La fuga sull’altra sponda dell’Adriatico il ritorno attraverso la comune idea d’Europa

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La fuga sull’altra sponda dell’Adriatico il ritorno attraverso la comune idea d’Europa

Riconoscersi a pelle, figli dello stesso mare: le emozioni si moltiplicano in questi giorni di gennaio freddo e pieno di bora. Al cinema di Trieste è passato il film di Nicolò Bongiorno che parla di Dalmazia e capita di incontrare, sempre a Trieste in una serata dedicata al libro “Piccolo lessico della diversità”, Francesco Surdich, docente di Storia delle esplorazioni geografiche dell’Università di Genova, chiamato a dialogare con gli autori Marco Aime e Davide Papotti e gli organizzatori dell’incontro, Patrizia Boschiero e Massimiliano Schiozzi di Cizerouno.

Quanto fascino nella definizione della sua disciplina d’insegnamento…le esplorazioni geografiche! Ma come si diventa docente di una disciplina così coinvolgente?

Surdich sorride divertito, chissà quante volte gliel’hanno chiesto.
“Non esiste una ricetta, strada facendo si costruisce. Inizialmente mi ero occupato dei rapporti tra Genova e Venezia che avevano prodotto una tesi fatta bene, ricca di novità e particolari interessanti, per cui sono stato incoraggiato da docenti e colleghi a proseguire con una borsa di studio. Conseguita la laurea a Venezia, seppi che s’era liberata questa cattedra di Storia medievale, della quale avrei potuto occuparmi. La mia specialità riguardava i viaggi e i viaggiatori. Era solo l’inizio di una lunga carriera di studi e ricerche e d’insegnamento. Mi sono occupato molto dell’espansione degli indiani, di Colombo naturalmente, visti i suoi legami con Genova, ma anche dell’espansione italiana in Africa”.

È storia ma anche attualità, soprattutto oggi che le vicende si ripetono e si moltiplicano.

“Oggi lo sono molto di più rispetto al tempo in cui ho iniziato. Ricordo quando sono partito analizzando le dinamiche dell’emigrazione italiana, addentrandomi nelle specificità del contatto tra culture e civiltà diverse. Il viaggiatore diventa segno e simbolo di questa curiosità culturale. Per cui c’è questo desiderio, ed anche la necessità per me, per la mia disciplina, di capire gli interessi degli esploratori”.

Gli studenti oggi sono più o meno curiosi rispetto a qualche anno fa?

“Mi sembra che dagli anni ’70 a oggi, ci sia una differenza abissale, anche rispetto agli ultimi che ho seguito nel 2016. Ho insegnato per 46 anni, oltre che constatare un impoverimento culturale, che è sotto agli occhi di tutti, sono stato costretto a ridimensionare la lezione che facevo un tempo, altrimenti rischiavo di non far giungere il messaggio per mancanza di basi degli studenti.
Credo che un tempo ci fosse lo spazio per dare voce a maggiori speranze, i giovani non erano mai soddisfatti, volevano di più: oggi c’è poca indignazione, sono assuefatti, nuotano nella passività, nell’indifferenza. Sono senza sogni e quindi manca il coinvolgimento. A volte mi chiedo se riescano a maturare e ad avere una coscienza civica e critica. Oggi siamo inondati dalle nozioni e non ci si accorge che più della quantità dei dati sia fondamentale la capacità di applicarli. Ragionare. Sviluppare una procedura d’uso delle nozioni. Il tutto per dotarsi di una chiave di lettura del mondo in cui viviamo”.

Le sue radici sono a Cherso, che cosa si racconta camminando per la città che ha lasciato da bambino, che cosa le comunicano quelle pietre?

“Degli anni vissuti a Cherso non ho ricordi, ero troppo piccolo. Sono tornato per la prima volta all’età di trent’anni. Devo premettere che pur studiando i viaggi, la mia è un’indole da uomo pigro, con una fervida immaginazione, non a caso abito in via Salgari… Ero con mia moglie che è piemontese. La prima emozione si è manifestata mentre a bordo del traghetto ci avvicinavamo all’isola. Per me quei posti, fino ad allora, erano stati i racconti di tutte le persone che passavano da casa mia, ed erano tante che mantenevano i rapporti con la mia famiglia. È stato un turbamento, una forte emozione, ancora adesso la cosa mi coinvolge, perché quello è un luogo dell’anima. Mio padre era vissuto a Dragozetti, rimasto orfano era stato allevato dalla sorella della mamma. Lì ho ritrovato la casa, ormai un rudere”.

E la gente?

“Mi guardavo intorno per fare il punto quando delle persone, venendomi incontro, mi chiamarono per nome: Bepi, ciao Bepi, come se mi conoscessero da sempre. Ma non stavano salutando me, Bepi è il nome di mio padre ed era lui che credevano di salutare, annullando il tempo, visto che quando aveva lasciato il paese aveva esattamente l’età che avevo io durante quel viaggio di ritorno. Era difficile rispondere, ero sopraffatto. Lì ero io e mio padre, un’unica persona, difficile da metabolizzare, non in tempi brevi…”.

Ma l’esodo dove vi aveva portati?

“Sui Colli Euganei dove un bel giorno ci raggiunse anche la zia di mio padre, vestita di nero che mi incuteva timore, ricordo che mi nascondevo, probabilmente per studiarla. Si fermò per qualche mese, fino a decidere di far ritorno al suo mondo, alle pecore e al podere dove viveva da sola, ma era a casa, nella sua casa. Ogni anno a Natale ci mandava dei pacchi che aprivamo con gioia e rispetto: c’erano il formaggio fatto da lei, le noci, le mandorle, i fichi secchi. Anni dopo leggendo L’isola di Stuparich, mi sono riconosciuto nella descrizione di questo ben di Dio che arrivava nelle nostre case dai parenti rimasti sull’isola. Quando la zia è mancata mio fratello è andato al funerale, era la prima volta che metteva piede sull’isola dove era nato e da dove era stato portato altrove ad appena sei mesi di vita. Ne rimase talmente colpito che ha voluto scrivere un racconto ma non in prima persona, ha immaginato di vedere tutto ciò che lo circondava attraverso gli occhi di nostro padre, struggente, bellissimo, scritto con la bravura che lo contraddistingue e pubblicato sulla prestigiosa rivista letteraria Resine. Ed ha voluto chiudere con una poesia di Adriano Sansa, di Pola, già sindaco di Genova con il quale condividiamo pensieri ed emozioni su una terra a noi lontana ma solo geograficamente. Siamo vissuti a Padova prima di scegliere Genova e a casa si parlava padovano, istriano e il dialetto ciacavo di Cherso”.

Quali sono i personaggi che la legano alla sua isola?

“Inizierei da Francesco Patrizi; quando ho fatto l’esame di filosofia il professore chiese se sapevo chi fosse: andai a nozze, era come aprire il vaso di Pandora. Su Pagine istriane avevo pubblicato un testo su Alberto Fortis ed i suoi scritti su Cherso. Conservo le raccolte di scritti di Padre Bommarco che andavo a trovare a Gorizia quando era Vescovo della città e al quale eravamo molto legati. Era chersino come noi ed amava moltissimo la sua isola. Gli altri suoi fratelli avevano abitato a Genova e quindi ci conoscevano, uno era capitano marittimo. Eravamo amici di famiglia, già all’epoca dei nonni. Conoscevano la vicenda di mio padre che, seppur orfano, aveva studiato in seminario a Pola, e dopo la maturità si era iscritto a Lettere a Padova, scegliendo letteratura serbo-croata con una tesi sull’influenza che ebbe su questa letteratura il petrarchismo”.

L’esodo che cosa ha prodotto nella sua famiglia, che cosa vi ha tolto e che cosa vi ha fatto scoprire?

“Non un gran che. Alle conferenze racconto queste nostre esperienze, la partenza di notte in barca. Il nonno materno da Chioggia si era trasferito a Cherso, era timoniere sui grandi Transatlantici. Ce ne andammo con un barcone con il favore del buio cercando di evitare le motovedette che incrociavano al largo. La nostra gente ha un talento nell’andar per mare e così il giorno dopo approdammo a Chioggia, lì avrebbe saputo a chi rivolgersi, così dopo un mese di riuscimmo a metterci in contatto con mio padre che ci aveva preceduti. La mamma e la nonna trovarono subito un lavoro nella villa di una donna romana, non lontano da Villa dei Vescovi a Torreglia. Sui Colli il turismo stava riprendendo così venne aperta la Scuola alberghiera dove mio padre venne chiamato ad insegnare l’italiano e la storia. Quindi ci trasferimmo a Padova per facilitare la nostra educazione ma non fummo accolti bene. Sono stati anni di grande sofferenza, seppure italiani e figli di un professore, eravamo visti con sospetto, non fui mai invitato ad una festa, sembravamo degli appestati. E quando sento le cose che succedono oggi, capisco la condizione di chi non viene accolto, l’esclusione, il rifiuto, la cosa peggiore che possa succedere, peggio dell’avere fame”.

A mai immaginato una possibile via del ritorno nelle terre dei padri, da percorrere oggi?

“Dovrebbero cambiare molti scenari. L’unica via possibile, uno sviluppo serio e costruttivo dell’unità europea che è una matrice comune, anche di fronte alle varie diversità. Rendere facile l’interscambio, la fusione. L’UE non annulla le nazionalità che però si ritrovano in alcuni valori comuni. Si potrebbe costruire una realtà generale annullando le antiche tensioni e certe forme di tipo nostalgico, la storia non torna indietro. Bisogna guardare avanti. Il passato serve a capire non a rimpiangere, è un processo naturale. Anche se non si deve dimenticare. Non si può tornare al punto di partenza ammesso che fosse superiore al presente”.

Nella nostra storia adriatica, combattiamo contro le mistificazioni. Quanta importanza assume oggi la lettura dei diari di viaggio che illustrano il territorio?

“Attraverso la storia della navigazione in Mediterraneo, da Ulisse ai barconi, ho raccontato anche questo, ovvero la nostra vicenda emblematica che dovrebbe insegnare molto al prossimo, invece continua a mortificare. Ecco perché l’unica identità nella quale mi riconosco, è l’identità mediterranea, la nazione del mare. Ricordo spesso nelle mie conferenze, anche quelle che riguardano l’esodo, il pensiero di personaggi ed autori come Matvejević e gli altri, che hanno saputo descrivere una grande civiltà. Ricordo una lezione, ricorrevano i giorni della morte di De Andrè, che aveva dato voce al Mediterraneo, fatta di suoni e melodie mediterranee: ricordarlo era doveroso e forse poteva far capire questa nostra grande ricchezza inascoltata”.

Che cosa è l’Altro?

“È un’occasione di crescita che avviene solo attraverso l’incontro e la conoscenza. Se uno rifiuta il confronto con l’altro, chiude una possibilità importante e condanna, inevitabilmente, anche se stesso. Forse può sembrare un po’ provocatorio ma rendiamoci conto che il meticciato culturale è un valore aggiunto, il che non significa che si perde la propria identità, anzi, ognuno la mantiene arricchendola. Non si risolve nulla alzando fili spinati e barriere, i fenomeni sociali non si possono arrestare. Basta andare a ripercorrere le varie epoche storiche, lo sviluppo è inarrestabile, sia in senso negativo che positivo, ecco perché evolvere la situazione a nostro favore, per scongiurare le violenze e le brutture. Se lo sviluppo africano si è bloccato è perché ci sono andati gli europei a sfruttarli, a bloccare la loro evoluzione positiva. Non si costruisce nulla con lo scontro frontale, con la prevaricazione”.

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