
L’esperienza del 10 febbraio al Quirinale è unica, un Paese che in maniera ufficiale, palese, chiara, ricorda Esodo e Foibe con una cerimonia impeccabile, la presenza delle autorità, dei rappresentanti delle associazioni degli Esuli, i discorsi destinati a lasciare il segno, in particolare quello molto atteso del presidente della Repubblica, è un evento al quale prendere parte almeno una volta nella vita.
Gli occhi di tutti, in questi giorni, sono puntati sui 21 anni della Legge del Ricordo varata nel 2004 grazie alla quale si continua a fare testimonianza, informazione, anche negazionismo, ormai diventati un cliché da proporre nella maggior parte delle città. A volte con cerimonie sentite, a volte con un approccio formale, ma comunque rispettoso. Anche le corone di fiori si alternano con una loro gerarchia, i Comuni in prima fila, le varie formazioni politiche a segnalare una presenza che non è dissenso ma voglia di ribadire una paternità che in effetti è inesistente.
Il ricordo è di tutti
E da qui la prima domanda: il Giorno del Ricordo è commemorazione o una sfilata di contrapposti pareri politici? Facciamo un po’ di storia riandando a quel 2003 quando al Quartiere giuliano-dalmata di Roma, su un palco allestito davanti alla chiesa di San Marco, i rappresentanti dei partiti di tutto l’arco costituzionale (mancavano solo i due estremi di sinistri e di destra) si confrontarono sulla necessità di dare un senso alle tragedie delle genti dell’Adriatico orientale, finiti nelle foibe o protagonisti dell’Esodo, istituendo con una Legge una data da ricordare. Così l’anno dopo, scelto il 10 Febbraio, la Legge venne votata all’unanimità (salvo i due estremi) dal Parlamento. Il Ricordo per tanto è di tutti, non di singoli partiti anche se spesso così si vorrebbe far credere.
Passati i vent’anni sarebbe giusto dare una svolta a queste cerimonie, anche se è di grande consolazione l’alchimia che la giornata è riuscita a creare – tutti vogliono esserci in questa ricorrenza – le iniziative sono cresciute in modo esponenziale già nei primi anni dall’istituzione della Legge e quella spinta iniziale non è mai venuta meno, anzi.
Certo non si contano le strumentalizzazioni, la creazione di sacche d’interesse che antepongono la propria visione alla logica dell’associazionismo giuliano-dalmato con iniziative che vorrebbero “colmare” le mancanze, ma che spesso risultano eventi di facciata, senza alcuna sostanza. L’aiuto, la condivisione sono sempre utili, le prevaricazioni assolutamente no.

Foto: ROSANNA TURCINOVICH GIURICIN
Necessario un progetto unitario
Vero che le legittime associazioni, quelle che rappresentano veramente gli esuli, pur lavorando moltissimo, non sono ancora riuscite a varare un progetto unitario, focalizzato su alcune singole importanti iniziative che riescano a lasciare il segno. Purtroppo regna la dispersione delle forze e delle occasioni, un progetto unitario potrebbe diventare il bacino da cui tutti sarebbero in grado di attingere sviluppando l’idea di fondo, senza tradire il significato del Giorno del Ricordo ma soprattutto senza che nessuno possa sovrapporsi all’associazionismo dando una mano laddove ora si vorrebbe sostituirlo in toto.
È una riflessione necessaria, per gli esuli in Italia e nel Mondo. Quest’ultimi, quelli andati Oltreoceano, con il Giorno del Ricordo hanno visto sciogliersi l’indifferenza delle amministrazioni locali durata decenni. Ma anche loro hanno bisogno di andare oltre, di superare la mera cerimonia o la Messa in suffragio delle vittime senza abbandonare ciò che è diventata consuetudine, ma aggiungendo nuovi contenuti. Un diverso approccio che dovrebbe emergere da un maggiore confronto tra i soggetti coinvolti a beneficio di tutti.
Una cima lanciata ai posteri…
Intanto anche questo Giorno del Ricordo del 2025 sta consumando le tantissime iniziative previste. Coinvolti i Consigli comunali, le Regioni, oltre naturalmente il Quirinale, ovunque, dove è ancora possibile, ci si focalizza sulle testimonianze dell’esodo, la vita nei campi profughi, la difficoltà di trovare una strada. Ed ogni anno emergono nuovi elementi di antiche voci, le ultime o quasi che piano piano si vanno spegnendo.
Ecco che il cinema si è occupato della vicenda di Egea Haffner e del suo esodo da Pola, a Torino è uscito il libro di Grazia Del Treppo sul suo ricordo di Canfanaro, a Trento Rino Girardelli ha fatto conoscere la tragedia dell’aggressione e uccisione di suo padre nel 1943 a Lanischie… è una lista ancora lunga, ma che sta esaurendo il suo tempo. Molte di queste storie sono diventate libri di memorie che vengono raccolte da singoli autori, dalle testate giornalistiche, dagli storici da quando la testimonianza rientra nei loro criteri di documentazione, dall’associazionismo e dalle Comunità degli Italiani. Destinazione di questo materiale: una cima lanciata ai posteri perché l’identità di un popolo sparso non svanisca nel nulla, che sarebbe la tragedia maggiore.

Foto: ROSANNA TURCINOVICH GIURICIN
Le esperienze personali
Ma sono anche i giorni delle esperienze personali. Ricordo Luciano Susan a Toronto, un fiumano pieno d’ingegno, al quale il Quarnero aveva insegnato a destreggiarsi tra scienza e conoscenza, a sentirsi ricco nella diversità e a solidarizzare con chi aveva qualcosa da insegnare. Così, lontano dalla lontana città di provenienza, esule, aveva stretto amicizia con i locali, quelli veri, gli indiani del Nord America, nascosti nelle anse dei fiumi e lungo le sponde dei laghi, mimetizzati tra gli alberi delle foreste per rimanere sé stessi. Quelle canoe e i loro proprietari erano per lui un’attrazione e un bisogno: ogni momento libero lo trascorreva in loro compagnia seppure non gli assomigliassero, o forse sì. Infatti: “cacciati” si diceva, “come noi italiani dell’Adriatico orientale, che raminghi nel dopoguerra, siamo andati a cercare nuove consolazioni e diverse ragioni di vita”. L’esodo nei primi anni in Canada pesava e quindi ogni occasione per ricacciare la nostalgia e plasmarla a nuova vita, diventava un impegno importante.
“Ti conosci Mazzieri?”, ci aveva chiesto Luciano.
Risposta: “El giornalista sportivo?”
“Sì proprio lui. El me chiede de scriver per el giornal, La Voce del Popolo de Fiume, e mi scrivo, così se sentimo vicini”. Era il 2000.
Usati dalla storia
La ricomposizione era iniziata da tempo, sulla spinta del bisogno dei singoli, alfine consapevoli di essere stati usati dalla storia, convinti di dover mantenere intatta un’unità strana, fatta di idee ed esperienze pregresse, episodi marginali, ma profonda, a volte struggente, senza bisogno di essere spiegata, semplicemente presente e palpabile.
“I voleva che fossimo nemici gli uni dei altri, esuli e rimasti, ma noi se volemo ben e questo conta, e i altri non importa che i sappia cosa che noi provemo dentro…”.
Discrezione, una sorta di strana omertà. Ci avevano raccontato la loro storia. Tutti un buon lavoro, la casa acquistata come una priorità irrinunciabile, la macchina nel garage in fondo al vialetto, l’aiuola con i fiori più belli che si possano immaginare. Nel freezer il dolce della domenica… non fosse mai che arrivino degli ospiti.
In cerca di una nuova dimensione
La nostalgia, se così possiamo chiamarla, che esprimevano in vario modo, era piena di vitalità, non un qualcosa di stantio che costringe a stare male, al contrario, qualcosa di palpitante che aiuta a sentirsi forti. “Sarà la società canadese”, avevamo pensato, che stimola le identità più disparate dando loro dignità e spessore. Qui ognuno è in cerca di una dimensione nuova. Tutto diverso dal senso di testarda autoctonia che ha animato “i rimasti” all’indomani dell’esodo. “Questa è casa nostra”, dicevano in Istria, Quarnero e Dalmazia, impegnati a far rispettare l’esistente, in una vana pretesa di vedere “l’altro”, il “nuovo arrivato” in un atteggiamento di rispetto e accettazione di una certa supremazia data dal rapporto secolare col territorio.
Ma si può capire ciò che non si conosce? La risposta era negli sguardi sconcertati e persi degli ultimi arrivati, che imponevano senza alcun patema d’animo un’altra dimensione. Giusta? Per chi cercava un territorio da conquistare era certamente giusta, ma per chi si vedeva sottrarre ciò che aveva di più sacro, l’identità, era un boccone amaro da mandare giù, un continuo rimuginare su una realtà estranea e straniera, che nulla concedeva a ciò che la circondava: solo terra di nuovo insediamento. Questo per la gente semplice, arrivata da ogni dove a riempire nidi vuoti, non certo per la politica, ben cosciente di ciò che stava costruendo: aveva imposto con mano forte e ferma i tracciati e non era certo disposta ad indietreggiare. Quanto dolore negli occhi della nostra gente.
Il crollo di un mondo
È stato il crollo di un mondo che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha creato delle distanze non definibili secondo miglia o chilometri, ma secondo la condizione dell’anima, come in un gioco di luci ed ombre che determinano delle zone oscure dove rifugiare il proprio dolore e zone di luce nelle quali continuare a sperare. È così, dappertutto, vicino o lontano, ovunque nel mondo sia andata la nostra gente, questo piccolo popolo in balìa di eventi epocali. E ancora è così.
Il Giorno del Ricordo serve alle istituzioni, ma anche alle persone sparse nel mondo che hanno bisogno di una stampella per ricostruire la propria identità e tramandarla ai posteri. Tutti possiamo aiutare questo popolo, con un progetto ben definito, a continuare ad esistere, con la conoscenza e la consapevolezza della sua esistenza, qui e ormai dappertutto.

Foto: ROSANNA TURCINOVICH GIURICIN
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