Fiume è la storia di suo padre, la passione della madre che se ne innamora, l’esodo dei genitori, il rapporto con i parenti, i ritorni, la pesantezza dei confini. Elisa Sinosich vive da anni a Cividale del Friuli, dove l’ha portata la sua professione di farmacista che condivide col marito, Franco Fornasaro.
“Siamo cresciuti insieme a Trieste nel quartiere di San Giacomo – racconta –. Terminati gli studi e dopo un periodo di assestamento ci informarono che avremmo potuto avere una farmacia tutta per noi a Cividale. Siamo partiti per rimanere un breve periodo, ma è diventata la nostra casa, un luogo per la vita dal quale partire ed esplorare la professione e i contatti con una località piena di cultura, di storia, di richiami”.
Elisa è anche presidente dell’ERAPLE, l’ente regionale per i corregionali nel mondo. Come sei entrata a fare parte di questo mondo?
“Quasi per caso quando l’allora presidente Tarcisio Barbo, triestino come noi, dovette lasciare l’incarico perché eletto per un mandato politico-amministrativo e quindi costretto a dimettersi per scongiurare il conflitto d’interesse. Agli inizi degli anni Duemila, mi cercarono. Si apriva per me un percorso di grande novità, seppure mi fossi già occupata lungamente sia del discorso dell’identità che dell’emigrazione, due momenti che procedono su sentieri intrecciati. A farmi decidere di accettare l’incarico è stata la definizione stessa dell’ERAPLE, che mi permetteva di prendere contatto con i corregionali all’estero emigrati dal Friuli Venezia Giulia per motivi vari e qualunque fosse la sua lingua o cultura d’origine in loco”.
Perché la regione FVG aveva creato questa associazione, a che cosa è legata la sua importanza?
“Potrebbe essere sufficiente il dato statistico dei residenti fuori Regione più numerosi di quelli presenti sul territorio. Ma nasce in particolare per dare a queste persone all’estero il giusto supporto. Oggi le condizioni sono mutate moltissimo, eppure si continua a emigrare. Quindi noi raggiungiamo i corregionali all’estero e attraverso i patronati ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, nda) e ENAIP (Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale, nda) forniamo supporto. Concretamente, ci mettiamo a disposizione per le pratiche pensionistiche e altro. Ribaltiamo la situazione per un momento: uno dei nodi della nostra società regionale oggi, è l’accoglienza, lo è stata anche per noi all’estero, spesso ce ne dimentichiamo, rimuoviamo il ricordo di ciò che abbiamo subito, trattando tutti da delinquenti, dimenticando ciò che significa andare nel mondo alla ricerca di un pezzo di pane. Pensiamo a cosa ha rappresentato Marcinelle nella nostra storia. Una delle attività è proprio quella di portare le scolaresche a scoprire le condizioni di lavoro in queste località minerarie, dove le tragedie erano sempre in agguato. Nello stesso tempo le accompagniamo a visitare i campi di concentramento dove molti corregionali hanno incontrato una fine tragica. E questa è la parte triste, nello stesso tempo partecipiamo alle varie ricorrenze nei club sparsi un po’ dappertutto per portare in queste occasioni gioiose il pensiero, i sapori, la bellezza dell’FVG”.
Marcinelle è un episodio particolare del vostro impegno, avete cercato – e continuate a farlo – di rendere testimonianza.
“Una volta all’anno partecipiamo ai loro incontri presso il museo che ricorda gli eventi della miniera, compresa la terribile tragedia dell’agosto del 1956 quando perirono centinaia di minatori. L’unica targa visibile oggi in questo luogo, è la nostra. Abbiamo coinvolto nella commemorazione anche la Comunità degli Italiani di Fiume, con la collaborazione di Mario Micheli, all’epoca presidente della Giunta esecutiva della CI. E poi gli Alpini. La cerimonia che vi si svolge è molto toccante: alla lettura di ogni nome segue il rintocco della campana, dei 300 morti, 250 provenivano dalle nostre zone. La cerimonia si chiude con l’infiorata con le corone di fiori depositate da tutte le associazioni presenti, sia nazionali belghe che italiane. L’11 settembre di quest’anno siamo stati anche a New York per ricordare le nostre vittime. Le indagini sono ancora in corso per raccogliere, a memoria, tutti i nomi. È il terzo anno consecutivo che partecipiamo alla manifestazione”.
Di fronte a tutto ciò, è logico porsi una domanda: perché le associazioni vengono coinvolte marginalmente o si tralasciano pezzi di memoria, vedi la tragedia di Arsia del febbraio 1940, quanto il territorio era Italia.
“La memoria è scomoda, tutti ricordano solo ciò che vogliono. Credo sia necessaria una purificazione onesta della memoria, attraverso la laicità di pensiero, fondamentale e senza condizionamenti. Ognuno vede solo la propria parte di storia, noi abbiamo fatto una scelta diversa, in questo non siamo come gli altri”.
Come ha influito su questo sentire la vicenda dell’esodo che ha travolto anche la tua famiglia?
“Mi sento molto vicina a queste persone, ieri e oggi, per quanto si possa ricostruire una vita altrove, sarai sempre uno straniero, ti manca quella dimensione intima della tua casa, allora come ora. L’identità, a mio vedere, è qualcosa che preoccupa più gli uomini che le donne, per un uomo è irrinunciabile, per essere sereno ed equilibrato. La donna ha altre dinamiche, trasferisce al figlio la propria identità. Le donne accettano l’integrazione, imparano la lingua, portano i bambini a scuola, vanno a fare la spesa e cercano di capire, l’uomo no, rinuncia difficilmente alle proprie tradizioni culturali. Ho sempre presente l’esempio di mia madre. È stata una grande, ed è mancata dopo aver superato di qualche anno i cento. Si era trasferita da Brindisi a Fiume per avere sposato un fiumano, incontrando abitudini, linguaggi, cucine diverse, eppure ha amato Fiume fino in fondo. A cent’anni, guardava in TV soltanto lo sport, la partita tra Milan e Rijeka in Europa League. Per chi tiferai, le chiesero. Ma per la Fiumana, rispose, cossa ga bisogno el Milan che tegno per lori? E gridava Forza Fiume e stava attenta se il cronista avrebbe detto Fiume o Rijeka. Juventina convinta, ma della vecchia guardia. A Fiume aveva imparato anche il croato, mio padre no”.
Che mestiere faceva tuo padre?
“Mio padre Piero lavorava al cantiere, alla Grandi Motori. Partito militare a 19 anni ‘son tornado a casa vecio’ ripeteva, ha partecipato anche alla presa di Sebenico del 1941. Raccontava che si fosse trattato di un ‘accordo in osteria, semo entradi e ghe gavemo deto: se voi non ne sparè noi neanche’. Josip Bumber era l’oste che aveva organizzato l’incontro. Così sono scesi al compromesso e nessuno si è fatto male. Suo fratello, era terzino della Fiumana, i partigiani l’hanno preso e portato via. Fuori dal cantiere ad aspettare mio padre c’erano quelli della Decima MAS, lo portarono in carcere. Mia madre, che era amica della fidanzata di Palatucci, le chiese aiuto. Palatucci ne venne informato. Lo raggiunse in carcere, e lui gli disse: sono stato richiamato mille volte, ora dovrei andare con la Decima MAS e sparare contro mio fratello che è con i partigiani. Sono stufo. Quella notte la porta della cella rimase aperta ed egli uscì”.
La guerra, però, era appena cominciata…
“Cercò una via di fuga. Con una lettera di Palatucci nel 1943 si presentò, prima dell’8 settembre, in Questura a Trieste ed entrò a far parte della polizia stradale, poi venne trasferito a Padova. ‘Se ti resti a Trieste i te ciapa’, l’avevano messo in guardia. Padova era con la Repubblica di Salò per cui non ebbe mai la pensione per quegli anni. Un giorno lo vengono a chiamare e gli dicono: ‘Pietro c’è una signora che ti cerca’, era mia madre, Filomena Giovanna, detta Nena, che era andata a cercarlo sfidando ogni pericolo. Mio padre finì anche in galera dopo l’occupazione di Trieste mentre stava trasferendo i soldi dei salari dei questori a Padova. Lo portarono al campo di concentramento di Prestrane dove dichiarò di essere un cuoco. Questa sua nuova mansione gli permise di fuggire. Era molto fiumano come indole. A Fiume erano rimaste le sorelle Nerina (madre di Flavio Bonita, scomparso recentemente, nda) e Maria. Lui era il più vecchio e poi c’erano altri due fratelli, Silvio e il terzino Nini Zavata (come veniva affettuosamente chiamato). Ultima è Nirvana che vive a Monfalcone. A fine guerra i miei genitori si sono trasferiti a Salerno, la città di mia madre e lì sono nata. Dopo il ‘54 siamo tornati a Trieste, a San Giacomo”.
La tua scelta di studiare farmaceutica come è stata accolta a casa?
“A dire il vero volevo fare medicina, ma passando dalla sala settoria, dopo aver sentito l’odore del cadavere, ho detto no. E mi sono iscritta a farmacia. Amavo quelle materie: chimica, fisica, laboratori. A 23 anni ero già laureata. Sapendo preparare prodotti galenici ho continuato a farlo fino al recentissimo pensionamento”.
Fiume che cosa ha rappresentato nella tua vita?
“È la terra dei nonni che parlavano in modo diverso. Quand’ero piccola mi colpiva la loro conoscenza di lingue diverse: e poi le zie più giovani cantavano e giocavano con me, si organizzava il festival in casa. Si andava spesso a trovarli, pieni di ogni ben di Dio con i disagi del confine. Abbiamo sopportato di tutto su quella frontiera. Se oggi mi riparlano di confini non riesco a contenere la rabbia. Andavo semplicemente a trovare i miei nonni che erano austro-ungarici se proprio vogliamo. Arrivata a Fiume si spalancava una realtà felice. Difficile raccontarlo ai giovani, la nostra gente ha scelto un colpevole silenzio, per non soccombere, per non soffrire, ha preferito nascondersi, non dire. Noi oggi ricordiamo chi ha fatto fortuna, ma non quelli che sono morti suicidi, che sono finiti in miseria, che non sono riusciti a emergere in alcun modo. La mia compagna di banco diceva di essere nata a Trieste e rifiutava di essere considerata istriana. Trieste non ci ha mai accolti veramente, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, per noi, per tutti”.
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