L’OPINIONE Il (non) ricordo

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L’OPINIONE Il (non) ricordo

La commemorazione del Giorno del Ricordo è entrata nel diciottesimo anno d’età. Cerimonie alquanto pacate – dovute alla situazione epidemiologica –, riflessioni che escono dal perimetro della vuota retorica, nuovi sguardi che allargano l’orizzonte ed evitano di finire nelle secche delle polemiche inutili, sono alcune caratteristiche che hanno accompagnato questo Dieci febbraio. Al Senato a Roma, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella e del primo ministro, Mario Draghi, il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, ha ricordato anche gli italiani che rimasero nei territori d’origine dopo gli spostamenti del confine, mentre il presidente dell’ANVGD di Roma, Donatella Schürzel, ha sottolineato, opportunamente, l’autoctonia della componente italiana dell’Adriatico orientale. Appunto doveroso sia in Italia sia in Slovenia e Croazia. Ricordiamo che recentemente in un sito sloveno dedicato all’architettura, un edificio ristrutturato, risalente al periodo tra le due guerre mondiali, a San Colombano, nel comune di Capodistria, è stato definito ‘tipica casa coloniale italiana’, che per il proprietario – architetto e già professore all’Università di Lubiana –, intervistato nell’ambito di una trasmissione di TV Slovenia dedicata alle ristrutturazioni, è “una tipica casa dell’occupatore”!, costruita dagli italiani, dopo Rapallo, su un colle che reputavano troppo slavo. Quanta malafede! Non dobbiamo meravigliarci. Della presenza italiana in questi territori, abbarbicata fin dai tempi antelucani non si parla, si glissa, trovando interpretazioni alternative, bizzarre quanto claudicanti, le assenze, poi, parlano palesemente. Nel 2020, per esempio, il Comune di Capodistria ha dimenticato una personalità di statura europea come Gian Rinaldo Carli nel trecentesimo della nascita, ma ha celebrato il centocinquantesimo del tabor di Coved (Kubed), episodio del risorgimento nazionale (ma anche dell’incipiente nazionalismo, sebbene si ometta quest’aspetto) sloveno in Istria. Esiste un passato e un retaggio da rammentare e tramandare e un altro che, tranquillamente, può essere accantonato. Se ne può sempre occupare la comunità italiana, sembra essere il messaggio. Ma quest’ultima non è parte integrante della municipalità, non paga le tasse come tutti gli altri cittadini? È la linea della dominanza, che è iniziata nel secondo dopoguerra e continua. In occasione del Giorno del Ricordo i mezzi d’informazione non sono andati oltre la cronaca, quasi a voler dire che il problema non li tange. Accanto allo svuotamento quasi totale dei centri e dei villaggi italiani se ne andarono pure tanti sloveni, ma non devono essere ricordati, perché nella vulgata chi aveva abbandonato le proprie case avrebbe peccato di superiorità nazionale (o sarebbe stato fascista), mentre la parola comunismo è bandita dal vocabolario, dimenticando i suoi misfatti, che nel resto della Slovenia vengono sempre più alla luce, scavando e studiando. Dalle nostre parti, invece, la stella rossa coronò le istanze del nazionalismo sloveno otto-novecentesche, perciò si continua a esaltarlo, ma non per convinzione ideologica. Non è raro leggere il rammarico per la ‘perdita’ di Trieste e Gorizia, da parte di quanti difendono i valori della lotta popolare di liberazione, quegli stessi che salutano il ‘ritorno’ (ossia l’annessione) del Litorale alla ‘madrepatria’, comprese le città che volevano l’Italia (si studi la posizione delle élite nel Risorgimento, anziché ignorarle).
Su certa stampa non si è andati oltre i toni polemici, secondo la quale vi sarebbe solo una memoria selettiva, perché ricordando i drammi del secondo dopoguerra non ci si sofferma sul fascismo. Insomma la logica del chiodo schiaccia chiodo sarebbe l’unica a spiegare tutto. Il fascismo ha colpito, e tanto, gli stessi italiani, si ripassi un po’ la storia, siamo consapevoli delle sue responsabilità. C’è stata la resa dei conti, come dopo ogni guerra, ma non si faccia finta non sia stata attuata la rivoluzione comunista, con la sanguinosa presa del potere, eliminando i ‘nemici del popolo’, e la costruzione dello stato totalitario. Dalle nostre parti le cose si complicarono ulteriormente con il problema confinario. Anche questi passaggi sono parte integrante di quelle “più complesse vicende del confine orientale d’Italia”, come recita il testo della legge n. 92/2004, passaggio caro a chi ritiene, con ragione, si debba allargare lo sguardo. Potrà sembrare paradossale ma gli sloveni inizieranno a cogliere la portata di quella tragedia – perché la scomparsa di una componente nazionale e della sua civiltà non può essere definita diversamente – solo quando faranno chiarezza sulla loro storia e la vulgata propagandistica, che ha attecchito bene, cederà il passo alla verità storica. Gli studiosi già da tempo esaminano i tempi bui, con i processi sommari, le uccisioni di massa, i campi d’internamento e di lavoro, le espulsioni coatte, ma sono argomenti che rimangono confinati tra gli specialisti, nella società entrano con fatica, anche perché esistono ancora i ‘guardiani della memoria della rivoluzione’. Pertanto sarebbe tutto propaganda e provocazione? Ci vuole molta sfacciataggine a sostenere questa tesi.

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