Esodo: dalle parole alle immagini

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Esodo: dalle parole alle immagini

Esodo, prima e dopo. La questione del confine orientale. Ci siamo nutriti di parole, prima attraverso gli studi precisi e misurati degli storici, i saggi dei politici, i romanzi degli scrittori, e i contributi dei testimoni. I prodotti editoriali si sono moltiplicati nel tempo. Ma la parola non basta, non nell’era dell’immagine dove tutto deve essere diretto e immediatamente intelligibile. La storia del cinema che racconta questo mondo disperso istriano-fiumano-dalmato, ha un suo breve inizio nell’immediato dopoguerra e poi, per cinquant’anni un lungo, imbarazzante silenzio, colmato da piccoli tentativi di dare voce ad un mondo non ancora dissolto ma perplesso di fronte a un futuro senza futuro.

Raccontare la storia di un popolo

È quanto si coglie dal “Catalogo del cinema giuliano dalmata” di Alessandro Cuk, presentato nei giorni scorsi a Trieste, che raccoglie, quasi a tracciare un percorso, alcuni esempi di cinematografia e alcuni documentari che raccontano lo sforzo dell’associazionismo giuliano-dalmata nel trattenere alcuni momenti di storia-immagine di questo mondo polverizzato e disperso. Con il collega, il critico cinematografico Lorenzo Codelli, un’autorità nell’universo del film italiano che l’ha introdotto nella sala della libreria Minerva, intende proporre delle rassegne da portare in Italia e nel mondo per raccontare, anche attraverso questo mezzo, la storia di un popolo, con introduzioni e commenti di specialisti. Già nel 2019 potrebbe partire un’iniziativa del genere presso la sala Trevi di Roma e poi espandersi in altre città e Paesi. Sono tre i film sui quali viene posto l’accento – come hanno spiegato i due durante l’incontro –, che rappresentano tre momenti significativi dell’“avventura” filmica sulle tematiche di quest’area, sempre molto difficile, sempre molto controverse: “La città dolente” di Mario Bonnard, “Cuori senza frontiere” di Luigi Zampa e “Profughi a Cinecittà” di Marco Bertozzi. Eppure, colpisce che le prime pellicole siano state girate subito dopo l’esodo, una delle quali proprio “La città dolente” di Mario Bonnard, film realizzato a Pola già nel 1947, mentre la gente si preparava alla partenza, in pieno stile neorealista. Ma uscì nei cinema a soltanto nel 1949
“Nel mondo dell’immagine – spiega Alessandro Cuk, autore del Catalogo – il collegamento tra il cinema e la cosiddetta questione giuliano dalmata è sempre stato difficile e complicato. Difficile perché parlare di queste vicende e di questi territori è stato, almeno per 50 anni e oltre, una sorta di tabù, specialmente parlare di foibe e di esodo era davvero controverso. Tutti li consideravano argomenti indicibili che dovevano essere dimenticati. Complicato perché le vicende da raccontare sono terribilmente articolate e complesse e per decenni sono state considerate con marginalità, come una pagina di storia locale”.
Per Codelli la risposta va anche cercata in una predominante cultura di sinistra che in Italia aveva silenziato alcune questioni, preferendo un cinema di altra impostazione. Ma proprio per questo far emergere gli esempi che comunque ci sono, aiuta a capire un atteggiamento che oggi condiziona il modo di vedere la tematica, spesso dando sfogo a una produzione di dubbio valore cinematografico.

Cinquant’anni di silenzio

Il fatto sconcertante, secondo Cuk, è che 50 anni di silenzio “hanno privato intere generazioni di informazioni e di conoscenza su questi temi, a meno che non avessero in casa qualche riferimento a quei luoghi, un genitore o un nonno. L’associazionismo del mondo giuliano dalmata è stato fondamentale per portare avanti la sua storia, per aiutare a “sdoganare” le sue vicende, per superare quello che era indicibile e renderlo raccontabile. Su questo punto l’istituzione della Legge sul Giorno del ricordo, votata a stragrande maggioranza dal Parlamento italiano nel 2004, è stata indispensabile. E l’associazionismo ha capito che per raccontare meglio la sua storia il supporto audiovisivo è importantissimo. E allora, soprattutto in questi ultimi 10-15 anni, ha stimolato lo sviluppo di molti progetti, specialmente a livello documentaristico, ma non solo, per raccontare finalmente quello che è successo. E questo si è articolato in tante sfaccettature, in numerose testimonianze, le foibe, l’esodo, i campi profughi, ma anche recentemente con “L’ultima spiaggia” si è finalmente puntato l’obiettivo sulla strage di Vergarolla, un’altra vicenda tragica e misconosciuta”.
Alessandro Cuk, con origini fiumane, è nato in Veneto, dove opera nell’ambito dell’ANVGD ed ha un ruolo nella FederEsuli. In questo Catalogo ha raccontato in schede precise e dettagliate una trentina di opere, un numero non certo esaustivo di ciò che è stato prodotto. Molti di questi lavori citati non hanno avuto la giusta distribuzione. Potremmo citare un caso per tutti: un’opera come “Magna Istria” ha avuto una distribuzione minima rispetto all’importanza del film che narra di una giovane donna, nipote di due esuli da Pola – il nonno della protagonista, Bernardo Gissi, impegnato per una vita nell’associazionismo giuliano-dalmato in Piemonte – che, alla ricerca di una ricetta che le permetterà di ricostruire il ricettario smarrito della nonna, incontra l’Istria dei racconti di famiglia. Andrà alla scoperta di un mondo che alla fine sentirà anche suo, quella sensazione di essere a casa che la farà stare bene. Rivediamo lei donna moderna, proiettata verso il futuro, che recita i mantra in una giornata di pioggia in una casa in pietra a Grisignana. Pura poesia.

Magazzino 18: il primo tam tam

Non c’è stato per “Magna Istria” il tam tam che si sarebbe meritato, la gente era ancora lontana dal credere che uno spettacolo potesse spalancare uno squarcio nell’indifferenza del pubblico. così come invece è avvenuto con Magazzino 18 di Simone Cristicchi, per il quale tutti si sono mossi, forse perché sbigottiti dall’operazione televisiva di “Il cuore nel pozzo”, che aveva stravolto la verità su questo mondo di frontiera dilaniato dalla storia. Cuk riserva commenti più scarni per i documentari che hanno girato poco o per niente in Italia, rimanendo ancorati ognuno nell’immediata realtà di realizzo. Molto materiale non ebbe neanche modo di essere montato e prodotto, in modo particolare quando iniziarono gli sfasamenti tra progettazione e finanziamento della Legge 72 da parte del ministero.

Tutto il peso della storia

Nella rassegna sull’arte cinematografica che comunque s’intende proporre, oltre al film di Bonnard, sarà rappresentato “Cuori senza frontiere” di Luigi Zampa, girato nel 1949, una palestra per giovani talenti tra cui anche Tullio Kezich e Callisto Cosulich. Kezich fu anche segretario di produzione. Il Catalogo di Cuk riporta molti particolari dei due film, come pure del terzo, ovvero “Profughi a Cinecittà” alla cui sceneggiatura partecipò la ricercatrice americana Noa Steimatsky che nella pellicola ci riporta alla domanda iniziale: “Perché il neorealismo è rimasto così lontano da questi luoghi, una rimozione collettiva? Perché il grande cinema italiano del dopoguerra non è riuscito ad immaginarsi le cineprese tra le folle dei profughi?”.
Forse è mancato il coraggio, anche se in fondo le immagini documentaristiche, realizzate da unità dell’esercito americano e raccolte in “Combat Film – Trieste terra di nessuno” testimoniano alcuni fatti che vanno dal 1945 al 1947 che hanno ancora bisogno di una riflessione.
“Ecco perché secondo me è importante – conclude Cuk – aver raccolto in un Catalogo questi singoli esempi, spesso slegati tra loro, in quanto danno comunque una testimonianza più ampia di quello che è successo attraverso un repertorio che è utile e prezioso, specialmente per chi ha l’interesse o la curiosità di scoprire o di riscoprire una pagina di storia italiana strappata e dimenticata”.

E Rosso Istria, di cui tutti parlano in questi giorni?

È un altro esperimento, un tentativo di raccontare una storia. Utile per chi si accontenta del “basta che se ne parli”, crudo perché narra una vicenda tragica. A volte impreciso, a volte lontano da quelle atmosfere istriane preludio della violenza, senza nessun cenno alle motivazioni che la resero necessaria nel progetto degli invasori.
“A volte è necessario andare ad analizzare anche ciò che ha prodotto chi stava dall’altra parte” afferma Codelli, accennando a una cinematografia su questi argomenti, che soprattutto in Slovenia – Stiglic, Cap ed altri – hanno affrontato con coraggio ed obiettività.
L’ingenuità dei primi film, quelli a cavallo tra gli Anni ‘40 e ‘50, qui trovano una rielaborazione ed una risposta perché è l’evoluzione sul territorio che si racconta con tutto il peso che vi ha depositato la storia. A questo materiale così raccolto, altro ne andrebbe aggiunto, prodotto da singole realtà ma anche da una grossa presenza come Tv Capodistria, di cui si cita l’opera monumentale “L’Istria nel tempo”, il video sull’evoluzione storica della penisola. Il filo rosso di tutti questi lavori è proprio il tempo, che si racconta come fosse ora, per recuperare ciò con non c’è più ma che ancora ci guida e ci sostiene.

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