
L’immagine è quella di un bambino che si mimetizza con la bellezza e l’immensità dei prati che circondano la città di Pola, pura natura. Senza consapevolezza della precarietà di una situazione che era precipitata in fretta, molto in fretta, per tanta gente costretta ad andarsene dopo la Seconda guerra mondiale. Ma in quegli anni Cinquanta, su quei prati dietro casa, Diego – che tanto tempo dopo diventerà l’ing. Bravar –, saggiava tutta la bellezza di un mondo bambino in grado di avvolgerlo e consolarlo.
Ci accoglie nel labirinto di stanze, scale, corridoi della BIC Incubatori FVG di Trieste. Di cosa si tratta? Semplificando, di una realtà che aiuta le piccole e medie imprese economiche, già virtuose, a crescere ulteriormente. Lineare, complicato? Dipende.
Per dare una spiegazione complessiva ci sono voluti anni di studi, esperienze, proposte, sfide, crescita e il raggiungimento di risultati positivi; un’intera carriera dedita al lavoro nella ricerca e nella sperimentazione.
È ciò che si avverte incontrando il Diego di Pola diventato adulto e da lungo tempo un punto di riferimento per l’ingegneria clinica nazionale e non soltanto.
Nella sua vita è stato tante cose.
“Mio padre lavorava nell’aeronautica militare, aveva sposato una Racovaz di Parenzo. Durante la guerra venne fatto prigioniero a Rodi e trasferito a Berlino. Ha fatto il campo di concentramento e nel ‘45 venne liberato. Due anni dopo sceglie l’esilio, ma non gli permettono di uscire da Pola. Io nasco nel ‘48 e soltanto sei anni dopo alla famiglia verrà concesso di lasciare la città. Arriviamo a Trieste, a Pola ai miei genitori avevano tolto la casa e il lavoro, era necessario ricominciare. A Trieste avevamo preso una stanza in affitto e mio padre trovò un impiego alle poste, ma la situazione era difficile, di conseguenza, per un anno fui ospite del Collegio Zandonai di Pesaro, come tanti. Perché questo istituto, nato per dare rifugio agli orfani di guerra, venne sollecitato dal C.L.N. dell’Istria ad accogliere i figli degli esuli per sottrarli alla precarietà dei campi profughi. Così ritrovai tanti ragazzi istriani come me. In quella realtà ho frequentato la terza elementare prima che i miei genitori mi riportassero in famiglia. Gli altri rimasero in quel Collegio per anni. Me l’hanno raccontato tanto tempo dopo quando hanno organizzato le rimpatriate. C’era anche il Collegio Tommaseo di Bari che aveva la medesima funzione: scuole che hanno formato tantissimi professionisti di successo. Il resto della mia verticale scolastica si è svolta a Trieste, compresa l’Università”.
Negli anni della formazione quale è stata la molla per lo studio, la crescita?
“La curiosità. C’era una cosa che mi intrigava moltissimo: volevo capire a tutti i costi come agissero le onde elettromagnetiche…”.
Da dove nasceva questa passione?
“Credo dalle mie scorribande su quei prati di Pola, passavo spesso vicino a una centralina elettrica dalla quale si irradiava un suono particolare, mi affascinava e mi stimolava cercare di capire, un impulso che è cresciuto nel tempo. A Pola andavo spesso nello sgabuzzino di un amico di mio padre che si divertiva a costruire delle radio, per me era il paese dei balocchi. Si chiamava Coss”.
Il suo girovagare è iniziato dopo l’Università, ingegneria naturalmente…
“Ero stato contattato da una multinazionale americana che faceva ponti radio e centrali telefoniche, così lasciai Trieste, ma con l’idea di ritornarvi. Ci volle del tempo, ma a un certo punto, mi giunse notizia che stavano cercando degli ingegneri che avessero anche conoscenza della medicina. Una sfida nella sfida, così decisi di studiare le neuroscienze, visto che avevo terminato la Facoltà con una tesi sul sistema nervoso dei calamari, l’obiettivo era la ricerca e invece mi specializzai nella costruzione di macchinari sanitari da disseminare nei vari ospedali per affinare le possibilità diagnostiche. Bisognava progettare i sistemi giusti e seguirne l’evoluzione, creare una squadra vera e propria, competente e capace. Mi diedero un incarico preciso: acquisire strumenti per l’ospedale. Nella seconda metà degli anni Ottanta, soltanto pochi ospedali erano in grado di operare con l’aiuto di dispositivi diagnostici di livello, tra cui Roma, Milano e Parma, diciamo che Trieste diventava un’eccellenza anche per la lungimiranza del presidente, Giuseppe Pangher, che ne era al comando. Creammo un pool di ingegneria clinica negli Ospedali Riuniti di Trieste lavorando anche con il CNR dove mi trovai a capo di un progetto specifico”.
Fu così che gli ingegneri entrarono negli ospedali?
“L’input giungeva dagli Stati Uniti, in cui il 95 per cento degli ospedali già funzionava in questo modo, in Italia all’epoca solo il 5 per cento, era il 1978 e gli ospedali potevano assumere solo ingegneri civili, poi la legge è cambiata”.
La sua esperienza passa anche attraverso altre mansioni e sfide, tra cui l’Area di Ricerca, con quali finalità?
“Decisi di creare una ditta in proprio, la TBS Group leader a livello europeo, per investire nel nuovo, nei giovani, in chi aveva ancora un sogno, usare il profitto per raggiungere obiettivi superiori. Ditta che ho venduto per investire in un’altra attività basata sulle start up da sviluppare sul territorio. Successivamente è stata fondata anche la prima scuola di ingegneria clinica presso un Istituto superiore, il Volta, per preparare i nuovi quadri. Ho dato lavoro a tanti ingegneri”.
Quali caratteristiche ci vogliono per abbracciare e osare nel mondo dell’economia?
“Avere una strategia, la capacità di innovare, uno sguardo aperto verso il mondo e tre obiettivi fondamentali: la progettazione, la promozione e la vendita”.
Lo step più difficile?
“Tutti hanno una loro difficoltà di fondo, diciamo che attrarre dei finanziatori non è sempre facile, bisogna addentrarsi nei meandri del confronto, diventare competitivi. Oggi chi studia economia o ingegneria affronta questi concetti dal punto di vista teorico che però preparano alla battaglia che ognuno dovrà affrontare. Si tratta comunque di creare un sistema che dipende solo in minima parte dal singolo, sono i Paesi che devono investire e l’Italia non è certo tra i primi posti in questo campo, anzi”.
Nelle start up è importante considerare il passato, ciò che è già stato fatto, da dove è partita la scintilla? I giovani vedono solo il futuro o hanno anche la capacità di voltarsi indietro?
“Se una start up fa cose innovative, si dice che bisogna vendere nel mondo, non in casa. Un esempio, abbiamo messo a punto un robot per la preparazione automatica dei farmaci chemioterapici che dovrebbe andare nel mondo. Come fai a raggiungere luoghi lontani? Uno dei problemi delle start up è che devi avere degli esperti bene preparati, non è solo inventare bisogna diventare competitivi. L’innovazione va bene, ma devi venderla, spiegando, convincendo i finanziatori, dimostrando i risultati. Essere competitivi è difficile, bisogna formare le persone, nel campo specifico, ma anche nell’amministrazione del business, che sappia fare marketing e affrontare i mercati esteri, non è una passeggiata, devi essere migliore degli altri. Il Pil di Trieste nell’industria è del 9 per cento”.
Si punta molto sul turismo tralasciando tecnica e tecnologie…
“Il Covid ha dimostrato che il turismo è effimero. Va benissimo, è fonte di guadagno, ma non ha una base solida, dipende da troppi fattori imponderabili anche se i risultati saltano subito all’occhio. Spesso ci si dimentica che, per esempio, Trieste può contare su diecimila ricercatori, è un patrimonio inestimabile”.
L’Intelligenza artificiale ci sta cambiando, serve, è positiva?
“Un vecchio ingegnere tedesco mi diceva: tra il medico e il paziente si pone una scatola sempre più grande rappresentata dalla tecnologia. Il medico deve essere in grado di conoscere bene il contenuto di questa scatola, non sempre è così e non sempre è facile. Un esempio: nei due ospedali di Trieste ci sono seimila apparecchiature del valore di 60 milioni. A gestire questo mondo tecnologico è l’ingegnere clinico che dialoga ed è il referente del medico, garantendo nello stesso tempo che queste apparecchiature siano all’altezza delle aspettative di medico e paziente. Devono funzionare bene. Questa scatola va gestita, contiene dispositivi medici (del valore di 200 euro pro capite) e di medicinali che vanno usati bene con l’aiuto dell’ingegnere clinico e del farmacista. Non basta conoscere il corpo umano ma anche leggere i risultati, oggi la scuola prepara tutti questi profili. L’IA è parte integrante di questo sistema perché i software hanno sostituito la meccanica e continuano ad ampliarsi invadendo gli spazi. L’intelligenza artificiale è qualcosa che pensa e quindi aiuta ad analizzare i dati, opera sulla ripetitività e quindi è insita nelle tecnologie che abbiamo. Non deve fare paura, va gestita. La centralina elettrica di Pola mi faceva paura, bisognava capirla…”.
Lavoro e ancora lavoro, ma l’Istria in questi anni che cosa rappresentava?
“Il punto di partenza, la spensieratezza, le origini, mentre Trieste è la casa. L’Istria è anche un’altra cosa: il mare, la pesca. L’unico lusso che mi concedevo, uscire in barca con un parente che viveva di pesca oppure allontanarmi da riva in barca a vela: ciò che mi ha sempre comunicato il mare è un senso di libertà, importante, necessario”.
Professionalmente, il successo maggiore?
“L’avere assunto tanti giovani”.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.
L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.