Ambasciatore fiumano in un Paese in guerra: il caso del Mali

A colloquio con Stefano A. Dejak sulla sua missione di diplomatico nello Stato africano

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Ambasciatore fiumano in un Paese in guerra: il caso del Mali
L'inaugurazione della nuova Associazione d'Affari italo-maliana. Foto gentilmente concessa da Stefano A. Dejak

Nell’ottobre 2020, l’allora viceministro degli Esteri Emanuela Del Re aveva annunciato l’apertura dell’ambasciata italiana a Bamako, in Mali. L’anno dopo, l’Italia accreditava il ministro plenipotenziario Stefano A. Dejak, ambasciatore straordinario e plenipotenziario nel Paese africano ove l’Italia era rappresentata, precedentemente, dall’Ambasciata italiana in Senegal. Il nuovo ambasciatore era in precedenza ambasciatore dell’Unione Europea in Kenya. Si concludeva con questa nomina un’opera iniziata già nel 2015, quando i due Paesi stavano lavorando per rafforzare i rapporti di cooperazione e, nello stesso tempo, iniziava una nuova epoca di contatti. Fu allora che il presidente italiano assicurò al suo interlocutore di allora, Bruno Maiga, accreditato come ambasciatore del Mali in Italia, la sua reale volontà di lavorare per rafforzare i legami di cooperazione con il Mali.
“Ho iniziato la mia carriera diplomatica in Nigeria e Repubblica del Benin. Quindi, quale ambasciatore d’Italia in Somalia, Uganda, Ruanda, Burundi per poi diventare ambasciatore dell’Unione Europea in Kenya, rappresentante permanente dell’Unione Europea alle Nazioni Unite, regolarmente accreditato a New York, ma con sede a Nairobi, che è l’unica sede dell’ONU nel sud del Mondo, ovvero al di sotto dell’equatore. Il Kenya è l’unico Paese in via di sviluppo a ospitare agenzie dell’Onu. A Nairobi si trovano, difatti, i Quartier generali dell’UNEP e del Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani”.

Prima di iniziare una curiosità anima il nostro incontro… ma il suo cognome?
“Giunge dall’Ungheria, Deak, con sosta a Fiume dove vissero i miei avi, nell’unico porto ungherese dell’Impero asburgico. Il bisnonno, comandante dell’esercito ungherese, il nonno un funzionario diplomatico che perse il suo datore di lavoro da giovane console a Zurigo. Dall’altra parte della famiglia ho un nonno che si chiamava Ciro, perché suo padre era stato in galera con Ciro Menotti, emiliani, risorgimentalisti, patrioti. Il che significa avere le due ali della famiglia che combattevano su fronti contrapposti. Sono erede della pace raggiunta in Europa, quindi quale migliore mestiere che fare il diplomatico, soprattutto per costruire un’Europa migliore. E per di più sono ‘naturalizzato’ veneziano: ne sono cittadino da quando avevo dodici anni. Ovvero provengo dalla città che ha dato vita alla diplomazia intesa in senso moderno”.
Inizia così l’intervista con l’Ambasciatore Dejak la cui lunga esperienza si riassume in una domanda di fondo: come ci si prepara per affrontare la realtà di un Paese come il Mali con tante emergenze?
“Due osservazioni. La prima: la diplomazia è innanzitutto artigianato, da costruire e plasmare sul campo. La seconda osservazione: che cosa ci vuole per ricoprire un posto specifico come il mio, una sede bellica? Ho messo in campo un’esperienza trentennale. Ci sono luoghi che impegnano particolarmente, come Bagdad o come lo era Kabul finché avevamo lì una sede. Avevo già fatto Mogadiscio e devo dire che neanche Lagos sia una sede proprio tranquilla. Pertanto, l’unica preparazione possibile è questa: perseveranza, mai scoraggiarsi, se qualcosa non funziona meglio provare e riprovare: metodo galileiano se preferisce, ovvero quello scientifico, basato sull’osservazione oggettiva della realtà. E dall’altro l’umiltà intellettuale. Il so di non sapere nel momento in cui ci si trova in realtà così diverse dalle nostre. Mai arrivare con preconcetti o lanciarsi in considerazioni sulle differenze tra qui e l’Europa. Gli standard sono capovolti, il rischio è presente, la quotidianità è diversa. Mancano quasi tutte le abitudini quotidiane che diamo per scontate in Europa. Ad esempio, non c’è distribuzione di gas nelle case (si va a bombole), l’elettricità viene e va continuamente, l’acqua corrente è a rischio (si può usare solo l’acqua minerale), la verdura va trattata con un disinfettante”.

Che cosa porta in questi luoghi l’uomo europeo?
“Stiamo attenti. Apparentemente l’uomo europeo che arriva in questi posti, conclude di avere a casa propria tutto ciò che qui all’apparenza manca, per cui ne deriva un senso irriflesso di provenire da una civiltà superiore e in dovere di insegnare come si vive. Non è così. Gli esseri umani vivono in maniere molto diverse. Posso dire che esistono villaggi dispersi nella savana, nella giungla, nel deserto, per esempio i villaggi dei Tuareg a nord del Mali, dove la qualità della vita percepita è migliore di quella che si vive in certe periferie urbane europee. Ma anche nei centri dove ormai t’imbatti continuamente in essere umani robotizzati, che non riescono a staccare lo sguardo dai social media, spesso inutili, ma in grado di produrre una specie di tossicodipendenza mentale. L’ho notato a Londra, dove ho vissuto per dieci anni. Di recente, ho visto che le persone girano con in mano questi apparecchi elettronici, non riescono neanche a metterli in tasca, vittime consenzienti di tale tossicodipendenza mentale, quasi non fossero in grado di stare in mezzo alla gente, di dimostrare una minima empatia umana, di dire ‘buongiorno’! Qui la vita è molto difficile da capire, ma le differenze materiali non significano necessariamente una gerarchia”.

In Europa spesso non si ragiona sui reali motivi dell’emigrazione. Chi parte cosa spera di trovare altrove?
“Eh mia cara, se stai schiattando di fame, i bambini muoiono perché non c’è nessun tipo di cura sanitaria, è giocoforza cercare aiuto altrove. Quasi da tutte le regioni d’Italia, per generazioni l’hanno fatto per secoli per superare l’indigenza. Scappi, se poi c’è la guerra ancora di più. In questa fascia Sahelo-Sahariana, dal Mali, alla Somalia, all’Eritrea e Etiopia, in questo momento sussiste una fascia di instabilità mai vista prima. Si fugge dai conflitti, da guerre orrende che la storia non ricorda. Nel nord del Mali c’è un conflitto, nel Ciad c’è una guerra strisciante, in Repubblica centro africana lo stesso, in Sudan c’è una guerra tremenda…non ti poni il problema se quando arriverai ci saranno le sdraio o i lettini, prendi e fuggi arrivando ovunque, cercando di mandare in qualsiasi modo dei soldi a casa”.

Che ruolo può avere l’Italia in questi contesti così difficili? Che linea percorrono le ambasciate in questi Paesi per dare un aiuto concreto?
“Sin dall’inizio della mia carriera mi sono impegnato per costruire associazioni di imprenditori italiani in Africa. Ho sempre ritenuto che gli imprenditori per poter lavorare in questi Paesi hanno bisogno di parlare con altri imprenditori, più che con diplomatici ed Ambasciate. Sin dal 1994 ho operato in questo modo, iniziando dalla cooperazione italo-nigeriana finendo come Ambasciatore dell’Unione Europea a Nairobi, fondando l’Associazione degli imprenditori europei in Kenya. Dopodiché, anche qui in realtà, due mesi dopo essere arrivato, nell’autunno 2021, ho messo in piedi l’Associazione italo-maliana di imprenditori. Questo è ciò che si può fare”.

Quale è stato il suo primo approccio col Mali?
“Il primo incontro a 18 anni quando ho conosciuto la musica maliana, una delle meraviglie del mondo. Lo strumento più conosciuto è la khora, una specie di zucca con un manico (tipo il sitar indiano) il cui suono assomiglia all’arpa europea. Sono un melomane; prima di entrare all’Università ero un DeeJay. Quella maliana è autentica musica africana, ma imperniata su strumenti a corda e non a percussione, peculiarità unica in un panorama africano ove prevalgono le percussioni sugli strumenti a corda. Non a caso questa è ritenuta la terra d’origine del blues americano, portato con la tratta degli schiavi nelle piantagioni americane di cotone. Inoltre, nel nord del Mali c’è Timbuctù, situata ai bordi del Sahara. Fu un grande centro di diffusione della cultura islamica ed era il punto di partenza delle vie carovaniere che attraversavano il deserto. Raggiunse il massimo splendore verso il 1500. Qui si custodiscono manoscritti preziosi che si cercano di salvare con la digitalizzazione: rappresentano quello che per noi fu il Rinascimento, perché ci fu una rinascita legata alla trascrizione dei testi classici realizzati in quell’epoca dagli emanuensi, l’arrivo del processo di stampa permise all’Europa di fare un salto culturale. Timbuctù è una Firenze o l’Atene del Sahara. E, guarda caso, è una Fondazione italiana (la torinese AMALIA) che si occupa di restaurarli”.

C’è spazio per parlare di turismo?
“No, nel modo più assoluto. Tra guerra e jihadismo, come è ben spiegato sulla pagina “Viaggiare Sicuri” del nostro Ministero, sconsiglio tassativamente di fare turismo in questi Paesi. In Europa siamo viziati dall’idea del turismo possibile ovunque: così, purtroppo, non è. Queste popolazioni non sanno come mettere assieme il pranzo con la cena e non sanno dove rifugiarsi dalla guerra, l’85 per cento del territorio maliano è percorso da guerriglieri jihadisti, per cui perlomeno da un punto di vista turistico lascerei il Mali a un futuro che si dimostri più affidabile.
Ecco perché qui la vita del diplomatico è impegnativa: non è lo sfarfallamento stereotipato dei “Ferrero Rocher” cui molti credono: tutt’altro. Ciononostante, dopo trent’anni e passa, se mi ritrovassi appena laureato rifarei il medesimo percorso. Un privilegio lavorare per lo Stato e per gli Italiani e, soprattutto, poterlo fare in maniera da percepirne il gradimento”.

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