Il ruolo della parola scritta nella cultura di un popolo: l’editoria racconta passato e presente e promette futuro

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Il ruolo della parola scritta nella cultura di un popolo: l’editoria racconta passato e presente e promette futuro

Giornate d’attesa, il Raduno alle porte e poi, arriva il momento dei saluti e degli abbracci. Ci si conta, in un appuntamento che ha spesso bisogno di essere supportato da inviti e telefonate, notizie sui media e mail che cercano di colmare una situazione ormai evidente: come fare ad arginare il grande vuoto creatosi per ragioni anagrafiche nell’associazionismo giuliano-dalmato? È un dilemma non da poco in una realtà che si è basata fino a tempi recenti su memoria e testimonianza, poi si è manifestata la necessità di passare il testimone alle seconde e terze generazioni che, delle terre di provenienza dei padri, hanno una diversa visione, un diverso bisogno, non più memoria ma scoperta ed anche confronto su ciò che rimane oltre la famiglia, in quella comunità che si sta riformando e reimpaginando.

Così dopo il dibattito sulle ragioni dei Raduni al recente incontro dei Fiumani a Montegrotto, i Dalmati che tempo fa avevano deciso di seguire una tabella di marcia ben precisa, in grado di soddisfare i bisogni delle “altre” generazioni, indicano una nuova strada che parte dalla parola, quella scritta e pubblicata, da autori e poeti che rappresentano un forte punto di riconoscimento e riferimento.
Ne parliamo con la prof.ssa Adriana Ivanov, consigliere dell’Associazione dei Dalmati italiani nel Mondo, anima della mattinata della Cultura dalmata, che apre il Raduno dei Dalmati.
Quest’anno si è svolto nel fine settimana del 13 e 14 ottobre a Padova, città che più di altre, esprime i legami con le località dalmate attraverso il rapporto con la cultura, l’arte e soprattutto l’Università nel corso dei secoli, come ha avuto modo di sottolineare il Presidente dell’Associazione, Franco Luxardo.

Si palesa per tanto il ruolo fondamentale dell’editoria, congiuntamente al Premio Tommaseo, nel coinvolgere nell’incontro, tanti dalmati o simpatizzanti. Una formula che di anno in anno sta riscuotendo grande successo. Che cosa rappresenta la parola scritta nella cultura della nostra gente?

“È la prova che ci siamo ancora – risponde la Ivanov – il segno lasciato da una plurisecolare vitalità culturale espressa da una terra ribollente nella sua varietà, autorevole nelle sue testimonianze, capace di guardare al passato, doloroso, straziato e straziante, di fare sentire la sua voce nel presente nella confusa Babele della globalizzazione, di proiettarsi verso un futuro incerto, ma in cui ci ostiniamo a voler sopravvivere”.

Mesi di lavoro per giungere ad un elenco esaustivo?

“Effettivamente la Rassegna rappresenta solo il punto terminale di un lavoro di ricerca, raccolta, vaglio, da attribuire quasi esclusivamente alla Scuola Dalmata di Venezia, in particolare a Giorgio Varisco, seguito da un’ulteriore opera di valutazione critica del presidente dell’ADIM Franco Luxardo e mia. Perché l’operazione si possa considerare seria, il numero delle pubblicazioni da proporre ai radunisti deve essere abbastanza alto da fornire un campione significativo delle tematiche affrontate, ma non pletorico, per non ridurre tutto ad un anonimo elenco di titoli. L’Incontro con la Cultura Dalmata non è una pagina d’archivio, ha un’anima e deve rispecchiare quella dalmata che è in noi, conta molto dunque anche fornire un’indagine ad ampio spettro della nostra vitalità culturale nei vari generi letterari”.

Il titolo che, forse più di altri, ha commosso quest’anno la platea, è “Il disertore dalmata”, romanzo postumo di Lucio Toth che chiude la trilogia delle sue opere dedicate alla storia dalmata. Come si pone rispetto agli altri due romanzi?

“Come fece Giulio Cesare lasciando le sue ricchezze in eredità ai Romani, Lucio ha imposto la sua ideale presenza dedicando a noi il dono postumo di questo romanzo. Egli ci incantava ad ogni lectio magistralis con cui apriva la nostra assemblea annuale, trasmettendoci il suo sapere, la sua competenza storica, la sua verve di muleto zaratin esule a otto anni, rimasta vivida e piena di morbin, lasciando affiorare ogni volta la sua particolare predilezione per la storia del Risorgimento di cui conosceva tutto, proprio tutto. Il suo terzo romanzo storico, dopo “La Casa di calle S. Zorzi”, affresco diacronico dell’umanità che ha popolato Zara lo scorso secolo, e “Spiridione Lascarich, alfiere della Serenissima”, proiettato sullo sfondo della venezianità delle nostre terre, attraversa il Risorgimento, sofferto da tutti gli italiani, ma come sempre più complesso per il confine orientale, dato che gli annessionisti dovettero prima disertare dall’esercito austriaco per poter contribuire al riscatto delle terre irredente. Remo Calbian, eroe del romanzo, frutto dell’invenzione poetica dell’autore, per dirla con l’immancabile Manzoni, non è Oberdan né Nazario Sauro: appartiene al quotidiano, ma testimonia quel “mal d’Italia”, che da sempre ci è appartenuto”.

Che cosa rappresenta questo libro nel nostro immaginario di popolo sparso?

“Un microcosmo del nostro errare alla ricerca di quella patria, da noi agognata, da altri connazionali spesso tradita. Remo, che lascia Zara, che vive in Veneto e poi è costretto a combattere nella Seconda Guerra d’Indipendenza dalla parte sbagliata, che sceglie di disertare per non disertare da se stesso, testimonia quanto sia stato difficile, e spesso ancora lo sia, lottare per essere italiani: martiri, che nell’etimo greco significa “testimoni” della nostra identità, in passato anche martiri veri in tragiche vicende di cui siamo stati le vittime.
Remo continuerà a lottare, prima come garibaldino e poi come ufficiale dei bersaglieri nella repressione del brigantaggio meridionale, assaporando anche le parti più amare di quel Risorgimento che si fa autoritario e di quel neonato potere che denuncia da subito la delusione storica”.

Quali emozioni ha suscitato in lei la sua lettura?

“Ascoltavo la voce di Lucio, risentivo la sua passione, assaporavo la sua cultura. La figliolanza spirituale che a lui mi lega, rinsaldata dalla commovente eredità che mi ha lasciato – dopo la sua scomparsa ho avuto l’onore di presentare la sua “Storia di Zara” in due prestigiose occasioni – mi coinvolge ancor più nella lettura. E ritrovo la sua straordinaria capacità di ricreare i luoghi, di far affiorare il genius loci, sia esso quello esemplare della sua Zara o, seppure in brevi scorci e battute, quello di Padova, di Treviso, dei carruggi di Genova, delle lande della Sicilia o delle forre della Calabria. E ancora riconosco lo sguardo disincantato di chi individua negli errori politici il disinganno della storia e la delusione degli ideali, con straordinaria onestà intellettuale”.

A chi lo consiglierebbe in modo particolare?

“Data la deformazione professionale della vecchia insegnante, vorrei dire a tutti gli italiani, i quali non hanno, ahimè, grande familiarità con la storia… oltre che con la geografia. “Il Disertore dalmata” costituisce un’ottima opportunità di ripasso della seconda fase del Risorgimento per tutti coloro che l’hanno dimenticata: è storia italiana, oltre che storia di un dalmata”.

In quali momenti dei romanzi di Toth riesce a riconoscersi?

“In tutta la sua produzione narrativa mi sento catturata dalla capacità d’indagine dell’animo umano e da quella altrettanto profonda di comprensione anche di un possibile avversario o nemico. Ricordo ancora con timidezza il momento in cui lui, monumento vivente della nostra Dalmazia, mi chiese un giudizio personale su “La Casa di calle San Zorzi” e sull’aspetto che mi aveva colpita maggiormente: “Il tuo spirito ecumenico – gli risposi – la tua attitudine etica a riversare la stessa pietas anche su chi ci ha fatto del male”. Virtù da ammirare, difficile da praticare per i comuni mortali”.

Quali e quanti altri titoli al Raduno di quest’anno?

“Ci siamo fermati a ventitré titoli. Dico “fermati”, perché fioccavano richieste di recensione o addirittura di presentazione da parte dell’autore anche nei giorni precedenti il Raduno”.

Su quali si è soffermata in modo particolare e perché?

“Ovviamente il maggior spazio è stato riservato ai cinque relatori che ho introdotto: dopo la prolusione del prof. Egidio Ivetic dell’Università di Padova e collaboratore del Crs di Rovigno, che ha fatto gli onori di casa con un interessante e inedito excursus sulla storia del Golfo di Venezia, hanno avuto il meritato risalto gli Atti del Convegno internazionale “Vele d’autore nell’Adriatico orientale” nelle parole del curatore dell’iniziativa prof. Giorgio Baroni; una significativa tesi di Dottorato dell’Università di Zara scritta in croato sugli scrittori zaratini dell’Esodo, presentata dal prof. Bosko Knežić, docente di italianistica, nonché Presidente della locale “Dante Alighieri”; e ancora la meritoria pubblicazione della Regione Marche sulla nostra storia realizzata grazie all’impegno di Franco Rismondo che l’ha illustrata, fino al saggio sulla dolorosa pagina del trattato di Osimo nelle parole di uno degli autori, il prof. Davide Rossi di Coordinamento Adriatico. Varie facce di un prisma che da diverse angolature fanno fede della vitalità e della varietà della produzione di argomento dalmata. Degni di risalto in particolare “Da profughi a esuli”, tesi di dottorato di Petra Di Laghi, giovane genovese nipote di esuli nata nel 1992, e il saggio “Identità dalmate al confine” di Eveline Van Heck, etnologa di origine dalmata, nata nel 1982. Rappresentano quel ponte verso il futuro al quale ci aggrappiamo, per non scomparire una seconda volta. Per alleggerire l’atmosfera densa di contenuti, ho infine proposto, sulla scia del manoscritto con cui Manzoni apre “I promessi Sposi”, un “falso” dannunziano da me elaborato, per ringraziare i dalmati del loro amore, dall’Immaginifico ben ricambiato e documentato. Qualcuno lo ha creduto originale…”.

Il premio Tommaseo a Rosita Missoni quali sentimenti ha suscitato nel pubblico presente?

“Gli stessi che Rosita ha manifestato verso di noi: condivisione, fraterna partecipazione, commozione segnata dalle lacrime sue e nostre, un abbraccio corale che comprendeva anche la figlia Angela, la nipote, il piccolo pronipote, quattro generazioni sotto l’egida di un Ottavio che ci sorrideva in splendide immagini di lui che scorrevano, che lo hanno riportato tra di noi, come se non se ne fosse mai andato…”.

La presenza di tanti personaggi illustri legati alla realtà dalmata, sia di diretta provenienza da questa terra che acquisiti, quale consapevolezza sviluppa e che cosa suscita?

“Sì, siamo stati onorati di contare tra le nostre fila, oltre ai maggiori esponenti di tutte le nostre Associazioni, dalmati veraci delle CI venuti per l’occasione dall’altra sponda, politici come Carlo Giovanardi, intellettuali quali Stefano Zecchi, il giornalista del Corriere della Sera Dino Messina e altri. Ed erano presenti anche miei ex alunni, cinquantenni o giù di lì, illustri pure loro per me. La cultura dalmata è conosciuta e apprezzata, il nostro dolore è condiviso, le menti illuminate sanno di noi e ci sono vicine”.

Finita la grande fatica del Raduno, tornerà ai tuoi impegni legati al 10 febbraio che stanno diventando un’occupazione a tempo pieno. Le sue conferenze sono molto richieste. Quale l’impostazione che ne segna il grande successo?

“Addirittura un primo impegno è già andato in porto questo mese, grazie all’organizzazione del preside Giovanni Battista Zannoni, zaratino da parte di madre, cioè un seminario per docenti della provincia di Padova, cui mi sono impegnata ad “insegnare ad insegnare” la nostra storia alle rispettive classi. E ai ragazzi cui anche quest’anno mi rivolgerò – la scorsa stagione sono stati trenta i miei incontri – proporrò una lezione di storia italiana, ancora obliterata nei testi scolastici, una storia di frontiera, una storia di vinti, una storia di un popolo tradito dalla realpolitik e la storia di una bambina di un anno portata in braccio dai suoi genitori verso la libertà. Sono questi gli ingredienti del mio incontro con i giovani…”.

Che cosa rimane nei ragazzi delle scuole, quali riscontri sta avendo?

“È un incontro che si conclude generalmente con lacrime e abbracci. Ed è contraddistinto da un silenzio e da una partecipazione che colpisce anche gli insegnanti. Spesso il seme gettato spinge alla richiesta di bibliografia, induce a rivelare analoghe pagine familiari, produce tesine d’esame sull’argomento”.

Tre libri che dopo l’incontro di Padova, diventeranno parte delle sue lezioni…

“Non solo tre, in pratica tutti quelli che ho ricordato, e mi scuso di averne omessi altri in questa sede, offrono spunti di approfondimento e di riflessione. Dato che procedo a braccio e non leggo mai, affioreranno nelle mie parole echi e suggestioni dei libri che ho citato, in una tematica già così vasta e impegnativa da affrontare e proporre a chi spesso ne è totalmente ignaro. Soprattutto tra gli adulti…ma sessant’anni di congiura del silenzio hanno sortito il loro diabolico effetto”.

Che cosa diventerà questo nostro mondo sparso, ci sono ancora speranze di costruire qualcosa che rimanga anche nel futuro?

“Devo sperare, non solo in quanto madre, nelle “magnifiche sorti e progressive” dei nostri giovani, talmente occupati a perorare la causa della loro affermazione professionale e personale, da non aver margine per impugnare il testimone che vorremmo prima o poi passar loro. Rimarranno le nostre testimonianze artistiche sull’altra sponda, la nostra cultura cui anche quest’anno abbiamo tributato un riconoscimento, la speranza che il mondo dell’immagine e multimediale della nostra era produca sempre più prodotti godibili dal grande pubblico: penso alla strepitosa Mostra da noi esposta a Rimini due anni fa o al film di prossima uscita “Red Land- Rosso Istria”. D’altronde, l’amato Simone Cristicchi non ha raggiunto più di 100000, chi dice 200000, spettatori col suo “Magazzino 18”? Quante conferenze in un colpo solo!”.
Un giorno si racconterà di un popolo che per rimanere libero andò lontano, aveva scritto il poeta rovignese Bepi Nider, dal quale ha attinto Mario Fragiacomo per un suo concerto sull’esodo. Sono parole che spingono a ragionare. Di fronte all’entusiasmo della Ivanov tutto sembra possibile. Anche perché i Dalmati hanno aperto la strada, con i due momenti della Cultura dalmata e del Premio Tommaseo, ad un’eccellenza esemplare che schiude ad una forte speranza per il futuro che ha bisogno di riferimento forti, convincenti, di grande dignità. Ed ogni anno l’attesa di un altro Raduno, per i Dalmati diventa più importante e palpabile.

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