L’impegno della dalmata Angela Teja per “salvare” la Storia dello sport in Italia

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L’impegno della dalmata Angela Teja per “salvare” la Storia dello sport in Italia

E’ stato l’ammiraglio Romano Sauro a farci conoscere Angela Teja. Lei vive a Roma dove ricopre diversi incarichi: Vicepresidente della Società Italiana di Storia dello sport (Siss), presidente del Collegio dei Fellows dell’European Committee for Sports History (Cesh) di cui è stata presidente, autrice di numerose pubblicazioni di storia dello sport, fa parte della Scuola di pensiero Cei sullo sport e dal 2013 collabora al suo interno con il Dicastero della Cultura del Vaticano, Sottosegretariato allo sport…e si potrebbe continuare in un lungo elenco di incarichi e successi ottenuti.
Sauro aveva voluto concludere il suo percorso in cento porti, dal Tirreno all’Adriatico e fino a Trieste per la Barcolana 2018, con un convegno sul ruolo dello sport, declinato nei suoi vari aspetti, tenutosi in una sala della Lega Navale di Trieste. Un invito alla riflessione sulle imprese dei singoli ma anche sul lavoro di squadra che anche nella Prima guerra mondiale ebbe i suoi rilievi. Vennero invitati specialisti del settore e fu allora che Angela Teja ci rivelò di essere di famiglia dalmata. Suo padre era stato amico del padre di Sauro. Immediata la curiosità di sapere…di più…

Quindi Sauro per lei rappresenta anche il legame con il territorio delle origini? Che cosa ci può rivelare della storia della sua famiglia?

“Mio padre, pilota militare, conosceva Italo, il padre di Romano. Ho un album di foto di caduti nella Grande Guerra di Capodistria, credo che glielo avesse regalato lui, con tanto di dedica e, naturalmente, di foto di Nazario, eroe nazionale. Dell’eroe conoscevamo la statua bronzea sulle rive davanti alla quale papà ci portava ogni anno durante i nostri regolari viaggi a Trieste e puntualmente ci ricordava la sua storia. Ciò che più mi colpiva era l’episodio della madre, che avrebbe negato di riconoscere il figlio nel tentativo di salvarlo dalla condanna a morte. Un episodio di una dolcezza struggente, dove c’è tutto, il dolore, la rinuncia, il sacrificio, la disperazione, l’amore profondo, e per questo quando ho sentito Romano raccontarlo in una scuola di Caserta, mi sono commossa, forse anche per il ricordo di mio padre e del suo amor patrio che in quelle occasioni era ancor più evidente e concreto. Papà tornava spesso nella sua amata Trieste, dove ancora si incontrava con i suoi compagni di scuola. Ricordo che un anno ci portò a conoscere il mitico preside Bronzin. A Trieste aveva studiato, come del resto anche il nonno per gli studi in Scienze Economiche e Commerciali, nonostante fosse di Zara, la nonna di Spalato, si erano conosciuti a Trieste nella ditta di Vittorio Venezian (che il nonno ricorda nel testamento quando nomina l’amore della sua vita, Angiolina) e qui si erano sposati nel 1910. Nel 1934 tornarono a Zara perché al nonno avevano affidato la Cassa di Risparmio e il Banco dei pegni di questa città. Da Zara sarebbero andati via a seguito dei bombardamenti aerei americani, senza mai più tornarci…”.

Che cosa significavano per Angela bambina i riferimenti alla Dalmazia?

“Innanzitutto un mare stupendo e indimenticabile. Quello dell’Istria in verità. La sera le rocce luccicavano sotto l’acqua, mio padre era felice quando lo guardava e ogni volta diceva: “Tutto questo era Italia!” Una sola volta ci siamo spinti fino a Zara e poi Spalato, dove c’erano ancora dei conoscenti di mio padre, una casa molto bella e grande che ad un certo punto erano stati costretti a dividere con un’altra famiglia, senza che fossero parenti… Sembrava strano a noi ragazzi, abituati ad avere ognuno la propria stanza nella nostra casa romana. Come il fatto che l’Hotel Cristallo ad Abbazia, che era stato di mia zia Mine, le fosse stato portato via senza che avesse potuto fare alcuna obbiezione. Troppo doloroso per papà e per mia zia, e per tanto non tornammo più fino a Zara. Anche perché al posto della casa dei nonni, lungo la Riva Grande, c’era un parco, le case erano state rase al suolo dai bombardamenti americani e mai più ricostruite. I racconti dell’abbandono della casa, con l’armadio spalancato che penzolava fuori per metà da quel che restava della stanza da letto, e i nonni che si rifugiavano sull’isola di Sale con due valigie, in una delle quali c’era una tenda ricamata che ora conservo io in un cassetto come una reliquia. “La casa era più o meno qui – ci spiegava nostro padre. Era tutta rivestita in legno, il nonno aveva tanti libri, uno autografato da Carducci! Io avevo uno splendido mandolino…”. Noi bambini guardavamo il posto e vedevamo solo erba ed alberi. Della Dalmazia custodisco i libri scritti da mio nonno, studioso di storia patria, che definiva la storia delle terre adriatiche “un libro ermeticamente chiuso, come il vangelo del Leone di Traù”, come scriveva nel 1955, aggiungendo: “Anche nella tomba non troveremo pace finché alle nostre terre, sempre latine nei secoli, non verrà resa Giustizia, finché il Diritto non trionferà sull’ipocrisia e sull’ignoranza…”, convinto che fossero “astruse teorie” quelle di chi, non volendosi documentare “sulla veridica storia della Dalmazia”, la “falsificava”. Il nonno Tonci era storico ed economista e nei suoi lavori si è trovato spesso a incrociare i due mondi, studiando soprattutto i contratti di compravendita e le questioni notarili, a dimostrazione dell’ambiente “spiritualmente e linguisticamente latino”. Ora le sue carte sono ben conservate e inventariate presso la Fondazione Spirito a Roma e chissà, come lui stesso auspica nel suo testamento, forse ci sarà qualcuno che vorrà metterle insieme completando il suo ultimo studio inedito”.

Aveva colto le impressioni di suo padre e della zia… ma le sue sensazioni quali erano?

“Mi aveva colpita la bellezza del paesaggio, la natura, il mare. Le strade erano sconnesse e piene di buche, tortuose. I succhi di frutta però, buonissimi. La familiarità dei luoghi cittadini. Per quanto mio padre fosse un “uomo dell’aria”, amava moltissimo il mare. Per esempio quello di Umago dove ci raccontava aveva imparato a nuotare, perché all’epoca non andavano troppo per il sottile: si portavano i bambini in cima al molo e li si buttava in acqua, se volevano sopravvivere dovevano imparare subito a galleggiare e poi a nuotare. Da ragazzi ci colpivano quei racconti ricchi di pathos e di malinconia, che rendevano mio padre meno duro e severo del solito”.

Che cosa le hanno comunicato nel tempo queste sue radici?

“Il rigore, la disciplina, cadere e sapersi rialzare, quello che oggi si chiama resilienza. Il senso di orgoglio che non fa chinare la testa né indulge a compromessi. Il senso della dignità, del sapersi ritirare in silenzio a meditare. Se molte cose dell’esodo dei Teja non le conosco tutt’ora, è perché, specie il nonno, lo ricordo taciturno, che studiava sempre, in una camera piena di libri, con il toscano perennemente in bocca. Senza mai lamentarsi di nulla, ma anche senza mai raccontare “troppo” di una storia che fino a ieri è stata nascosta, un libro chiuso appunto, pietrificato. Forse voleva preservarci dal dolore dei suoi ricordi. Quella sua riservatezza però, ora mi impedisce di avere un quadro organico della vita dei miei cari a Zara. Di mio padre, riguardo a Zara (perché poi mi è nota la sua vita da profugo, di cui non risentimmo essendo ufficiale pilota dell’AM italiana, e delle sue 4 medaglie d’argento e 2 di bronzo a VM è scritto anche in alcuni libri), a parte il suo rimpianto per quella terra e quel mare, so che nel 1936 era già in guerra, a soli 21 anni, e nell’agosto del 1942 sarebbe tornato in viaggio di nozze in una Zara che poi non avrebbe più rivisto. E’ tutto”.

Quanto è importante la storia nella formazione di una persona?

“Senza storia si è senza radici, appunto. Credo sia questo il motivo per cui la si ricerca, si riordinano gli archivi di famiglia, gli album delle foto, cercando di intercettare la memoria di amici, parenti e conoscenti. L’amore per la storia si apprende a scuola. Purtroppo non è facile insegnarla. La storia non è solo un insieme di avvenimenti e di date, ma è la scansione delle tappe dell’evoluzione di una società. Non studiare la storia, o volerla dimenticare, come purtroppo oggi si tende a fare (ma il discorso si farebbe troppo lungo, certo è che le nuove tecnologie di cui possiamo servirci ne facilitano l’accesso ma anche lo velocizzano troppo, e quel che conta in un processo di crescita è il cammino, il metodo che si persegue, l’esperienza, le tappe non vanno saltate se si vuole “impiantare” qualcosa, un apprendimento, un comportamento, una storia appunto), significa inaridire le coscienze, “smemorarle”, fermarsi alle emozioni cancellando la riflessione, l’apprendimento appunto, la formazione”.

In che modo lo sport può aiutare i giovani a capire e conoscere la storia?

“Direi piuttosto che la storia è una chiave interpretativa formidabile della realtà e quindi anche dello sport che è un fenomeno che attraversa le società, in ogni epoca. E infatti si dice “sport specchio della società”. Pensiamo a quello di oggi, svilito, abbrutito, appesantito da degenerazioni quali quelle della violenza e della corruzione. Questo è capitato perché non gli si vuole ancora riconoscere il ruolo di “bene culturale” a tutto tondo, che invece gli compete. Lo sport avrebbe un posto/ruolo ben preciso accanto all’arte, alla musica, alla letteratura nella formazione dei giovani eppure ancora lo si misconosce, confondendolo con “quello della domenica”, ovvero il calcio. Lo sport più amato dagli italiani ma proprio per questo il più soggetto a manipolazioni e strumentalizzazioni. Non varrebbe la pena allora raccontare ai nostri giovani le sue origini, i suoi valori fondanti, intrinseci, che sono NON la salute o la conquista di notorietà attraverso le medaglie e i records, ma i valori del fair play, del senso della comunità, del lavoro di gruppo, dell’obbedienza (al capitano e all’allenatore, all’arbitro), del rispetto delle regole? Eppure si continua a fare sport solo per mantenersi in forma. Mentre lo sport aiuta a conoscere la storia, riuscendo a spiegarla meglio di tanti libri: perché è il linguaggio più amato e capito dai giovani. Lo abbiamo constatato presentando nelle scuole gli esiti della nostra ricerca come storici dello sport su Sport e Grande Guerra. I ragazzi ci seguivano con attenzione e partecipazione. Non parliamo poi delle lezioni di Romano Sauro…non mi è mai capitato di vedere gruppi anche numerosi di studenti restare in religioso silenzio per quasi due ore, in ascolto. Nel caso della storia di Nazario Sauro le componenti erano plurime, tra cui anche il suo essere stato sportivo, canottiere della Libertas di Capodistria, ma in altri casi (come in quello per esempio di Erminio Spalla quando si è avvicinato al pugilato grazie agli insegnamenti degli inglesi nelle retrovie di Gorizia, o in quello della morte sul Carso di Virgilio Fossati il primo capitano della Nazionale di calcio o del ciclista Oriani, morto di polmonite per essersi prodigato nel salvare commilitoni gettatisi nel Tagliamento, in fuga da Caporetto, gli esempi di famosi sportivi che si sono impegnati nella Grande Guerra sono centinaia) è l’esprit du sporta rendere quei soldati più coraggiosi, arditi, esperti nel muoversi sul campo agli ordini di un “capitano” (termine poi traslato nelle compagini sportive), ubbidienti a un regolamento, capaci di sfidare ogni limite…come si vede queste sono tutte caratteristiche sportive”.

Perché lo sport è così importante nell’età della formazione, nell’età della ragione?

“Perché è la scoperta del sé. La sua fisicità che non è disgiunta dalle altre componenti dell’uomo, quelle spirituali. Per cui lo sport rafforza il carattere, rende sicuri di sé o quanto meno ci fa conoscere fin dove ci si può spingere dando il senso del limite. Senza dimenticare che le prime tappe dell’apprendimento passano dalla conquista della motricità. Non è sport, ma la sua base. Per cui risulta difficile capire la diffusa trascuratezza nelle nostre scuole dell’insegnamento dell’educazione fisica e sportiva, perché saltate certe “tappe” della costruzione del nostro io, difficilmente le si recupera (recente la scoperta che i nostri giovani non sanno più fare le capovolte…). Se poi guardiamo alla Storia con la “S” maiuscola, lo sport scandisce l’apertura dell’uomo alla modernità, va di pari passo con la rivoluzione industriale, ne riproduce i ritmi, la velocità, le regole, il lavoro di gruppo”.

E quale valore ha avuto nell’emancipazione femminile?

“Una doppia importanza… nel senso che lo sport è stato strumento di emancipazione per la donna al pari della sua ammissione all’istruzione, al lavoro in fabbrica, al voto, alle provvidenze per la salute. Lo sport ha fatto uscire di casa la donna, le ha fatto frequentare persone e luoghi diversi, le ha fatto scoprire il suo corpo e glielo ha fatto mostrare. Come dice Vigarello, del corpo della donna prima del 900 era visibile ben poco, solo il viso e le mani per molti secoli, poi le gambe leggermente sopra la caviglia e comunque la donna non si muoveva, al massimo incedeva con passo lento, perlomeno nei ceti più abbienti della società. Nel 900 la donna scopre il corpo e la sua dinamicità e tonicità. Arriva lo sport anche per la donna quale strumento di affermazione e di riconoscimento del suo ruolo sociale. Lo sport permette alla donna di “esistere” e inizierà a farlo nel senso proprio, non solo come passatempo, diffondendosi in ogni classe sociale, perlomeno la ginnastica (appresa a scuola) e l’atletica (per la quale bastava andare in campo a correre)”.

Al convegno di Trieste è emerso un dato incredibile: non esiste un archivio unico delle società sportive. Come va custodita la memoria? Cosa si può fare a livello europeo?

“Dice bene, è incredibile ma anche in linea con la tendenza ormai di dimenticare, quanto meno a non salvaguardare la memoria. Non voglio addentrarmi in discorsi troppo politici (ma lo sport è politica e ce ne accorgiamo in questi giorni di riforma del CONI…e ce lo ricordiamo dal periodo tra le due guerre…), restiamo in maniera asettica sullo sport. Perché il suo massimo Ente di coordinamento (perlomeno fino a oggi) non ha mai sentito il bisogno di salvare la sua storia? Perché senza archivi, senza documenti che attestino le vicende, non si fa la storia, piuttosto si fa aneddotica, affabulazione, un racconto sprint televisivo che magari prende anche il pubblico, fa audience, fa vendere pubblicità, ma del quale, trascorsa la mezz’ora di trasmissione, resta assai poco. Non c’è alcuna cultura archivistica nel settore sportivo. Federazioni e società sportive conservano ancora oggi al massimo gli ultimi cinque anni della loro vita, come per le bollette di casa. A volte non esiste neppure l’archivio corrente, figuriamoci quello di deposito, per non dire quello storico! La SISS (e di recente anche Sport Records-Storia e memoria dello sport, un centro di studi archivistici sullo sport) dal 2004 si sta prodigando perché il verbo archivistico giunga nel settore sportivo, gli storici infatti non possono che essere interessati a un progetto di censimento, inventariazione e valorizzazione del materiale archivistico sullo sport, ma gli esiti sono assai scarsi. Le obiezioni sono sempre le stesse: in che spazi? Con che finanziamenti? Con che personale? Per non dire che lo sport ha la sua specificità che va conosciuta. La soluzione è nell’alleanza tra storici dello sport e archivisti e poi nel trovare finanziamenti. Ma ora chissà che lo “sport bonus” non riesca a far approdare il mondo sportivo alla salvaguardia del suo materiale storico… L’Europa? Non è mai stato fatto un progetto europeo in tal senso. Ora come CESH (il Comitato che raggruppa i principali storici dello sport europei, di cui la SISS è sezione nazionale) ci stiamo provando e anche l’ICA-spo, il settore sportivo dell’associazione mondiale degli archivisti, ci sta dando una mano. In Europa ci sono paesi già avanzati in questo settore, che posseggono fior di Centri di archivi dello sport (si pensi alla Germania con la Scuola dello sport di Colonia o di Lipsia, alla Francia con l’Archivio del Lavoro di Roubaix che ospita lo sport, agli archivi di prestigiose università inglesi, ma anche alla Finlandia che ha un Archivio Centrale dello Sport), questa messa in comune delle conoscenze e delle esperienze potrà essere utile a tutti, e l’Italia è tra i paesi più arretrati in Europa nel settore, quella che potrebbe giovarsene maggiormente.
Il dato positivo dell’incontro di Trieste sul tema degli archivi è stato che nell’unica regione italiana, la Puglia, dove a opera di un’archivista “sportiva” (nel senso proprio, perché era stata campionessa giovanile regionale di nuoto), Rosalba Catacchio, è stato inventariato tutto il materiale sportivo con un attento e proficuo controllo della Soprintendenza archivistica di quella regione. Ora a Bari esiste, tra gli altri, uno dei più completi archivi di sport, quello di Giosuè Poli, che tra i tanti incarichi ha avuto quello di presidente della Fidal nel secondo dopoguerra. La figlia era presente a Trieste e ha portato la testimonianza di chi si rende perfettamente conto del valore per la nostra cultura dello sport e in ogni caso tenta di salvare questo archivio, che è quello di una famiglia sportiva. Naturalmente ha bisogno di sostegno per continuare a offrire agli studiosi la possibilità di frequentarlo. Qualcuno le darà ascolto?”

Lei è dalmata, come Missoni che prima ancora di diventare una famosa icona della moda era stato un atleta eccezionale?

“E’ stato un grandissimo personaggio, e non solo dal punto di vista della notorietà ma anche umano. Mio padre naturalmente lo conosceva, anche se aveva frequentato di più il fratello. Mi raccontava che al rientro dalle Olimpiadi di Londra del ‘48 il padre, invece di accoglierlo felice dell’impresa, lo rimproverò perché era arrivato “solo” sesto nella finale dei 400 hs… “Che te xe andà a far lassù…”, gli aveva detto con tono severo. Un aneddoto che dice dello spirito sportivo di questa famiglia, che difatti ha raggiunto grandi risultati a livello imprenditoriale, perché si gareggia per vincere.
Per quel che mi riguarda, ho scelto di diplomarmi all’Istituto Superiore di ed. Fisica di Roma, nonostante avessi conseguito il massimo dei voti alla maturità classica e pertanto i miei proff mi consigliassero altre carriere, per l’amore allo sport che mio padre, da buon dalmata, mi aveva trasmesso. Sapeva fare tanti sport e sin da piccola mi aveva accompagnato sui campi di atletica. Gliene sono ancora grata. E’ stata una bellissima esperienza per me insegnare educazione fisica e sportiva nella scuola per 40 anni, vivendo tra l’altro con i miei studenti la bellissima stagione dei Giochi della Gioventù, quando tutta la scuola tifava e classi intere ti seguivano alle gare, specie alla corsa campestre, propedeutica a tutto, e non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico. Una scelta di studi che rifarei, e che poi mi ha permesso di dedicarmi anche alla storia dello sport, che ancora coltivo”.

Sport individuali o gioco di squadra. Una sua riflessione…

“Ogni persona ha il “suo” sport…nel senso che la scelta normalmente è fatta sulle proprie caratteristiche fisiche e propensioni psicologiche. Vero che a volte si consiglia invece una specialità sportiva proprio per correggere dei difetti, un gioco di squadra se si è troppo solitari e taciturni o timidi, o la gara individuale se invece si ha bisogno di affinare la capacità di concentrarsi ed essere meno disordinati e dispersivi. Sono dell’idea che lo sport troppo specialistico e precoce faccia male e possa accentuare caratteristiche che invece andrebbero corrette. Così che sia meglio essere polispecialistici, fare tanti sport se proprio non si vuole diventare professionisti. Ma anche in questo caso di recente si notano grandi atleti che passano da una specialità a un’altra, a volte anche molto diversa, solo per continuare a dar fondo all’adrenalina che producono. Non so se sia un fatto positivo… andrebbe tutto preso nella giusta misura e con stile”.

Le prossime iniziative della Società Italiana della Storia dello Sport?

“La SISS ha da poco un nuovo staff dirigenziale, il suo presidente ora è il prof. Francesco Bonini, rettore della Lumsa, il primo storico delle Istituzioni sportive italiano. Questo anno festeggeremo 15 anni di attività e finalmente la storia dello sport inizia ad essere “sdoganata” in ambito accademico. Lo sport, diciamolo, non è mai piaciuto molto agli intellettuali (a parte alcuni illuminati, come Pasolini, sportivi essi stessi) per la maledizione “crociana” che a lungo si è portata dietro e per la confusione di interpretazione di cui si diceva. Nel momento però che si capisce come lo sport possa aiutare a formare buoni cittadini, sia una forma di educazione civica dagli esiti concreti (e non è assolutamente un caso che la prima legge organica dell’Italia democratica sull’educazione fisica nella scuola sia di Aldo Moro, la legge 88 del 1958, il quale politico aveva anche fatto introdurre l’educazione civica nel curriculum scolastico e sempre nel ‘58 – e SISS questo anno lo ha ricordato in un Seminario a Caserta, mentre tutti si concentravano invece sulla tragica morte del grande statista), sia un utile strumento didattico per insegnare la storia attraverso la sua storia, aiuti a riconoscersi in una precisa identità nazionale (e quanto si potrebbe dire su questo attraverso lo sport dei giuliani dalmati e dei triestini! In questi giorni sta uscendo un libro sullo sport a Trieste tra 1945 e 1954 del nostro socio Alberto Zanetti Lorenzetti, che ha lavorato principalmente nell’archivio di Rovigno, perché lì un archivio con lo sport c’è…) non si potrà negare ancora a lungo il suo ruolo di bene culturale. E la SISS ha un suo Dipartimento Beni culturali sportivi che, insieme al Centro studi Sports Records di cui dicevo, si sta battendo perché questo venga riconosciuto, proponendo progetti concreti in particolare nel settore archivistico. Siamo riusciti a far stipulare un’importante convenzione tra Centro Sportivo Italiano e Archivi diocesani perché questi ultimi accolgano il materiale documentale del primo in una sorta di “Angolo dello sport” (presenteremo il progetto in primavera nel Museo diocesano di Albano, dove stiamo cercando di dar vita a qualcosa di somigliante a un archivio di sport, perlomeno a trovare spazi adatti a questo con il suo aiuto) e stiamo lavorando con il CESH a un’ipotesi di progetto europeo sempre per gli archivi. Ci stiamo approcciando ai musei dello sport italiani, uno dei nostri giovani ricercatori sta aiutando a impostare il Museo dello sport di Forlì nel cui Comitato scientifico diversi di noi lavorano. Poi naturalmente c’è il settore convegnistico e quello editoriale con il progetto di una rivista di storia dello sport e una collana di studi che probabilmente ora si amplierà. Insomma, di lavoro ce n’è tanto e i nostri storici sono pronti”.

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