Il caso delle “targhe rivoltate” a Capodistria sta suscitando sgomento e protesta tra le file dei connazionali, e l’irritazione dei cittadini che si riconoscono nei valori di un territorio multiculturale e bilingue. L ’imposizione dell’ispettorato del Ministero della cultura slovena di togliere le targhe con gli antichi odonimi storici, perché non sufficientemente “rispecchianti” la lingua slovena, ovvero senza la traduzione in sloveno degli odonimi italiani risalenti al periodo austro-ungarico, ha amareggiato tutti.
Si tratta di un atto che ci ricaccia indietro nella storia, ci rimanda ad epoche che credevano sinceramente superate. Non si tratta solo di una chiara violazione dei principi di convivenza e multiculturalismo, oltre che dei diritti fondamentali della comunità nazionale italiana, di un oltraggio all’identità plurale e composita del territorio, ma di un esempio che, senza timore di esagerare, potremmo definire di “culturicidio”.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, con l’esodo, questi territori sono stati sottoposti a un graduale processo di sradicamento, di contenimento e di emarginazione civile, culturale e linguistica della componente veneta e italiana. La presenza culturale italiana è stata via via ridotta al lumicino, nonostante gli sforzi profusi per attuare il bilinguismo nel territorio nazionalmente misto e realizzare i diritti – formalmente molto elevati – della comunità italiana. Una battaglia – quella per il bilinguismo e i diritti acquisiti – che si protrae da tempo, fra alti e bassi, ma che si sta riducendo a una costante e frustrante azione di “difesa”, di “rattoppo”, a un gioco di rimessa.
Ora, quest’ultimo atto sta confermando una prassi presente da lungo tempo che consiste nel tentativo di “cancellare” la presenza storica e culturale italiana in quest’area. La volontà cioè di ridurre, modificare o impoverire la complessa identità multiculturale del territorio: un valore, una ricchezza condivisi da tutte le sue componenti. Di annullare un’”idea” di convivenza e condivisione di storia, di retaggi, di apporti, tradizioni, radici, cultura di cui siamo, o dovremmo essere orgogliosi.
L’immagine degli addetti comunali che “rivoltano” le targhe con gli odonimi storici, esponendo la parte retrostante, nuda, priva di scritte, è scioccante: una scena altamente simbolica per la sua valenza negativa, il segno di una sconfitta per tutti.
È il simbolo della “tabula rasa”: la tavoletta cerata usata dai romani per scrivere, quando veniva completamente cancellata per essere usata nuovamente. La “cancellazione” di un messaggio della storia, di una parte della nostra identità collettiva, per lasciare il silenzio della memoria rappresentato da una targa senza segni, muta, oltraggiata. Un vergognoso “vuoto” indicante la mancanza di cognizioni sulla propria storia, sul proprio presente, il proprio futuro. L’esemplificazione di una capitolazione culturale; la riduzione di un’antica eredità a un labile ed evanescente segno sulla sabbia, alla mercè di ogni vento o risacca.
Il recupero, la valorizzazione e il rispetto degli odonimi storici, la promozione dell’identità e dei valori del territorio attraverso il giusto riconoscimento dei personaggi del passato, delle tradizioni, di quegli “spazi” della memoria che connettono le persone al proprio territorio sono, per i suoi abitanti, e per una comunità minoritaria come la nostra, altrettanto se non più importanti del bilinguismo visivo. Piazza del Duomo, Via degli Orti Grandi, Piazza Brolo, o i riferimenti storici a Santorio Santorio, Pier Paolo Vergerio, Girolamo Gravisi, Gian Rinaldo Carli, Antonio Tarsia ci dicono di più su quello che siamo delle scritte “macelleria – mesnica”, “sodišče – tribunale«, “stazione – postaja” o “ulica – via della Riforma agraria”.
È per questo che le “targhe rivoltate” o “girate” sono un grave insulto al sistema di diritti della minoranza così faticosamente costruito e tenacemente difeso negli anni. Sono il venire meno alla promessa che un territorio e una comunità politica hanno fatto a sé stessi: rispettare e valorizzare le diversità, la propria identità multiculturale.
Il Comune di Capodistria ha reagito all’ultimatum dell’ispettorato del Ministero della cultura con un atto di protesta, quello delle “targhe girate”, accompagnato da lettere, azioni di ricorso e forti richiami al Governo e alle più altre cariche dello Stato. Per la Comunità nazionale italiana sarebbe stato meglio invece lasciare le targhe com’erano, resistere, opporsi, avviando una vera e propria battaglia politica e legale, adottando, invece del metodo delle “targhe rivoltate” quello della “rivolta delle targhe”.
Non si doveva cedere; rimuovere le targhe è un atto d’arresa, il riconoscimento – pure nell’indispensabile rispetto della legge a cui sono tenuti tutti i soggetti, e in primo luogo le autorità locali – che i nostri diritti e i nostri valori possono essere calpestati.
Comunque il dado è tratto, ed ora ciascuno farà la sua parte nel contenzioso politico, giuridico, costituzionale, morale che la questione ha innescato: una vicenda di cui non siamo in grado di prevedere gli esiti, ma che sarà sicuramente lunga, faticosa e complessa.
Forse non ci accorgiamo dell’inevitabile quanto triste portata simbolica delle “targhe al contrario”. Possiamo interpretarle come un atto di sottomissione, ma anche come un‘espressione di dissenso, cui potremmo aggiungere, per quanto riguarda la CNI, l’oscuramento simbolico, quale atto dimostrativo, di disapprovazione e di protesta, delle targhe e dei simboli delle istituzioni comunitarie. Negli USA issare la bandiera capovolta rappresenta una richiesta di aiuto, quando ci si trova in grave difficoltà.
Oggi quelle “targhe rivoltate” o “rovesciate” a Capodistria purtroppo rappresentano plasticamente la condizione della nostra minoranza.
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