Nevia Gregorovich nell’onda che va…

Dedicato a una persona persuasa del suo ruolo e della sua storia che attraverso esperienze diverse ebbe una vita da girovaga

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Nevia Gregorovich nell’onda che va…
Nevia Gregorovich. Foto gentilmente concessa da Martina Marciano

Chissà fino a dove arriverà l’Onda dipinta in mille movimenti da Nevia Gregorovich, bella carica, piena di energia e di simbologie, la forza delle radici e quella del ritorno… Cara amica, ci ha lasciati di recente. Difficile raccontarne i percorsi che si diramano in mille rivoli. È venuta a vivere a Trieste, precisamente a Portopiccolo di Sistiana, solo pochi anni fa per stare accanto alla madre, lasciando la Milano degli anni dell’attività professionale. Non era stato solo un ripiego, ma quasi una necessità di riannodare i fili con la sua terra e le sue genti alle quali si è concessa con grande generosità.
Questa sua breve biografia l’avevamo preparata per il catalogo della mostra allestita a Fiume dedicata proprio a quest’”Onda che va” e tutto travolge o riporta alle origini: nata a Parenzo il 26 gennaio del 1947, nel ‘56 si trasferì con la famiglia in Lombardia dove ha vissuto persuasa di dover conquistare il mondo, dove sono nati i suoi due figli, Claudio e Riccardo. La Gregorovich è stata docente di musica, affrontando profondi e ampi studi in varie discipline, anche in campo sperimentale.
Gli anni ‘80 l’hanno vista impegnata in concerti in duo pianistico “BERTI-GREGOROVICH” con esibizioni in Italia e all’estero. Dall’anno 2000 ha collaborato con il compositore Luigi Donorà di Dignano, esule a Torino, quale “coautrice” in esecuzioni concertistiche di musica d’avanguardia collegate spesso a mostre multimediali. Si ricordano, organizzate da lei, quelle a Barcellona all’Istituto di Cultura Italiana, a Trieste-Palazzo Costanzi, a Milano col poeta Donato Di Poce, a Dignano-Pola in Istria.
Nell’anno 1989 la sua prima mostra di pittura a Milano. Da allora comprese che era questa l’espressione d’arte a lei più congeniale e non si è più fermata. I primi lavori riguardavano l’uso insolito della lastra d’alluminio come supporto al posto della tela e i colori trasparenti sintetici per creare colore/luce con interventi di chine. Poi le grandi tele con l’ampia pennellata del materico e dei colori a olio la liberavano verso una ricerca stilistica più consapevole. Molti i premi vinti, anche prestigiosi e numerose le esposizioni personali e collettive in Italia e all’estero. Sue opere figurano in pinacoteche, musei, centri culturali e collezioni pubbliche e private, italiani e stranieri. Importanti anche le pubblicazioni sulla ritrattistica, la grafica (scuola di Gigi Pedroli), la fotografia verso la quale si nota una spiccata predilezione per il “macro”. È inserita nei più importanti cataloghi d’arte.
A Trieste si è distinta con la partecipazione alla Biennale Donna, ma tornava spesso anche a Milano recando con sé opere di grande valore e dimensioni. Dappertutto c’erano ad attenderla gruppi di amici che hanno avuto modo di godere della sua incredibile empatia e dell’entusiasmo che permeava ogni suo gesto, ogni idea, ogni progetto.
È mancata durante una notte quieta d’inizio anno, senza preavviso, senza un lamento, solo quella parola Fine che nessuno riesce ad accettare. E fine non sarà finché si continuerà a parlare della sua opera, anche di quella inedita.
Negli ultimi anni aveva confidato agli amici più intimi di avere messo in cantiere una storia di famiglia che voleva lasciare come testamento alle sue nipoti Nevia e Giulia. Perché? Anche la scrittura era nelle sue corde, come il racconto infinito di fatti di famiglia, emblematici della storia di un popolo.
Al nostro primo incontro, aveva esordito: “Ho iniziato a studiare pianoforte con la maestra Erinna Sivilotti a Parenzo”, estraendo da una busta di plastica delle foto di lei bambina davanti a una tastiera con al suo fianco l’insegnante, severa ma innamorata della sua professione o passione per la musica. Capace di riconoscere i talenti.
“Era anche la mia maestra – aveva fatto eco una bella signora dal tavolo accanto al nostro, che aveva captato il discorso – ma a Rovigno. Mi considerava brava se mi aveva scelta per accompagnarla in un saggio”. All’improvviso le due memorie s’erano incrociate; con Nevia l’imprevisto capitava spesso. Eravamo a Trieste, ma poteva essere a Capodistria o a Pola, come succede in questa parte di mondo che non finisce al confine, che dilaga fin dove arrivano la lingua, la cultura, le esperienze, spalancando nuove condivisioni bidirezionali, importanti. Una sensazione che ci avrebbe accompagnate in quella e in altre interviste non convenzionali, alla ricerca delle tante cose che uniscono chi è nato sullo stesso mare.
Perché è proprio il mare il tema che Nevia ha rincorso nella sua pittura, passando per esperienze diverse che l’hanno fatta conoscere e amare. Proprio a Trieste di lei si era occupato per tanto tempo, con slancio e autentico apprezzamento il critico Carlo Milic, che insieme a tanti altri l’aveva fatta conoscere aiutandola a crescere, a trovare la propria strada tra le tante che la vita
le aveva concesso. Accanto alla pittura, la musica, in una forte interazione, ma anche la fotografia. Un’elaborazione del semplice scatto, passato su tela e così esaltato al massimo. A Capodistria, durante la Settimana della Cucina italiana era stata esposta la sua “Frutta erotica”, poi a Trieste, poi diventata copertina di riviste, tra queste “Eccellenza” destinata all’informazione del mondo diplomatico.
“La mia famiglia chiese di poter partire da Parenzo già nel 1948 – ci aveva raccontato durante i nostri spostamenti – ma la risposta positiva arrivò solo nel 1956. Giusto il tempo di frequentare i primi anni di scuola”.
Al momento degli addii i compagni di classe le consegnarono un quaderno dei Ricordi, come allora si usava. Una pagina per ciascuno con delle frasi e disegni. Una di queste era il Memento dell’amica Petretti, “ricordati che non c’è nulla che attiri la sventura più che il piangersi addosso o che attiri le antipatie più che il portarsi in giro un volto addolorato. Ne ho fatto tesoro”.
“La mia è una delle tante storie dell’esodo, ma proprio per questo particolare ed eccezionale. Grazie all’intercessione di Don Cairo, appassionato di storia degli Asburgo, che era spesso al campo profughi, venni ammessa al Collegio Bianconi. I miei acquistarono un pianoforte che venne portato al campo, con grande meraviglia di tutti. Così superai il quinto di pianoforte contemporaneamente alla terza media. Questo desiderio dei miei genitori di investire nella mia educazione mi faceva sentire forte e mi integrai senza problemi. Mia madre aveva finito le magistrali a Parenzo e aveva lavorato per tanto tempo per i Marchesi Polesini come contabile. Fino al 1944 quando, per paura dei bombardamenti, ci spostammo dai nonni a Foscolino, un villaggio alle spalle di Orsera”.
Un’esperienza quella del contatto con la famiglia allargata che la farà desiderare di ritornare in Istria per lunghe estati trascorse tra la campagna istriana e la casa dei parenti, a Parenzo e a Pola.
“Era il mio mondo, il bozzolo dal quale sarebbe uscita la farfalla per volare alto e tornare a posarsi sui sentieri noti”.
Ma questo amore per la musica da dove arriva? “La risposta c’è. Era mio padre ad avere un’incredibile abilità manuale. Dipingeva anche lui, ma soprattutto suonava la fisarmonica da virtuoso. Mi ha insegnato i passi di valzer ai balli che si organizzavano all’hotel Parentino, prima di partire. Di mestiere era meccanico, aveva un’officina a Parenzo, poi lavorò all’oleificio, ma continuava a curare la sua moto Guzzi provvista di sidecar. Amava le corse. Negli anni del campo profughi fece di tutto, poi a Milano trovò un impiegò alla Mercedes, ma prima ebbe l’onore di portare la Autobianchi Bianchina all’esposizione di Ginevra”.
Questo e altri ricordi… che speriamo abbia consegnato alle nipoti ormai grandi, in grado di capire il trasporto della nonna per un’Istria interiorizzata, rincorsa fino allo sfinimento, fermata con le parole e il pennello, ma soprattutto attraverso i rapporti umani in una capacità di seguire nuovi progetti ovunque.
E le sue onde sempre sullo sfondo, più intense che mai.

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