva in America?

“Il nonno l’aveva inviato a Prato a seguire il percorso dei contenitori di stracci che lui spediva da NY per il riciclo dei materiali. In effetti, ora lo si può dire, arrivavano in Italia passando dal Territorio Libero di Trieste con un permesso di importazione tramite il porto franco di Trieste”.
“Mario doveva elaborare e seguire il meccanismo per fare arrivare tutto a Prato. Cosi conobbe la mamma e se la portò in America, per tanto sono cresciuto tra Trieste e New York. A Brooklyn c’era questa forte comunità italiana, dove l’inglese, come lingua, non entrava. Ma mi sento triestino per avere avuto il piacere di vivere a Trieste con il nonno. Papà, a New York, diventa Mario Lucich affrontando il trauma dell’identità. Io sono nato nel ‘56 e quando avevo quattro anni, la famiglia fece ritorno a Trieste. Un destino di gente atipica in tutti i sensi, mentre la maggioranza andava Oltreoceano, noi rientravamo”.

Per quali ragioni?

“Commerciali. A Trieste il nonno creerà l’Intermercator per portare la cinematografia in Jugoslavia. Il primo film realizzato oltreconfine sarà una storia di vichinghi con Kirk Douglas, girato sul Canale di Leme. Era il periodo in cui mio padre lavorava a Roma tra copioni, attrici, registi e Cinecittà con un’incredibile voglia di bruciare i tempi. Poi decide di rientrare in America, questa volta nel New Jersey, dove aprirà una ditta di produzione di pollame e uova. Era un genio”.
“Ma per me, legato a Trieste, questi spostamenti furono difficili, diventai un bambino adulto. In America vivevamo in campagna, ma d’estate ritornavo a Trieste. Nel frattempo avevo perso i contatti con gran parte dei parenti, quelli rovignesi per esempio, con i quali non ci siamo più incontrati nonostante fossero giunti esuli anche loro a Trieste. Con il tempo ho realizzato che la mia vicenda era molto europea, riguardava tante famiglie disperse, soprattutto nel dopoguerra. Ciò mi ha portato a documentarmi, a cercare, a studiare”.

Gli spostamenti di popolazioni sono noti a pochi, non se ne parla, semplicemente si ignorano per la loro complessità…

“Infatti. Anche mia madre ha una storia singolare, è cresciuta in Corsica, dove la sua famiglia era fuggita per non soccombere alle persecuzioni del fascismo. Scoppia la guerra e si ritrovano profughi nel nord della Sardegna, ci vorrà un anno per tornare in Toscana perché la guerra non permetteva grandi spostamenti, andranno vagando da una caserma all’altra. Tornati finalmente a casa, venivano chiamati i francesini, perché soprattutto i più piccoli avevano la tipica inflessione di pronuncia. Il loro è stato un esodo che nessuno conosce. Ecco perché lei ama Trieste, perché è ibrida, perché le assomiglia”.

Da qui la tua scelta di una facoltà umanistica?

“Anche qui una dicotomia. O una doppia identità: mi sono laureato in letteratura all’Università americana di Pennsylvania con specializzazione a Firenze, ma anche in biologia per mettere pace in famiglia”.

Oggi sei un rappresentante dell’Associazione Giuliani nel Mondo a Brasilia, il tuo racconto ci aveva lasciati agli anni in cui vivevi in USA…

“Ho sposato una brasiliana, per aggiungere pepe alla complessità della mia storia famigliare, lavorando per lunghi anni all’Istituto per il Commercio estero (ICE). Nella storia del Brasile le immigrazioni italiane sono state importanti tanto da aver condizionato lo sviluppo della lingua portoghese parlata in loco. Solo nel ‘96 sono diventato professore di lingua inglese all’Ateneo e nel ‘97 anche di lingua italiana”.

Come mai la scelta di passare all’insegnamento?

“Era da sempre una mia aspirazione ma intendevo limitarmi all’inglese, poi, incontrai Fulvio Tomizza in casa dello zio che abitava a San Giusto. Lo conoscevo di fama, non solo per i suoi libri, ma anche per i vari inviti, gli articoli di giornale che i parenti mi mandavano via posta. Arrivavano anche le pagine del Piccolo, la Cittadella in particolare, dove ritrovavo la musicalità del dialetto e lo spirito triestino. Lo zio abitava vicino a San Giusto e raccontava sempre delle campane, bisognava fare attenzione all’orario di visita della torre campanaria per non essere travolti dal loro suono. Una volta capitò e fu terribile. In Brasile Trieste è un mito, c’è un forte rapporto dovuto proprio al commercio del caffè, un legame che funziona. Quando incontrai Tomizza mi convinse che sarebbe stato importante per me insegnare l’italiano, era la mia identità. Così è stato”.

Sei presidente del Circolo giuliano, in cosa consiste la vostra attività?

“Proponiamo tutto ciò che caratterizza il panorama italiano: incontri culturali per praticare la lingua italiana, conferenze, cinema. Dal 2015 operano anche i Comites di cui sono parte. Tre anni fa il Circolo è stato riconosciuto ufficialmente per cui facciamo attività anche con l’Ateneo. Ho fondato anche un coro misto italiano, cantiamo a quattro voci esibendoci nell’ambito universitario e in tutto il Brasile, ma siamo stati invitati anche in Argentina. Ed abbiamo grandi progetti. Nel 2019, a Brasilia si svolgerà il secondo incontro dei cori italiani. Qui la tradizione corale è molto forte”.

Ma voi con cosa vi presenterete?

“Il nostro programma è vasto, spazia dal classico al popolare. Anche musica anni sessanta, eseguita sempre a quattro voci. Il desiderio del canto fa parte di me, forse è genetico. Un’attività vincente in un Paese in attesa di cambiamenti. I mondiali hanno distratto la gente dall’attualità ma ad ottobre ci saranno le elezioni e speriamo che la situazione migliori. La sfiducia è grande. La nostra non è una situazione felice. Mancanza di democrazia, ci stiamo avviciniamo alla situazione venezuelana. Ma la nostra attività continua: il 26 novembre di quest’anno verrà inaugurata la mostra sull’emigrazione giuliana nel mondo, con nuovi pannelli riguardanti la nostra realtà. Sarà un modo per rendere testimonianza della nostra presenza e di farci conoscere ulteriormente. Maria Concetta Zuppa, abruzzese, mi da una mano. Siamo riusciti anche ad avere la messa in lingua italiana due volte al mese dai francescani, ci aiuta un socio dei giuliani nato a Postumia, Basilio Cavalli”.

La distanza è grande, ma oggi c’è internet. Che cosa rappresenta per voi?

“È un veicolo incredibile, un punto di riferimento, non vivo di nostalgia ma questa nuova realtà è fantastica, siamo in tanti, una tribù, accendo internet e ritrovo la gente di casa, grandioso. Molti non sentono questo richiamo delle radici, per me è fondamentale, per il bisogno della terra ma anche del grande rapporto con il mare”.

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