È diventato un amico di famiglia come lo era per Quarantotti Gambini

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È diventato un amico di famiglia come lo era per Quarantotti Gambini

Un’estate torrida a Milano, la città praticamente deserta, Cristina Battocletti, giornalista del Sole 24 ORE, friulana che vive ormai da tempo tra Lombardia ed FVG, si reca in casa di amici. Le hanno detto che gli incubi del suo libro “La mantella del Diavolo”, Bompiani 2015, assomigliano a quelli di Bobi Bazlen. Allora si è messa ad indagare. Perché c’era così poco in giro di un personaggio chiave dell’editoria nazionale del Novecento, perché anche Trieste stenta a riconoscerne la grandezza. Era arrivato anche il 50.esimo dalla morte e non un cenno a questo nume tutelare di tanti autori che con le loro opere hanno scritto la storia della letteratura.

Bisognava fare qualcosa.

In questa calda giornata milanese, scopre, in casa di amici, degli oggetti che gli erano appartenuti, a lui, a Bazlen, che andava vagando senza meta nelle dimore dei conoscenti in tutta Italia, da Milano, a Roma, a Firenze. Era un segno, una strada da seguire e percorrere fino in fondo. Perché girava dappertutto ma non a Trieste, dove non riusciva a ritornare per il suo rapporto difficile con la madre e soprattutto per i vuoti che diventano immensi nei luoghi che conosci a fondo.

Ma doveva essere una tesi di laurea, un dottorato?

“No, nulla di tutto ciò, solo il desiderio di andare a fondo, di capire un fenomeno del Novecento, e nostro, di questa Trieste che è stata d’ispirazione per tanti”.
Dopo la sua presenza al Bloomsday di Trieste, le giornate dedicate a Joyce in una immersione completa nello spirito dell’autore irlandese che è diventato uno dei simboli della città, Cristina Battocletti ha presentato il suo libro nei giorni scorsi anche a Lignano, dove sotto l’ombrellone, gli autori dialogano tra di loro e con il pubblico in serate di confronto, incontro, catarsi. Così Bobi ritorna, sempre più vicino a casa, dove anche Cristina si muove perché appartiene a questa regione per origini e anche per i suoi legami con una cultura che continua ad affascinarla. La incontriamo a Trieste, toccata e fuga con sua figlia, la più piccola, Nora, che mentre “i grandi” discutono, legge avidamente le pagine di un libro, e sorride al tempo che dovrebbe scorrere più velocemente. Bazlen è stato l’interfaccia privilegiato di Pier Antonio Quarantotti Gambini, di cui aveva intuito la grandezza e la fragilità”.
“E questa è la cosa più affascinante del loro rapporto… nello stesso tempo, Gambini aveva compreso i dilemmi di Bazlen, e ridusse in cenere i suoi scritti nel giordino della casa veneziana, sotto agli occhi curiosi del nipote, unico testimone di questa vicenda”.

Ma chi era Bobi Bazlen?

“Bobi Bazlen (Trieste 1902 – Milano 1965) è stato uno dei protagonisti più influenti della cultura italiana nel Novecento. Fondatore assieme a Luciano Foà di Adelphi, consulente di Einaudi e delle più importanti case editrici italiane, grazie a lui venne scoperto Italo Svevo e pubblicata la letteratura mitteleuropea fino ad allora sconosciuta, tra cui Franz Kafka e Robert Musil. Capace di leggere indifferentemente in tedesco, italiano, inglese e francese, indovinava il valore dei libri in base al fatto che avessero ‘il suono giusto’. Affascinato da oroscopi e mappe astrologiche, aveva una cultura vastissima che si spingeva fino all’antropologia e all’arte primitiva. Di madre ebrea e padre cristiano evangelico, da adulto abbracciò il taoismo e le filosofie orientali. Imprendibile, misterioso, bizzarro anche nel vestiario, è rimasto sempre nell’ombra. Chi era dunque, Roberto, Bobi, Bazlen? Perché ha lasciato fantasmi irrisolti? Perché era amato da tanti, come la poetessa Amelia Rosselli, e avversato da altri, come il regista Pier Paolo Pasolini e lo scrittore Alberto Moravia? Una vita piena di passioni, amicizie profonde e frequentazioni di intellettuali come Elsa Morante, sullo sfondo della grande storia del secolo breve. Dalle mattinate passate nella bottega di Umberto Saba, al dialogo ininterrotto con Eugenio Montale, all’avventura della psicoanalisi, con Edoardo Weiss e Ernst Bernhard, di cui fu uno dei primi pazienti. Questo libro racconta un Bazlen inedito, attraverso lettere e testimonianze che riportano a Trieste, la città che lasciò a 32 anni senza farvi (forse) più ritorno”.

Eppure proprio a Trieste prese coscienza questo contatto tra gli autori, fondamentale per stimolare la creatività, con la voglia di confrontarsi che oggi non ritroviamo più. La scrittura è un gesto solitario ma poi ha bisogno di confronti…

“È fondamentale perché ci sono dei passaggi in cui tu non ti rendi conto più degli errori che fai o di dove stai andando a parare. Per esempio in Primavera a Trieste, dell’autore capodistriano suo amico, Bazlen fu fondamentale sia perché Quarantotti Gambini aveva utilizzato un linguaggio eccessivamente barocco, ovvero italianissimo e nazionalista, e poi perché nel carteggio che ho avuto modo di analizzare, Bazlen gli diceva di non avere preso in considerazione il fatto che non tutti gli slavi fossero comunisti titini ma erano delle persone pacifiche che ad un certo punto si sono viste invadere dagli italiani che per loro diventavano tutti fascisti. Quindi lo corregge sia in senso politico che letterario. Quello di Bazlen e degli altri come lui, c’era un lavoro nell’ombra da parte di una generazione. Oggi non è così, tutti hanno bisogno di una ribalta e quindi sono pochi gli editor che fanno questo lavoro dietro le quinte, senza apparire, senza pretendere meriti, ma ci sono tanti editor minori che sono quasi delle formiche dentro le case editoriali che non vengono mai presi in considerazione”.

Attraverso il carteggio, in gran parte inedito, che cosa hai scoperto di questo personaggio, Quarantotti Gambini, che già non si sapesse?

“Scriveva nella sua prefazione ‘fui scoperto da Saba e da Hughes’, quest’ultimi in effetti erano un paravento perché il suo legame era con Bazlen. Poi ne esce anche questa grande fragilità sentimentale. Aveva un costante bisogno di cambiare partner, una incredibile velocità di consumo dei rapporti sentimentali con persone spesso molto più giovani di lui. Anche questo è un dato di fragilità di uomini che non riescono a confrontarsi con donne della propria età. È una parte del carteggio che ho potuto fare emergere solo marginalmente, perché con spunti troppo privati. Alla storia è passata solo la parentesi con la giovane pittrice, invece poi aveva avuto diverse relazioni. Loro due erano molto amici, nel vero senso della parola. Bazlen spesso gli raccomandava di ospitare e trovare lavoro a comuni conoscenti, come si fa tra pochi intimi, c’era un profondo senso di solidarietà tra loro due, anche perché era appena terminata la guerra e questo li rendeva particolarmente aperti, ricettivi, consci del mondo da cui provenivano”.

Che cosa ti rimane di questo libro?

“Tutto, mi accompagna in continuazione a partire dal nome che mia figlia, la più piccola, ha dato ai suoi orsi di peluche, uno si chiama Bobi, l’altro Bazlen. Insieme festeggiamo il compleanno di Bobi ogni anno, è uno di famiglia. È stata una grande lezione, anzi sono due i triestini che mi hanno dato una lezione di tenacia pazzesca, scegliendo tutti e due nelle avversità di tenera bassa la testa ed aspettare: uno è Boris Pahor, il cui successo letterario è giunto quand’era ultraottuagenario e l’altro è Bobi Bazlen che ha avuto delle avversità sentimentali ed economiche pesantissime ma con un senso della solidarietà e dell’amicizia ancora più grandi, insieme all’amore che aveva per Trieste. È una terra da cui si ritorna, dalla quale non si può prescindere, questa è la verità”.

Anche per te Pahor è stato un maestro, come l’ha descritto nel suo romanzo “La figlia che vorrei”, Tatjana Rojc?

“No, mi incuriosisce, mi suscita tenerezza perché è un uomo che ha vissuto la storia. Lui è il Novecento, nel bene e nel male. Ma maestro no, anche perché credo di non averne mai avuti e non perché non ne abbia bisogno, è forse un po’ la mia generazione che è senza padri… quindi direi di no”.

È un bene o un male?

“Male, avere padri sempre aiuta”.

Lasciamo Cristina che continua a dividersi tra i vari impegni e che andandosene aggiunge.

“Anche la creazione di Adelphi, casa editrice che ha cambiato le sorti della letteratura del Novecento, aprendo al mondo, passa per Trieste, come è successo tempo prima per la psicanalisi. Una città di frontiera, non certo marginale. Lo stesso Gambini veniva da Capodistria…”.
Mentre la Battocletti si allontana ripensiamo agli uomini illustri della città istriana: Carli, Combi molto in là nel tempo, Santorio, Vergerio, senza dimenticare che vi frequentò le scuole Tomizza. Pensiamo a Apollonio, Sema, Maier… Spesso una dimensione che sfugge e che il caldo dell’estate riporta a galla, come per Cristina sulle tracce di Bazlen e di Gambini insieme a Saba, Svevo, Montale, e tutti gli altri che componevano questo salotto di menti, idee e “ciacole” che il presente invidia.

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